Il gusto della libertà

Il vero antidoto contro il populismo

Siamo un paese in cui la cultura della libertà non ha mai messo solide radici. Siamo un popolo che non ama scegliere, che tende a delegare, che pensa che la responsabilità sia sempre affare degli altri. In un contesto del genere, anche la democrazia soffre. Prosperano, invece, i populismi. Senza un’assunzione piena di responsabilità senza il gusto pieno della libertà, non si ricostruisce l’Italia.

Quando Winston Churchill diceva: «Abbiamo esaltato la libertà, ora dobbiamo preservarla», aveva davanti a sé la visione delle dittature, stese sull’Europa nella prima metà del Novecento. Non c’è dittatura che gravi sugli italiani di oggi, i quali dovrebbero, con una piccola variante, dire a se stessi: «Abbiamo esaltato la libertà, ora dobbiamo esercitarla».
Né sessantasei anni di Costituzione, né una formidabile modernizzazione sono riusciti infatti a radicare tra noi, tra le persone comuni, la cultura e la prassi della libertà. In questi ultimi sei decenni ha prevalso nella vita collettiva un sistema di obblighi e divieti, e soltanto l’aria che respiriamo non richiede la compilaizone di un modulo e non è soggetta a tasse. Nello stesso tempo si è enormemente allargato lo spazio della libertà. almeno sulla carta, passo dopo passo, con fatica e lacrime: cinquant’anni fa una donna non poteva essere magistrato né poliziotto; quarantacinque anni fa il matrimonio era indissolubile e un errrore si pagava con sofferenze lunghe come la vita; quarant’anni fa si poteva ammazzare sotto l’etichetta dell’onore offeso, con una pena mite; trent’anni fa lo stupro era un reato contro la morale, poca cosa. Queste ed altre libertà hanno reso più gradevole la vita a milioni di persone.
Tuttavia in Italia si studia di malavoglia la storia e non si coltiva l’uso della memoria: la lezione positiva, il benessere delle libertà non sembra appreso a fondo. Tanto che la prassi (più che la teoria) della libertà, quella che comincia dentro di noi ed esce a misurarsi con la realtà, ha poco seguito. Al contrario, esistono e respirano tuttora milioni di italiani che persistono nel credere che la libertà, con il suo corollario di felicità, verrà gentilmente concessa da altri piuttosto che presa a viva forza da noi stessi: la fede in un leader, in un partito, in un santo è abituale e consolidata. Soltanto in questa chiave si spiega l’enorme e duraturo successo di personaggi come Silvio Berlusconi o Beppe Grillo. Perfino dal papa Francesco si attende l’iniziativa di una rigenerazione collettiva su questa terra, oltre che la promessa di un paradiso nell’al di là.
Pesa tuttora sulle nostre spalle un passato molto antico di oppressione straniera; portiamo il fardello di un passato più recente, quello del duopolio culturale dogmatico, cattolico e marxista. Nel ventunesimo secolo inoltrato c’è qualcuno che va ancora in cerca del «voto cattolico», reperibile più che altro al cimitero, visto che connotava i bisnonni ed è dimenticato dai viventi e votanti. Qua e là spuntano poi i nostalgici delle bandiere rosse, sventolanti ormai alle manifestazioni sindacali più corporative e più conservatrici. Queste persone non si curano che siano passati novantasette anni dalla rivoluzione d’ottobre e venticinque dalla caduta del muro di Berlino, e somigliano (in peggio) al colonnello Féraud, creatura letteraria di Joseph Conrad. Nel racconto Il duello Féraud insiste nel provocare il collega D’Hubert e vuole battersi con lui, che «non ha mai amato l’imperatore». Napoleone è da tempo esiliato a Sant’Elena, l’Europa ha restaurato troni e altari, ma Féraud è malato di nostalgia e non ne prende atto. L’aquila imperiale o la bandiera rossa rappresentano simulacri di un passato sepolto, e guardare indietro serve a poco.
