Ciò che è vivo e ciò che è morto nella socialdemocrazia

Risposta a Lapo Berti

di Salvatore Biasco –

Pubblichiamo la replica di Salvatore Biasco alle considerazioni che Lapo Berti ha sviluppato a partire da una recensione dell’ultimo lavoro di Biasco, Ripensando il capitalismo. Al centro della discussione c’è il destino della prospettiva socialdemocratica di fronte alla metamorfosi attuale del capitalismo e della eventuale possibilità di pensare prospettive alternative che tengano conto di come cambiano le società capitalistiche i loro valori di riferimento

Ringrazio Berti per l’attenzione che dedica al mio libro e per la garbata discussione che conduce su molte mie tesi. Mi dà l’occasione per alcuni chiarimenti.

Il mio libro ha uno dei suoi fuochi principali nella ricerca di ciò che è vivo e ciò che è morto nella socialdemocrazia, alla luce delle tante trasformazioni che ha subito la società occidentale dall’epoca della sua epopea (struttura sociale più aperta, differente consenso sulle politiche, differenziazione delle domande, perdita di efficacia delle politiche nazionali, ecc.). A me sembra che Berti azzeri la ricerca e mi descriva come chi voglia trasporre ad oggi, nella sua interezza, l’armamentario socialdemocratico tradizionale, senza fare i conti con quelle trasformazioni e concentrandosi solo sulla sconfitta culturale. Non nego che abbia cittadinanza nel libro il mio convincimento che le idee abbiano anche una loro autonomia e a volte siano un motore primario della società. Ma Berti non deve farsi trarre in inganno dallo spazio che do all’argomento. Non sono così ingenuo da non capire che le idee vanno in parallelo con i mutamenti profondi della struttura produttiva e sociale. Ma, mentre questi ultimi mi sono sembrati più battuti, percepiti e studiati, la sconfitta sul piano culturale mi è sembrata necessitasse di maggiore evidenza. La destra non ha vinto su quel piano attraverso il controllo dei mezzi di comunicazione (che non cito mai) o per il dispendio di risorse economiche (come Berti mi attribuisce), ma per la forza della sua elaborazione, concomitante a tanti elementi che analizzo (nel cap. 2, § 3).

Se è vero che non si possono riproporre tali e quali i contenuti dell’epoca d’oro della socialdemocrazia, é pur vero che il patrimonio fondante della sinistra rimane in eredità importanti che essa ci ha lasciato. Questo é quanto meno la mia conclusione. “Socialdemocrazia” è “una visione del mondo” prima ancora di essere una organizzazione politica o un gruppo di politiche. E’ la visione di una società in cui siano esaltati i legami collettivi (sempre), dove la coesione sociale è una priorità, dove la logica del mercato è temperata e corretta dall’autorità dello Stato e dalla sua azione diretta, dove lo Stato è un mediatore attivo tra interessi e aspirazioni diversi (ma anche il depositario dell’interesse nazionale, verso il quale tende a far convergere tutti i gruppi sociali, non mortificando la partecipazione e esaltando la responsabilità). Più volte la identifico con una società governata, in cui le riforme (che per me non hanno il riferimento mistico che hanno assunto, ma volgono all’introduzione di socialità nel meccanismo capitalistico) sono tutt’uno con la costruzione dei legami collettivi. La identifico con la società cooperativa e comunitaria. Non c’è bisogno di un eccesso di statalismo per questo, ma c’è bisogno che non sia il mercato a determinare la regolazione sociale. Certo, bisognerà tener pur sempre conto che la logica capitalistica pone dei limiti (che comunque occorre tentare di forzare) e che una forza di governo non trova legittimazione senza la capacità di dimostrare che é in grado anche di mantenere dinamica l’economia e la società. Ma questo è ciò che i socialdemocratici hanno sempre saputo.

E’ diventato di moda (ma non è argomento del commento di Berti) affermare che se la base di azione della socialdemocrazia era il keynesismo, inteso come “spesa pubblica in deficit”, e che questo é stato reso ora anacronistico dalla stagflazione e dal restringimento dell’autonomia dello Stato nazionale. Ma il keynesismo é una costruzione più complessa, che parte dall’idea che il sistema non si autoregola, che la finanza può imporsi sul meccanismo produttivo, che il sistema si regge sui beni pubblici, e tra questi, il primo in assoluto, è il bene pubblico “fiducia collettiva”, che solo lo Stato può fornire. Tutte le trasformazioni potevano (e dovevano) portare a una revisione della concezione più semplice (quella relativa alla spesa), ma non superavano la concezione più complessa (instabilità e fiducia collettiva). La sinistra é rimasta sulla difensiva e non è riuscita a rispondere all’offensiva della destra e, a poco a poco, ha fatto sue (con qualche mal di pancia) diagnosi e prescrizioni di quest’ultima.
Berti parte da un’altra “visione del mondo”, per la quale “socialdemocrazia” (un termine che, tuttavia, io uso anche in senso convenzionale come sinonimo di “sinistra) é quasi una parolaccia. Beninteso è una visione legittimissima, ma dalla quale dissento. Egli dà quasi l’impressione di credere che viviamo in un mondo post ideologico in cui questi riferimenti appartengano a un passato lontano. Una buona regolazione risolve tutta la dialettica stato-mercato, check and balances risolvono quella politica. Berti diffida dello Stato e della discrezionalità pubblica sulla base che lo Stato è, di fatto, affidato all’azione di uomini (e donne) in carne e ossa, che non sono sgombri da interessi specifici e passioni. E’ una teoria pericolosa. che viene introdotta come se “il mercato” non fosse composto da uomini e soprattutto non fossero uomini (e donne) i regolatori e i controllori che dovrebbero interporsi tra i potentati politici e economici e l’”interesse generale”. Uomini, con le loro ideologie, background, idiosincrasie e preferenze, spesso mascherate dietro un’apparente oggettività insita nel tecnicismo delle materie trattate. Ne abbiamo avuto recenti esperienze in Italia.

