Elezioni e cittadinanza attiva

I vizi della società civile

di Marta Boneschi –

In questi giorni ci stiamo comportando come se il 24 febbraio, giorno delle elezioni politiche e regionali, si giocasse una partita decisiva. Come se avessimo appuntamento nientemeno che Lepanto o Waterloo. La partita è grande, questo è evidente, ma ci vuole ben altro per rigenerare la società, ripristinare la convivenza e riscattare il destino della generazioni presenti e future.

Chi ha letto l’articolo vecchiotto ma straordinariamente fresco e vitale di Francesco De Sanctis (Mali antichi: l’Italia, una società assente e irresponsabile), avrà valutato la profondità del male da estirpare, e il lungo cammino di civiltà che occorre intraprendere. Sono passati centotrentasei anni, e ancora l’avversario da battere è, sì, un leader di partito indecente (uno dei tanti), ma più di tutto ciò che nasconde sotto la giacca, nelle cellule cerebrali, nel fondo dell’anima: l’angustia dell’egoismo (ricordate il “padroni in casa propria”?), l’indifferenza (“rubano tutti, che male c’è?”) e il particolarismo (“il 75 per cento delle tasse resta in Lombardia”), l’elementare semplicità delle soluzioni (“cacciamoli tutti”).

Se atonia e ipocrisia erano mali troppo diffusi già nel 1877, data dell’articolo di De Sanctis, e se li ravvisiamo ancora oggi tra noi, vuol dire che siamo alle prese con una malattia subdola. La stessa che ha prodotto l’incompetenza di Adua nel 1896, l’autoritarismo del maggio 1898, l’ascesa irresistibile del fascismo nel 1922 e, ancora vivi e operanti, il clericalismo, l’ignoranza, le connivenze, la mentalità corporativa.

Scriveva De Sanctis che «il paese spettatore, ingigantendo, fantsticando, genralizzando, assiste allo spettacolo e ne fa il suo passa ozio. E’ una malattia che colpisce tutte le classi, le infime in una forma grossolana, e quasi cinica le altre, sotto un’apparenza ipocrita che mai dissimula il vuoto». Sentiamo evocare, come in una profezia, le migliaia di bocche aperte, pronte a bere il verbo di Grillo, o lo sguardo estatico delle finte bionde quando appare lui, Berlusconi. Il paese spettatore si accontenta, afffidando il proprio destino in mani altrui, in mano a qualcuno che è maestro nell’arte di imbonire piuttosto che di ragionare sui casi reali.
E’ curioso, ma dolorosamene curioso, che le parole di De Sanctis fluivano dalla penna quando gli italiani erano soprattutto contadini, quando la vita media superava di poco i quarant’anni, quando si moriva prevalentemente di polmonite e di colera, quando gli elettori erano meno del 2 per cento della popolazione, quando la cultura politica era una novità tutta da apprendere e lo spirito civico di là da venire. Possibile che l’Italia di oggi presenti gli stessi vizi, soffra di debolezze quasi uguali? La risposta è sì, perché il suffragio universale, la buona alimentazione e un suv in garage non sono tutto. Manca il senso profondo della solidarietà e della convivenza, la buona educazione (che non sono le buone maniere), risorse preziose da accumulare in decenni, nel corso di generazioni, non da acquistare al supermercato.

Ancora più impressionante è il seguito di De Sanctis, perché tratta non dei contadini isolati e non istruiti, ma di quella che si suppone sia la classe dirigente: «Quanto alle classi che si dicono intelligenti, si dice così per dire. Tra noi generalmente è una mezza coltura, peggiore dell’ignoranza; un impasto di idee vecchie e di qualche idea nuova; si legge poco e si studia meno». E qui pare che la profezia sull’eternità del “popolo spettatore” descriva proprio i fatti di oggi. Non sentiamo nelle orecchie i ritornelli sul diritto al posto di lavoro (non al lavoro, dunque, ma a una prebenda), sui ricchi che dovrebbero piangere per fare contenti i poveri; la “mezza coltura” è tuttora quella che confonde i bond al Monte dei paschi con un regalo dei contribuenti, la spesa pubblica con lo spreco delle risorse pubbliche, il disavanzo con il debito, il dibattito con la polemica e così via.

La diagnosi di De Sanctis evoca anche l’immagine, degna delle scenette di Franca Valeri di mezzo secolo fa, di un’abbiente signora milanese che, richiesta di poche centinaia di euro per finanziare la pubblicazione di un libro, le negava, per poi tuonare davanti a una tavola imbandita che «nessuno sostiene la cultura». O ancora quel marito, degno di una storia all’Alberto Sordi, che dopo aver proposto alla moglie di trascorrere la settimana nella cosa coniugale e il week end con la giovane compagna, si indignava per il ritorno della poligamia nel Sudafrica dopo Nelson Mandela.

La “classe intelligente” di De Sanctis si è trasformata, ora ha ampio diritto di parola, si esprime in linguaggio forbito, ma nelle fibre intime è rimasta passiva, indifferente, miope. E’ questa la cosiddetta “società civile”, una dizione fittizia e ingannevole. Non esiste alcuna società civile, ma individui o gruppi che si comportano anche da cittadini, e individui o gruppi che non dispongono (o rifiutano di disporre) degli strumenti che li innalzano a qualche cosa di più di una piccola e fragile creatura inerme. Non è questione di società civile, contrapposta a una società politica, a una casta. E’ soltanto questione di senso civico, questi “intelligenti” pensano in modo ristretto, agiscono pensando soltanto a se stessi nel misero orizzonte di un appartamento costosamente arredato, un solido conto in banca (estera?), abiti alla moda e vacanze nei paradisi tropicali (o fiscali?).
La divisione in seno alla comunità nella quale viviamo passa tra chi accetta la sfida di cercare il meglio, e farlo, e chi si adagia e subisce. Tra chi va a scuola e chi smette di studiare; tra chi prende e dà ai propri simili senza curarsi, come detta la Costituzione, che siano uomini o donne, cattolici o protestanti, neri o bianchi, belli o brutti. Tra chi legge libri, guarda film, visita musei e mostre, apprezza le bellezze naturali e si batte per conservarle e valorizzarle. Tra chi educa i figli e chi si limita a rimpinzarli di nutella. Tra chi lavora soltanto per fare carriera e chi lavora per procurare un’esistenza dignitosa e fruttuosa a sé e ai propri cari. Oltre il confine sta chi se ne infischia di tutto ciò.

