Il capitalismo che verrà

Dentro la metamorfosi

Il capitalismo che verrà non sarà certo lo stesso che ci ha portato nell’abisso della crisi più grave che il mondo abbia vissuto dopo la Seconda guerra mondiale. La crisi pone interrogativi di sistema, esige risposte radicali, impone cambiamenti che facciano rivivere il patto sociale che regge le nostre democrazie. Siamo nel pieno di una metamorfosi. Il libro di Bonomi ne esplora le origini e i possibili esiti.

Fin dalle prime pagine del suo nuovo libro (*) Bonomi usa termini pesanti per descrivere la fase attuale del capitalismo italiano: “una metamorfosi sospesa tra ciò che non è più e ciò che non è ancora” (p . 7). La crisi in cui siamo immersi, dice ancora Bonomi, è una crisi che investe l’antropologia (ivi), una crisi che ha distrutto e ancora sta distruggendo ciò che di più “intimo” e prezioso possiede una comunità, il suo capitale sociale, quell’insieme, spesso difficile da definire, di saperi, di consuetudini, di rapporti sedimentati, di istituzioni formali e informali, che affonda le sue radici nella storia peculiare e irripetibile di una dato territorio. Bonomi, insomma, non ha difficoltà a riconoscere quello che ancora in troppi esitano a riconoscere ovvero che la crisi in cui stiamo affondando è una crisi di sistema, di fronte alla quale non è possibile riproporre il vecchio paradigma con il semplice corredo di qualche aggiustamento o di qualche regola in più. Ma che neppure può essere affrontata con salti in avanti che ignorano la dura realtà dei fatti o addirittura si affidano a utopie, come quella della “decrescita”, di cui non dovrebbe sfuggire l’impianto elitario né la prospettiva potenzialmente non democratica.
Bonomi ripercorre con dovizia di particolari la lunga agonia del mondo fordista che ha fatto da incubatrice del capitalismo molecolare di cui ha pazientemente e acutamente seguito le vicende. Il blocco fordista della grande fabbrica ha improntato di sé il “secolo breve”, con i suoi conflitti, le sue contraddizioni, le sue ideologie/narrazioni e si è dileguato con esso. A quel blocco facevano da contraltare nella società le grandi organizzazioni sindacali con il loro contorno di cooperative, associazioni culturali, e con la rete dei luoghi deputati a raccogliere ed organizzare la vita collettiva; nella politica, gli corrispondevano i partiti di massa, espressione delle grandi culture popolari, quella cattolica e quella comunista-socialista. Si è dissolto, quasi silenziosamente, disperdendo nello spazio economico una galassia di piccole imprese, di imprenditori individuali, che cercavano di salvare se stessi salvando un patrimonio di conoscenze, di esperienze lavorative, di saper fare che era parte e sostanza della loro identità umana e sociale; e innescando nel sociale il lungo ciclo del rancore. È cominciata allora una prima metamorfosi, che Bonomi ha raccontato nei suoi libri, da Il capitalismo molecolare (1997) a Il capitalismo personale (2005). Si è trattato, probabilmente, di una grande lotta di resistenza economica, addirittura di un’epopea in certi casi, cui lo sconquasso generato dalla crisi finanziaria mondiale ha posto crudelmente, ma irrimediabilmente, fine.
Nella parte centrale del libro, “La resilienza dei territori”, Bonomi rende generosamente l’onore delle armi alle migliaia d’imprese che hanno combattuto quella guerra, facendo appello alle energie secolari di cui erano e, in parte, ancora sono depositari i territori in cui si articola il vitalismo economico italiano. Lasciati spesso soli da uno stato centrale sempre più cieco e sordo rispetto alle domande e alle sofferenze che agitano i territori, alla fine in molti hanno dovuto arrendersi, talora riconoscendo drammaticamente il fallimento di un progetto di vita oltre che di produzione e ricorrendo al gesto estremo che nega ogni speranza. Ma sarebbe sbagliato non vedere e non apprezzare i protagonisti della “resilienza”, prima di tutto quello zoccolo duro di circa 4000 imprese, piccole e medie, che mentre infuriava la crisi hanno continuato a produrre e a esportare, innovando, conquistando spazi di mercato; ma anche i soggetti della società di mezzo che, tra mille difficoltà, hanno cercato di ridarsi un’identità e di accompagnare la trasformazione delle imprese e delle piattaforme territoriali.
