I motori inceppati dello sviluppo

Il caso Canavese

di Aldo Bonomi –

Qui c’è stata la battaglia tra il fordismo duro della Fiat di Valletta e quello dolce di Adriano Olivetti. L’integrazione virtuosa con Torino metropoli meta imprescindibile di idee, infrastrutture, nuova classe dirigente

L’incendio che ha mandato in fumo alcune strutture industriali a Scarmagno, dove negli anni ’80 si producevano gli M24 che facevano dell’Olivetti il competitor di Ibm nel mercato mondiale dei Pc, e una ricerca del gruppo giovani imprenditori della locale Confindustria, che si chiedono “cosa sarà” del Canavese, sono occasione per tornare sul luogo del delitto, in uno dei microcosmi più densi di storia industriale del paese.
Qui si è combattuta la battaglia tra il fordismo “duro” della Fiat di Valletta e quello “dolce” di Adriano Olivetti, due visioni del rapporto tra fabbrica e territorio, da una parte, tra capitale e lavoro dall’altra. Vinse Valletta e forse, a esito capovolto, la storia dell’Italia industriale sarebbe stata diversa. Nel lungo periodo, dentro i mutati scenari dell’economia internazionale e della finanziarizzazione, però hanno perso entrambi. Per pensare il futuro, il Canavese deve conservare la memoria (la cultura tecnica, i modelli organizzativi, il profilo etico di Olivetti), senza cadere nella nostalgia verso ciò che non è più, e che non può fare da base all’economia di domani, a ciò che non è ancora.
Se facciamo un passo indietro di quindici anni, all’epoca della globalizzazione soft e della nuova economia, ricordiamo un Canavese che non si poneva ancora il problema: la telefonia poteva compensare l’informatica, erano arrivati il Politecnico e il Bioindustry park, si progettava (dividendosi) il grande parco tematico Millenium; Olivetti aveva perso, ma il futuro sembrava a portata di mano. Non è andata così. Nel Canavese si combinano oggi tre cicli negativi: la crisi economica globale; la lunga metamorfosi del Nord-Ovest, con una perdita di rango negli assetti economici nazionali; una periferizzazione all’interno dello stesso Nord-Ovest. Eppure non esiste un “problema Canavese” distinto da quello del Paese. Il tasso di disoccupazione si è impennato a partire del 2009, raggiungendo il 7 per cento nel 2011 e crescendo ancora, restando però al di sotto di quello provinciale. Il Canavese non perde più abitanti, anche se subisce un “effetto metropoli”: una parte dei giovani va a formarsi a Torino e Milano e spesso ci resta o intraprende la via del mondo; all’epoca di Olivetti dal mondo si veniva a Ivrea, per trovare il meglio del design, della cultura, del management.
Non è solo un problema dei canavesani; i dati sulla disoccupazione giovanile ci dicono di una società, quella italiana, che ha smarrito la propria ombra, un mondo invecchiato che pensa solo alla sua riproduzione. Il tessuto produttivo si è frantumato; duemila imprese in più in dieci anni, migliaia di occupati in meno. Eppure il gene dell’innovazione non si è perso; nel 2012 il 36 per cento degli avviamenti al lavoro nella zona di Ivrea rientrava nel gruppo delle professioni ad alta specializzazione; in nessun altro territorio ci sono percentuali tanto elevate.
Quelli che parevano i motori di sviluppo, però, si sono inceppati. In dieci anni abbiamo assistito alla lenta agonia dell’informatica e alla perdita di peso della telefonia. Il Millenium Park sembra accantonato, il Politecnico non c’è più. È cresciuto il Bioindustry Park, oggi un polo avanzato della produzione biomedicale.
Il sistema, però, non è inerte. Si muove un piccolo nucleo di avanguardie agenti, medie e piccole imprese con crescente proiezione internazionale, che hanno investito in tecnologie e differenziato le fonti del vantaggio competitivo. Fanno automazione e meccatronica, ma anche gabbiette per tappi di champagne, saldatura di catene in ambito orafo, pistole per verniciatura di pelli, stampi.
È un capitalismo molecolare, più che di campioni del made in Italy, non ci sono qui Brembo, Luxottica o Ferrero; Olivetti inventò il fordismo soft, non il capitalismo molecolare che crescendo si è fatto distretto e poi media impresa internazionalizzata. Avanguardie agenti si muovono anche nei servizi knowledge intensive; i microcontrollori Arduino sono nati tra Torino e Ivrea. Abbiamo dunque un intreccio tra microimprese manifatturiere e terziarie; e un piccolo movimento di giovani che ritornano al territorio, nell’agricoltura biologica, nei prodotti locali, nella cultura e nel turismo. Per progettare il futuro occorre partire da qui, sapendo che “non possiamo aspettare un altro Olivetti” ma che occorre “prendere spunto da chi ha saputo identificare un prodotto di nicchia e lavora per il mercato internazionale”.
Questo domani è nell’integrazione virtuosa con la metropoli; il Canavese non è altro dalla piattaforma produttiva che ha il suo hub in Torino, ma non può esserne periferia senza servizi e mal collegata. L’integrazione è fatta di idee, ma richiede anche treni efficienti. Nessun futuro, poi, potrà darsi senza ricambio della classe dirigente; le imprese lo stanno facendo, alla loro guida sempre più si trova una nuova generazione istruita e aperta al mondo; molto meno lo fanno le istituzioni della rappresentanza e della cultura. Qui, come altrove, il testimone deve passare di mano.
Nella consapevolezza che il futuro sarà molto infelice se non si rimetterà in moto un circuito virtuoso, liberando la liquidità, e se la morsa dell’austerity non avrà stritolato tutto, dai risparmi ai servizi che potrebbero qualificare il territorio e renderlo più attrattivo per imprese, lavoratori, residenti.

Tratto da “Microcosmi”, Il Sole 24 Ore, 31 marzo 2013