Città autosufficienti con la stampa tridimensionale

Come l’innovazione può cambiare le nostre vite

di Neal Peirce

Alcune innovazioni tecnologiche, se attentamente considerate, possono davvero ribaltare in modo stupefacente l’idea di organizzazione urbana tradizionale e di economia locale.

Si è parlato tantissimo ultimamente della stampa tridimensionale e delle sue meraviglie: una tecnologia emergente che potrà riuscire a riprodurre qualsiasi oggetto, dai sublimi strumenti musicali (un violino Stradivari) agli strumenti di morte (un’arma di fuoco). Ma la stampa 3D può far molto di più che produrre oggetti: può cambiare le città del mondo, forse in modo radicale, trasformandole anche di nuovo in grandi laboratori di produzione. Da un certo punto di vista la 3D ci potrebbe riportare anche più oltre, verso un modello simile al villaggio di epoca preindustriale, quando erano il fabbro o il sarto a costruire sul posto ciò di cui si aveva bisogno, e le città erano molto più autosufficienti.

Come è possibile che questa tecnologia, oggi ancora ai primi passi, riesca a produrre cambiamenti radicali del genere? E innescare sviluppi di profondità paragonabile a quelli del vapore, delle lampadine, dell’energia atomica o dei microchip? Faccio qui riferimento alle ricerche di Banning Garrett, responsabile per l’innovazione e le tendenze globali per l’Atlantic Council, di Thomas Campbell del Virginia Tech, degli analisti alla National Defense University e molti altri. Che evidenziano sino a che punto una volta che un computer sia riuscito a riassumere strato dopo strato tridimensionalmente un oggetto – dalla chiave inglese all’iPhone – quel file poi venga spedito alla sofisticata stampante, che dista un metro, o via internet in tutto il mondo, nel giro di qualche secondo. La stampante poi riproduce l’oggetto per strati, uno alla volta, coi vari materiali. Col 3D il prodotto finale emerge in un unico processo, a differenza della manifattura tradizionale che spesso richiede costosi passaggi di produzione, lavorazione, assemblaggio di migliaia di componenti, ciascuno di provenienza diversa e lontana.

Ciò significa possibilità di produzione su richiesta, eliminazione dei grandi depositi e magazzini, eliminazione delle lunghe attese per un articolo o componente spedito da lontano. Basta un solo produttore per quantità e articolazioni infinite. Sarebbe possibile de-globalizzare l’attuale produzione e distribuzione, ridimensionando drasticamente ad esempio il sistema portuale delle navi container, o del trasporto su camion che brucia carburante attraversando i continenti. La forte dipendenza degli Stati Uniti dalle produzioni estere, specie dalla Cina, ne uscirebbe radicalmente ridotta, e in generale si ridurrebbe altrettanto l’impronta ecologica di produzione e trasporti. La 3D taglia anche scarti e uso di materiali pericolosi nelle fasi produttive, e riduce la domanda per risorse non rinnovabili, come le terre rare.

Il prezzo delle stampanti tridimensionali si è molto ridotto, al punto che qualunque inventore oggi è in grado di pensare, produrre, sperimentare, e nel caso funzioni mettere sul mercato, ogni cosa. E instaurare immediatamente un rapporto col consumatore. “Inventore, capitalista, produttore, distributore: tutti concentrati nella medesima persona”, nota Garrett. Un modello che si adatta perfettamente all’ambiente urbano, con la sua società creativa che si ritrova magari in un caffè a scambiare idee, e se c’è bisogno di qualche competenza la trova facilmente nell’università poco distante. Concetto e impianti 3D possono diventare diffusi così come succede oggi alle normali “apps” che i giovani di oggi usano e migliorano senza alcuna difficoltà. Col 3D, a differenza di quanto accade con la produzione di massa, anche il consumatore fa parte attiva del processo. E migliora il prodotto: basta pensare a una scarpa in grado di adattarsi perfettamente a chi la dovrà indossare.

Nel caso di disastri come gli uragani Katrina o Sandy, quando tutti gli impianti si bloccano, col sistema 3D li si possono rapidissimamente analizzare o riparare o riprodurre: un enorme progresso per la ricostruzione. Garrett ce ne fa un esempio particolarmente futuribile, della 3D e delle sue possibilità: un mondo di gran lunga più decentrato di quanto non sia ora, con prodotti (e personalizzazioni) del tutto locali. Alimenti prodotti in fattorie verticali, anche la carne 3D (da colture di cellule di origine animale). Un paziente ha bisogno di un fegato nuovo, ecco che questo può essere ricavato direttamente dalle sue cellule.Ma Garret aggiunge che un mondo decentrato e quindi molto resiliente, non significa rinuncia alla rete dell’economia mondiale: è ancora il villaggio globale di internet, dove dappertutto circolano le migliori idee (e i files tridimensionali).

Con tutta questa efficienza e assenza di sprechi, si riduce la dipendenza da materiali com acciaio, o titanio, si possono usare energie da fonti rinnovabili come vento e sole, a sostituire carburanti che oggi vengono importati da centinaia, a volte migliaia e migliaia di chilometri di distanza. Una visione scintillante, che senza alcun dubbio passa però anche attraverso l’inevitabile, magari drammatica, perdita dei posti di lavoro produttivi tradizionali (salvo forse le produzioni standardizzate su grosse quantità). Fra gli altri aspetti negativi, col 3D è più facile imitare, aggirare la proprietà intellettuale. Però succede raramente, che compaia una tecnologia con tante possibilità rivoluzionarie per il nostro progresso e benessere, nelle città e nei territori circostanti, in cui abiteremo nei prossimi secoli.

Titolo originale: More Self-Sufficient Cities in a 3D Printing World – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini
Ripreso da CityWire
Versione italiana di Eddyburg