La sua pars destruens è affidata all’affermazione che il processo politico non sia più crucialmente governato dalla segmentazione duale prodotta dal processo lavorativo; affermazione che egli oppone allo schematismo, che mi attribuisce, di chi vede la società come dicotomica. Non riesco a capire cosa legittimi Berti ad attribuirmi questa visione o a pensare che sia fondamentale nelle mie argomentazioni (“A Biasco non viene nemmeno in mente che oggi una prospettiva riformista debba far riferimento non a un ipotetico mondo del lavoro subordinato cui si contrappone una presunta borghesia capitalistica, ma” …(segue la pars construens). A parte il fastidio che provo per l’abuso del termine “riformista” senza alcuna indicazione di che tipo di riformismo si tratti, sfido Berti a trovare una singola frase che suffraghi questa attribuzione, non nel libro, ma in qualsiasi scritto io abbia prodotto in precedenza. Non mi piace questo modo di discutere banalizzando le posizioni dell’interlocutore. Nel libro rimprovero alla socialdemocrazia europea nella sua versione recente di essere stata incapace di produrre una sintesi sociale (cap 3, § 1) e alla sinistra italiana di non aver capito che in questa sintesi (che “superava l’essere espressione di insediamenti sociali definiti”) avrebbe “dovuto coltivare – oltre l’obiettivo di porre argini allo sfrangiamento del tessuto connettivo e alla dispersione dei “lavori” (sottolineo il plurale) – quello di disarticolare il nucleo chiave del blocco di consenso dell’avversario, cioè un corpo sociale centrato sulla società produttiva diffusa e sul lavoro autonomo, in un’offerta politica, che partisse da una reinterpretazione in chiave lavorista della sua collocazione nella società” (Cap 5 § 2). Il mio libro precedente (“Per una sinistra pensante”) dedica due dei suoi cinque capitoli (quello sul genericismo della classe dirigente della sinistra e quello sul ruolo dei soggetti economici collettivi nel processo decisionale) alla società dispersa e al lavoro autonomo. In questo volume, mi chiedo retoricamente se “la costruzione politica di coalizioni che lottano per l’eguaglianza non debba riguardare condizioni di vita complessive e non la semplice identità lavorativa” (cap 4, § 4). Certo, io ritengo che l’abbandono del luogo di lavoro e della politicizzazione del rapporto di lavoro come terreno di contesa politica sia stato un errore (è un giudizio politico), ma il cuore della mia analisi è nell’affermazione che la diseguaglianza non è solo nel potere squilibrato tra lavoratori e imprese, ma in condizioni più generali della vita di ciascuno – nelle opportunità offerte, come nella faticosità stessa della quotidianità (certamente legata alle condizioni sociali), relativa a abitazione, trasporti, capacità di consumo, protezione della salute, opportunità per i figli, orari e onerosità dei lavori, tranquillità soggettiva, ecc.. Per una buona fetta della popolazione tutto ciò non è un problema, ma per un’altra tocca aspetti di vita nei quali si consuma una diseguaglianza forte con la parte agiata). Da qui nasce una domanda che è un altro punto focale del libro “perché la piramide non si é spezzata politicamente in due tronconi, sopra e sotto, e le diseguaglianze non son divenute motore del cambiamento sociale?”. Indipendentemente dalla risposta che ne do io, quella domanda è cruciale come terreno di ricerca per la ricostruzione di un programma politico della sinistra e perché essa ritrovi un senso alla sua missione.

In alternativa, la pars construens di Berti (che egli oppone a un nemico di comodo) indica alla sinistra la necessità di guardare a “quel 99% della società della società che si è presentato sulla scena per contrastare lo strapotere finanziario globale (Occupy Wall Steet)”. Può darsi che con questa frase, che ripete due volte, Berti voglia sintetizzare cose molto importanti e innovative, ma deve rendersi conto che così come è posta è fumosa, non significa quasi nulla, non indica un programma politico, o un modo d’essere della sinistra. Niente concreto di fruibile.