Il lavoro autonomo nella crisi italiana Parte III

Il nodo del lavoro autonomo

di Sergio Bologna

Ancora il lavoro autonomo. Sotto forma di una lunga recensione al libro di Costanzo Ranci, di cui abbiamo già parlato, Sergio Bologna offre un nuovo e impegnato contributo di analisi per comprendere a fondo lo statuto sociale del lavoro autonomo e proporre una svolta nell’analisi delle classi sociali in Italia. Pubblichiamo la parte conclusiva dell’intervento (vai alla prima parte e alla seconda parte)

Considerazioni critiche

Non mi soffermerò sui due capitoli, il quinto e il settimo, dedicati rispettivamente ai piccoli imprenditori manifatturieri e ai commercianti e chiuderò dedicando semmai qualche parola al capitolo sulle forme di rappresentanza e l’associazionismo.

Prima però vorrei segnalare alcuni aspetti sui quali mi è parso che la ricerca sia carente.

1. L’aver incluso nel mondo del lavoro indipendente la figura del piccolo imprenditore manifatturiero ha inevitabilmente trascinato con sé una visione dell’Italia fortemente condizionata dall’economia e dalla sociologia dei distretti. Del resto non poteva essere altrimenti con Bagnasco, uno dei maggiori teorici e analisti della “Terza Italia”, coordinatore del progetto di ricerca. Si è offuscata quindi l’altra componente fondamentale per capire la crescita del lavoro indipendente, quella metropolitana, ed è sfuggita l’estrema importanza che assumono al suo interno l'”economia dell’evento” e l’industria dell’intrattenimento.1 Le figure professionali, di carattere artistico e tecnico, che questi settori richiedono, arricchiscono il mondo del lavoro indipendente su un versante diverso da quello che in questa ricerca viene maggiormente messo a fuoco, il versante dei servizi all’industria, e contribuiscono notevolmente alla “contaminazione” tra professionisti, collaboratori, occasionali, intermittenti, creando un bacino di lavoro autonomo potenziale ancora più complesso e diversificato.

2. E’ data per scontata e quindi non viene messa in risalto la fondamentale importanza dell’informatica e dell’uso del personal computer nella creazione del lavoro autonomo. Questa è stata la svolta epocale, che ha reso possibile l’ubiquità del luogo di lavoro, la domestication e il nomadismo, l’accessibilità a un mercato remoto, che ha svuotato in parte il sistema delle credenziali e dei curricula formativi predefiniti, che ha inaugurato nuove inedite forme di sfruttamento del lavoro cognitivo e creativo. Il freelance completamente autarchico, essere prigioniero del suo solipsismo e convinto di padroneggiare il mondo tramite il web – questa figura tragica che cosa l’ha creata se non l’epoca di Internet? Ma al tempo stesso la web civilisation sostanzia in maniera del tutto nuova l’idea di network e inaugura una nuova era della socialità del lavoro cognitivo indipendente – si pensi agli spazi di co-working – e forse crea le basi per una nuova Internazionale dei “nativi digitali” – si pensi ai vari Piraten Partei – che non rientra in nessun parametro di appartenenza di ceto o di classe come quelli finora conosciuti. Aver dato per scontato questo elemento della “svolta epocale” ha impedito di cogliere alcuni aspetti che, a nostro parere, avranno importanza fondamentale nel futuro.

3. Purtroppo i ricercatori non hanno potuto utilizzare i dati delle dichiarazioni dei redditi per gli anni d’imposta 2009 e 2010 né quelli dell’Osservatorio sulle Partite Iva, che sono stati messi di recente in rete dal Ministero delle Finanze. Però, trattandosi di una ricerca universitaria di alto livello, sarebbe stato auspicabile uno sforzo in più per accedere alle fonti amministrative, in particolare ai dati INPS, e per verificare l’attendibilità della ricerca CNEL sulle professioni non regolamentate sei/sette anni dopo.

4. Dopo vent’anni di ricerche e discussioni sul lavoro autonomo, particolarmente nel campo giuslavoristico, la sociologia non ha ancora preso nota che la forma della retribuzione è uno degli elementi decisivi per distinguere la condizione del lavoratore indipendente da quella del lavoratore subordinato. Non si tratta solo del problema di “come farsi pagare”, cioè di come quotare il proprio lavoro, o solo del problema dei tempi di pagamento (lo stillicidio di suicidi di microimprenditori in questi mesi forse aprirà gli occhi a qualcuno) ma è la differenza concettuale tra la retribuzione salariale e il pagamento di una fattura che ha valore di spartiacque.2