Aldo Bonomi è stato uno dei primi a rendersi conto che la crisi determinata dal crack della finanza globale non era una delle crisi che periodicamente scuotono e rilanciano il sistema capitalistico, che delle crisi ha fatto una sorta di meccanismo di autoregolazione e di autoriforma. Questa volta la crisi che ha investito il nostro paese non è una crisi nel sistema, ma del sistema, è una crisi che ne mette in discussione proprio la capacità di autoregolarsi e di autosostenersi. È una crisi, dunque, che richiede una risposta a livello di sistema, che impone di escogitare misure che, senza pretendere miracolose quanto improbabili palingenesi, impongano al capitalismo di cambiare rotta. Ancora una volta, come in tutte le grandi crisi che hanno scandito la storia del capitalismo, si ripropone il fondamentale, e irrisolto, problema della modernità, quello di come rendere il capitalismo “sostenibile”, prima di tutto socialmente, e, quindi, compatibile con la coesione sociale e con un regime politico democratico. Occorre, sempre di nuovo, porre mano alla scomposizione-ricomposizione dei soggetti e dei meccanismi economici, alla ricerca di un modello di sviluppo che incorpori le esigenze e le attese di oggi senza rinnegare le conquiste sociali di ieri. Tenendo ben ferma nella mente l’idea, partorita con dolore dentro gli sconquassi del novecento, che nessun progetto politico, seppure necessario per dare forma e senso ai processi di cambiamento, è destinato a realizzarsi integralmente, secondo le intenzioni che lo hanno ispirato.
Da buon osservatore delle dinamiche sociali, Aldo Bonomi preferisce parlare di metamorfosi del capitalismo, piuttosto che di crisi, perché questo gli consente un approccio dinamico orientato a cogliere, nel divenire della crisi, i segni di ciò che non è ancora. Affondando lo sguardo nel magma economico e sociale della metamorfosi in atto, Aldo cerca di discernere le tracce di un futuro possibile. Lo sguardo si sofferma a lungo sugli spunti, sui conati, gli esperimenti, che sembrano incorporare una speranza di futuro insieme con la prospettiva di un modello di sviluppo che sappia fare i conti, troppo a lungo rimandati, con la lunga deriva del capitalismo novecentesco, insensatamente proteso a travolgere qualsiasi vincolo, qualsiasi limite, in nome di una crescita senza fine che inondando la società di beni e servizi in continua trasformazione avrebbe dovuto stordire la società dandogli l’illusione di sperimentare, per la prima volta nella storia e per un futuro ormai stabilmente conquistato, la promessa finalmente realizzata della felicità in terra.
Da ottimista impenitente, Bonomi è convinto che anche questa volta c’è la faremo, ma non si nasconde i rischi, le condizioni, difficili, che devono darsi per questo ennesimo passaggio a nord ovest. Occorre che “proliferino e si diffondano un’antropologia e una cultura del progetto affidato a una nuova generazione sociale e imprenditoriale che scavi dentro le nostre piattaforme produttive, costruendo geocomunità per andare oltre il ‘non ancora’ in un intreccio tra il saper fare, il ripensare merci e consumi, forme dei lavori, welfare community” (pp. 186-7). “… La soggettività imprenditoriale dovrà sempre più incorporare l’abilità di produrre e vendere beni di diverso tipo: funzionali all’espansione delle capacità e della creatività autonoma dei consumatori e della componente relazionale della vita” (p. 187). Ci si riuscirà e, soprattutto, basterà? Ache Bonomi se lo chiede e sa bene che “difficilmente potrà esserci green economy e sviluppo senza una green society o green politics”. È questo il punto.
Sono un po’ più pessimista di Aldo Bonomi. Penso che queste tracce di futuro che egli ci indica, con passione e partecipazione, si confermeranno e si consolideranno, magari in modi e secondo linee che ancora non riusciamo a scorgere, ma sono anche convinto che coinvolgeranno solo una parte, necessariamente minoritaria, della società. Il resto, la gran parte della società, rimarrà a dibattersi nelle spire di una transizione lunga, che magari porterà, alla fine, nella direzione che indicano oggi le tracce di futuro individuate da Bonomi, ma ancora per lungo tempo dovrà fare i conti con una cultura sociale che non c’è, con un protagonismo dei cittadini e dei consumatori che ancora stenta a diventare dominante, con lo strapotere di un’industria di massa, produttrice di beni standardizzati a basso costo in cui la gran parte della popolazione mondiale continuerà a vedere l’unica possibilità di godere di una migliore qualità della vita, di costruire la propria “felicità”.