Circola sempre la moneta cattiva e quella buona. La prima è quella evocata da De Sanctis e mai abbastnza defunta, la seconda è quella che ha consentito di non degradare del tutto il paese nel ventennio passato. La moneta cattiva porta i nomi di Scilipoti, di Papa, di Fabrizio Corona, dello star system che si è preso il diritto di parola e fa il cattivo maestro. La moneta buona sono i banchieri onesti e capaci, gli insegnanti che non smettono di studiare, le volontarie degli ospedali, delle case di riposo, delle case famiglia, e più semlicemente i medici che curano, i genitori che educano, gli studenti che studiano e così via.

E’ vero che moneta cattiva scaccia quella buona, ma con un po’ di ostinazione può – e deve – accadere il contrario. In questo senso possiamo trarre coraggio dal caso di Milano, tratteggiato in estrema sintesi da un sondaggio Ipsos. Prima che Giuliano Pisapia fosse eletto sindaco nel 2011, Milano aveva un’amministrazione opaca, difesa a spada tratta da chiunque avesse un tornaconto a difenderla, dedita al bene di pochi e indifferente al bene comune, attenta al presente e distratta sul futuro. Diciotto mesi di esperienza della giunta Pisapia danno il responso che segue: 4 su dieci cittadini sono soddisfatti e 1,5 molto soddisfatti. Tutt’altro che immune da lentezze ed errori, la giunta Pisapia è riuscita a mostrare impegno per i problemi reali della città. Lo spirito civico dei milanesi più accorti si rispecchia in questo impegno, e torna a sperare il meglio. Inoltre, rivela il sondaggio Ipsos, i giudizi positivi sono in aumento, segno che anche i perplessi cominciano a vedere la differenza con l’amministrazione passata, e la differenza sta appunto nelle priorità, dove l’attenzione a pochi lascia gradatamente il posto all’attenzione a molti. Il sentimento di fiducia nelle istituzioni sale intanto dall’11 al 18 per cento, e si potrebbe definire una salita vertiginosa. Nello stesso tempo la condanna più severa dei milanesi colpisce la corruzione (percepire bustarelle è il comportamento peggiore per il 33 per cento, seguito dall’evasione fiscale con il 26 per cento).

Dunque, per tornare al punto di partenza, le elezioni sono importanti: il nuovo Parlamento, il nuovo governo e le nuove amministrazioni regionali sono attesi con ansia. Ma è giusto considerare la svolta, che ci sarà, soltanto come punto di partenza verso un nuovo patto tra istituzioni e cittadini: se le une lavorano in trasparenza e onestà per il bene pubblico, gli altri lo riconoscono, lo apprezzano e forse si sforzeranno di adeguarsi, recuperando a loro volta onestà e solidarietà.
Al caso virtuoso della cittadinanza milanese va contapposto, purtroppo, il caso vizioso della pubblica amministrazione, incallita a vessare quanto la cosiddetta “società civile” è pervicace nell’evadere obblighi e doveri. Il varo del redditometro è un esempio illuminante: strumento del tutto inutile ai fini pratici, il redditometro è però utile a ricordare che il suddito è per lo più inerme di fronte al Leviatano statale. Terrorizza e non educa, aumenta i doveri del contribuente e moltplica il lavoro dell’amministrazione. Proprio ciò che non desideriamo per il nostro futuro.

Ma c’è dell’altro a suggerire che la “società politica” non sa emendarsi. Nella farraginosa riforma del lavoro, è previsto che anche per le badanti sia versato il contributo di licenziamento, poco meno di 500 euro l’anno. E’ un modo piuttosto canagliesco di rastrellare denaro, pescando tra i deboli, gli anziani, già tartassati dal taglio delle pensioni, dall’IMU e dal rincaro delle bollette. E’ un modo ben noto e sperimentato in passato per incentivare l’evasione contributiva.
Si tratta di due piccoli esempi, tra i tanti. Quel che più conta, però, è la cultura che ispira questo tipo di scelte. Ancora una volta, come ai tempi di De Sanctis, ci troviamo di fronte agli schieramenti contrapposti: il “popolo spettatore”, passivo, ignorante e indifferente, costretto tuttavia a farsi furbo, e il “principe onnipotente” che spadroneggia senza curarsi delle conseguenze. Avvertiva Montesquieu che «la tirannia di un principe non è più rovinosa per uno Stato di quanto sia per una repubblica l’indifferenza per il bene comune».

Se vogliamo archiviare per sempre l’accorata analisi di De Sanctis, senza cadere nel dilemma proposto da Montesquieu, occorre un patto nuovo, onesto e dignitoso, tra i cittadini amministrati e i cittadini che amministrano, ovvero tra chi ha il potere e chi non ce l’ha. Non importa chi depone le armi per primo, purché qualcuno lo faccia. Quel che importa è che la cultura paranoica (lo Stato ce l’ha con me, il fisco mi vessa, il politico ruba per mestiere), lasci il posto alla speranza che un giorno o l’altro potremo legge le parole di De Sanctis come la testimonianza di un passato barbaro e incivile.