La storia italiana è andata avanti, e la libertà anche, ma ne approffittiamo poco, ne abbiamo timore. Non assaporiamo l’orgoglio di secegliere il nostro destino nelle piccole e grandi evenienze della vita. Come in un asilo infantile, in caso di disgrazie, calamità e crisi, si alzano da varie parti della penisola grida disperate: «Dov’è lo Stato?». Già, ma dov’ero io, quando la cementificazione dei fiumi poneva la premessa più sicura all’inondazione? O quando si costruiva con materiali scadenti? O quando dilagava l’assalto alle casse pubbliche? O ancora quando accettavo il ricatto del «niente fattura, tutto in nero».
Alle tre generazioni che si sono succedute dal dopoguerra non è stato mai insegnato il piacere di essere liberi. Ci si è occupati molto di dare la caccia ad altri piaceri, più materiali: la casa, l’automobile, le vacanze, sacrosanti ma non sufficienti. Alla soddisfazione di costruire da sé il proprio futuro è sembrato preferibile mettersi al riparo dagli eventi: farsi cliente di un potente, aggregarsi a un partito, cercare una raccomandazione immeritata.
A conti fatti, il conformismo ha remunerato le ultime tre generazioni di italiani del sessantennio repubblicano. Sembra di sì, e invece no: la convivenza tra italiani è scesa a un punto molto basso. E basso è anche il posto nelle classifiche mondiali del nostro paese, economiche, culturali, civili.
Il ventennio populista ha rimbambito e ingannato l’uditorio: lo ha rimbambito con l’aspettativa di un «lui» che provvede a far fronte ai problemi, e lo ha ingannato con l’illusione che la libertà è soprattutto licenza di perseguire i propri interessi, anche in conflitto con il bene comune. Eppure milioni di italiani non si sono ancora accorti dell’inganno e dell’illusione populista che, proclamando il popolo sovrano di tutto, sempre dalla parte della ragione e mai del torto, anche quando urla, strepita e si lascia andare all’emozione del momento, sottrae di fatto la libertà di critica e di riflessione, quindi anche di decisione. In quei milioni si annidano persone candidamente convinte che sia più civico attaccarsi al computer e votare sulla rete grillina piuttosto che pretendere e praticare la raccolta differenziata dei rifiuti; o ingenuamente convinti che la protesta contro le istituzioni – agenzia delle entrate, tribunali, vigili urbani e così via – costituisca di per sé un esercizio di democrazia; o ancora fervidamente accaniti nel rivolgersi, in caso di guai personali, al sacerdote che esorta a patire e rassegnarsi piuttosto che allo psicologo, che aiuta a uscirne con le proprie forze.
Si fa presto a dire «voglio la libertà», quella che giova alla felicità personale e al bene comune, più difficile è perseguirla e ottenerla. Forse l’unica opzione sta nell’ostinazione e nella pazienza: l’unità d’Italia ha chiesto la fatica di tre generazioni in campo; la caduta della dittatura una generazione e mezzo; il populismo, benché vecchiotto, è tutt’altro che morto, ma ci affligge da un paio di decenni.
Eppure l’homo faber è vivo e vegeto e può cavarsela in modo eccellente, costruendo pezzo su pezzo la propria libertà e quella altrui. A partire dai bambini: a loro va lasciata l’infanzia (senza concorsi di bellezza, sfilate di moda, violenza fisica, «salti» di classe per arrivare primi o stolte gare al voto più alto); a loro spetta la facoltà di sbagliare per migliorare, a loro non bisogna mai suggerire che cosa «conviene» fare, ma che cosa è giusto per un futuro felice. Forse, quando il bebé festeggerà il trentesimo compleanno, sarà una persona libera e forte. Se maschio, non riempirà di botte la moglie perché è scontento di sé; se femmina, non si lascerà ammazzare perché lui si è innamorato di un’altra.