Ma c’è un altro motivo di pessimismo. Bonomi osserva giustamente che la metamorfosi necessaria, la svolta verso una green economy sorretta e orientata da una green society non può essere il risultato di un movimento spontaneo, non può essere costruita unicamente dal basso. Occorre una volontà collettiva che si faccia progetto politico. Occorre, dunque, una politica capace di formulare un progetto e di avere una prospettiva sufficientemente lunga per realizzarlo. Che è proprio ciò che in Italia, ma non solo, oggi non c’è e nemmeno si intravede all’orizzonte. Per essere più precisi, la green economy potrà essere quella svolta decisiva nel modo di essere delle nostre società, nella loro capacità di incorporare e domare le spinte troppo spesso distruttive del capitalismo, solo se riesce a coniugarsi con una green society, ovvero con un corpo sociale che prende piena coscienza della necessità di ripensare le regole cui tutti devono conformarsi per tenere insieme la società, perché non prevalga l’egoismo dei singoli che tipicamente si realizza nel perseguimento della ricchezza come fine unico e compiuto in se stesso. E qui torniamo ai limiti esiziali di una politica assente, spesso asservita, espropriata della sua funzione regolatrice, perché solo se la società e la politica tornano a parlarsi e a cercare insieme le soluzioni, si può pensare di ricostruire quel capitale sociale senza di cui nessuna comunità è in grado di reggere. Di nuovo, il pessimismo è grande, perché grande è la consapevolezza di quanto profondo sia il male che avvelena la nostra vita sociale sotto la pressione insopportabile di pulsioni e passioni dissociative, l’avidità, l’invidia, l’arroganza, il rancore, scatenate dalla rottura del senso di appartenenza a una comunità e nell’attesa che si riesca finalmente a vivere e a coltivare il senso di appartenenza a una comunità globale, a realizzare la cooperazione fra i miliardi di sconosciuti che abitano il pianeta.
Che fare allora? Abbandonarsi allo sconforto e cedere il terreno ai poteri di sempre, agli arbitrî di un capitalismo restio a confrontarsi con la cultura del limite e della compatibilità? Certamente no. La battaglia per tentare di riorientare i sentieri dello sviluppo, per formulare e stringere un nuovo patto che riporti l’economia e, soprattutto, la finanza nell’ambito di quello che una società pluralista è in grado di sopportare, va combattuta con tutte le energie possibili, nella consapevolezza che il primo passo è il più difficile da decidere ma anche il più facile, perché significa partire da noi stessi per diventare cittadini attivi e coscienti, impegnati a rivendicare i diritti che sono di tutti e per tutti.
Bonomi insiste molto, nel libro ma anche nei suoi frequenti interventi, sul fatto che la via d’uscita dalla crisi, almeno in Italia, passa necessariamente attraverso la ricomposizione delle energie produttive che emergono dalla decomposizione del capitalismo molecolare, attraverso “la costruzione di un patto tra composizione sociale terziaria e manifatturiera” che si concretizzi in un’incorporazione dell’intelligenza professionale del Quinto Stato dentro le filiere produttiva delle imprese piccole e medie che lottano per sopravvivere. Sono d’accordo. È da qui, dai territori, da un nuovo patto tra città e contado che è necessario attingere le risorse per un nuovo modello di sviluppo. Ma avendo presente che lo spazio per questa nuova formazione economico-sociale lo si può trovare solo se si riesce a mettere le briglie alla rincorsa sfrenata del capitalismo finanziario globale e, per quanto riguarda l’Italia, a spezzare la morsa, ormai mortale, del capitalismo relazionale o, meglio, clientelare. Di nuovo, occorre un progetto politico, una constituency che lo condivida e lo supporti e una classe dirigente che lo realizzi.
La speranza è agganciata a una parola chiave che, come Bonomi, giustamente, non si stanca di ripetere, è già sovraccarica di ambiguità e di polisemia: green economy.

(*) Aldo Bonomi, Il capitalismo in-finito, Einaudi, Torino 2013