Dare ‘spazio’ al lavoro

Il terzo appuntamento di Lib21 alla Casa dell’architettura

La crisi svuota le fabbriche, i luoghi di lavoro, gli esercizi commerciali, le sedi delle amministrazioni pubbliche, talora anche le abitazioni. In una parola, la crisi svuota la città, lascia sul terreno i segni drammatici del suo passaggio sotto forma di edifici vuoti, abbandonati, spesso esposti al degrado. La crisi trasforma la città, la rende disponibile per nuovi sviluppi.

Tomaso Filippi, 1917. Un gruppo di sarti veneziani sfollati dopo la disfatta di Caporetto condividono uno spazio, riutilizzandolo come sede di lavoro.

La città è in costante, inesorabile trasformazione sotto la pressione della miriade di progetti individuali e collettivi che ogni giorno si intersecano e si scontrano nel suo spazio. Ma nella crisi la città subisce una torsione profonda delle sue abitudini, lo stravolgimento dei contesti lavorativi, abitativi, relazionali. Nella crisi, tuttavia, la città vive anche gli spasmi che generano il nuovo, le tensioni che portano all’affermarsi di nuovi bisogni, di nuovi progetti, i movimenti attraverso cui nuovi soggetti si fanno strada sulla scena urbana. La società urbana, aggredita dalla crisi, si scompone, vede venir meno i gangli della coesione sociale, ma prova, nel contempo, a ricomporsi, anche attraverso un uso diverso del territorio e degli edifici.

Le “aree dismesse”, come vengono di solito definiti, in maniera colpevolmente asettica, tutti quei luoghi del tessuto urbano che hanno vissuto le tragedie del lavoro che si è perso, le trasformazioni imposte da un mondo in rapida evoluzione sotto l’insegna, talora minacciosa, talora accattivante, di quel fenomeno cui si dà il nome di “globalizzazione”, non devono diventare “aree abbandonate”. La città, i cittadini, devono rimarginare quelle ferite nel corpo vivo del tessuto urbano, devono mantenere la presa su quei luoghi perché tornino a vivere, accompagnando e non solo subendo le trasformazioni che la città soffre e vive. La vita della città, al di là delle logiche privatistiche che governano l’uso del suolo, la destinazione delle aree, la proprietà degli edifici, è un bene comune, un processo in divenire che interessa tutti e a cui tutti, dunque, devono essere interessati, perché da esso dipende la qualità delle loro vite, la possibilità stessa di perseguire il proprio progetto di felicità.
La metamorfosi della città, con tutti i suoi drammi, racconta in primo luogo le peripezie del lavoro che nel corso del tempo ne hanno disegnato la composizione sociale insieme con il profilo urbanistico. Le città di oggi ci raccontano la crisi del lavoro operaio e la scomparsa di quella composizione sociale che ruotava intorno alla figura del lavoratore manuale, vero architrave dell’intero mondo del lavoro dipendente in tutte le sue declinazioni. Oggi il lavoro operaio è pressoché scomparso dal panorama urbano e quello impiegatizio soffre ormai da decenni l’erosione del proprio ruolo da parte della tecnologia informatica e il progressivo restringimento del settore pubblico che, specialmente a Roma, ne era il principale campo d’applicazione.
Ma la crisi ci racconta anche la comparsa di nuove figure professionali che, in mezzo a mille sofferenze, a mille soprusi, a mille difficoltà, ripropongono la dimensione del lavoro come costitutiva dell’ordine sociale, per lo più in una condizione di autonomia e di indipendenza. Ci racconta di nuove forme di lavoro, di nuove modalità di cooperazione. Una nuova composizione sociale si fa avanti e chiede spazio per affermarsi.
Non è e non sarà senza conflitti. Il nuovo, per farsi strada, per affermarsi con una nuova cifra sociale, si scontra inevitabilmente contro il muro della conservazione, degli interessi che, appagati e nutriti da decenni di immobilismo, vedono come una minaccia qualsiasi tentativo di spostare gli equilibri esistenti, di immaginare soluzioni alternative, di intraprendere percorsi diversi, per una società che si liberi dei vincoli e delle pastoie che finora l’hanno mantenuta al di sotto dei livelli che la promessa democratica aveva fatto intravedere.
Anche il conflitto fa parte di quel bagaglio rimosso e dismesso del Novecento di cui occorre progettare il riuso, perché una società senza conflitto cessa di essere democratica e diventa preda delle oligarchie, economiche o politiche che siano. Solo una forte tensione sociale, volta alla conquista di nuovi spazi e alla costruzione di inediti rapporti di forza può ridare senso e prospettiva al vivere collettivo.
La conformazione della città, i suoi spazi, i suoi ritmi, la sua vita, devono essere riportati in sintonia con la sua composizione sociale, con i bisogni e le attività di coloro che la abitano e la vivono. Un’amministrazione consapevole del proprio ruolo di levatrice del nuovo, di accompagnatrice della metamorfosi che, specialmente in un periodo di crisi, investe la città, deve porsi all’ascolto di quello che si muove dentro le viscere della vita urbana, per cogliere le tendenze, le pressioni, che nuovi attori sociali, nati anche dalla crisi e nella crisi, esercitano per dare vita ai loro progetti. Gli spazi della città devono tornare a vivere in funzione di questi movimenti. Al lavoro che quegli spazi ha abbandonato o ne è stato cacciato occorre ridare spazio nella progettazione urbana perché i nuovi lavori, i nuovi stili di vita e di produzione che la fantasia sociale via via produce possano trovare gli spazi necessari per svilupparsi. Il lavoro deve essere posto al centro della nuova questione sociale aperta dal trentennio neo-liberale.
Solo da questa simbiosi tra movimenti sociali e dinamiche urbanistiche può uscire e prendere forma una prospettiva di superamento della crisi che sia fondata sulla creatività, sull’innovazione e sul recupero di quello che, nel bene e nel male, il vecchio modello di sviluppo ha depositato sui nostri territori.

Il 5 dicembre alle ore 17, alla Casa dell’Architettura di Roma, Piazza Manfredo Fanti 47, il terzo degli appuntamenti “Qualità della vita è…”, progettati e organizzati da Lib21, in collaborazione con NexT e la Consulta Professione Junior dell’Ordine degli Architetti di Roma, affronta il tema DARE SPAZIO AL LAVORO, proponendo una riflessione sugli spazi vuoti della città alla luce delle esperienze in atto di riuso di alcuni di essi e in un confronto con le amministrazioni cui spetta il governo dell’economia e del territorio.

PROGRAMMA DELL’INCONTRO
Introduce Lapo Berti, economista (Lib21)
Coordina Rossella Aprea, documentalista (Lib21)
Partecipano:
Paola Ricciardi (Ordine degli Architetti di Roma)
Francesco Raparelli (Officine zero)
Laura Calderoni (OpenCity)
Giuseppe Allegri e Roberto Ciccarelli (Quinto stato)
Fabio Massi (ACTA)
Valentino Bobbio (NexT)
Paolo Deganello (Designer)
Aldo Bonomi (sociologo, AASTER)
Conclude:
Massimiliano Smeriglio (Vicepresidente Regione Lazio)