Una sfida da raccogliere

Questi limiti nulla tolgono al valore che questa ricerca ha per il riconoscimento del peso e del ruolo del lavoro autonomo nel nostro Paese. “Nonostante la graduale erosione avvenuta nell’ultimo decennio, l’Italia resta un paese di lavoratori indipendenti”: così inizia il capitolo conclusivo. Essi rappresentano una componente importante del ceto medio ma al loro interno sono così divaricati i livelli di reddito che alcuni segmenti di questo universo sono a rischio di povertà mentre altri sono classificabili nella fascia più alta dei redditi imponibili. Se paragonati con il reddito medio dei dipendenti, gli autonomi vengono riconosciuti tra “i vincitori” della fase storica che si è aperta con la cosiddetta Seconda Repubblica. Ma in gran parte ciò dipende dal maggior patrimonio di cui dispongono, immobiliare soprattutto, piuttosto che dalle retribuzioni. Questo vale in particolare per i professionisti, che sarebbero, tra le diverse categorie di autonomi qui prese in considerazione, quelli con l’incremento di reddito medio meno elevato nel periodo 1991-2008 (p. 292). Un dato confermato dalle dichiarazioni dei redditi per l’anno d’imposta 2009 – che i ricercatori non avevano ancora potuto consultare – secondo i quali più del 50% di coloro che vivono del solo reddito per compensi professionali dichiarano un imponibile inferiore a 40.000 euro l’anno.

Ma il livello di reddito, come è stato detto più volte, non basta per definire l’appartenenza di ceto, esiste per gli indipendenti un forte disequilibrio tra condizione economica e prestigio sociale, che complica le cose.

La realtà che i ricercatori hanno messo in luce è caratterizzata da una doppia crisi: a) la crisi di mercato che ha reso insufficienti le protezioni finora assicurate dal sistema ordinistico per gli uni e richiede agli altri forme istituzionali di certificazione delle credenziali ancora inesistenti

b) la crisi del contratto sociale che finora aveva retto il rapporto tra Stato e universo del lavoro autonomo.

Per quanto riguarda quest’ultimo aspetto, l’universo del lavoro indipendente – ma in particolare artigiani, commercianti e lavoratori in proprio – si troverebbe a fare i conti con un atteggiamento dello Stato sempre più “sottrattivo” (p. 299) dopo un lungo tempo di benign neglect, determinando una reazione di disaffezione e di sorda o esplicita protesta che trova diversi canali, anche politici. Estraniazione dallo Stato e distacco dalla politica sarebbero presenti massicciamente anche tra i professionisti e questo stato d’animo renderebbe molto difficile la riuscita degli sforzi di alcuni gruppi per un’autoregolazione e un maggiore impegno associativo.

“Lasciato sinora alla deriva dalla carenza di proposte organiche e credibili da parte della politica, il lavoro indipendente è alla ricerca di nuove forme di organizzazione collettiva dei suoi molteplici interessi, entro cui incanalare le sue richieste di sostegno, di riconoscimento e di tutela dei rischi. Chi li ascolterà e darà loro voce e rappresentanza? La sfida è aperta” (p. 305). Con queste parole si chiude il volume. Ma non questa mia recensione, perché troppo forte è la tentazione di cominciare a rispondere a quella domanda. E la risposta in parte si trova nel capitolo ottavo sulle forme di rappresentanza e le associazioni, in particolare quelle dei professionisti. Che cosa abbiamo visto in questi ultimi anni? Gli Ordini perdere la loro funzione di protezione nel mercato e di limitazione degli accessi e tuttavia ostinatamente opporsi – in parte a ragione – ai tentativi di riforma radicale, le associazioni non ordinistiche perseguire stupidamente una strategia imitativa, essere per lungo tempo incapaci di esercitare una pressione sufficiente a introdurre un sistema di accreditamento istituzionalizzato (“a dieci anni e più dalla nascita del Colap, il modello accreditatorio non è stato ancora istituzionalizzato”, p. 274). Sembra che ora, con il disegno di legge n. 3270 (“Disposizioni in materia di professioni non regolamentate in Ordini e Collegi”) ce l’abbiano fatta a ottenere una forma di riconoscimento, approvata dalla Camera in prima lettura il 17 aprile e, al momento in cui scrivo, ancora ferma al Senato per un’ulteriore richiesta di approfondimento conoscitivo. Ma se si legge il testo del DDL e si leggono i documenti presentati dai gruppi e dalle associazioni all’esame del Comitato ristretto della X Commissione Industria (nominato per svolgere questo lavoro di approfondimento), da Accredia all’UNI, da Rete Imprese Italia all’ANCOT, da Confprofessioni a Federprofessional, ci si accorge subito che il riconoscimento non conferisce poteri di sorta alle associazioni, in quanto un soggetto può esercitare l’attività anche senza essere iscritto ad alcuna associazione e può farsi accreditare e certificare presso gli Enti riconosciuti per scelta individuale, secondo il principio della “libera adesione” ai processi di formazione delle credenziali, senza passare per un’Associazione. Le Associazioni sono invitate a partecipare al processo di miglioramento delle procedure e in particolare – ruolo importante – alla definizione di una professione, in modo da renderla compatibile con quelle europee, così com’è stato fatto per i consulenti di direzione con la norma EN 16114 su iniziativa dell’UNI, ma il presunto “riconoscimento” delle Associazioni, sbandierato da alcune come soddisfazione epocale di una rivendicazione perseguita da più di un decennio, non va al di là di un inserimento del nome dell’Associazione in un elenco presente sul sito del Ministero. Senza parlare del fatto che l’organismo unitario rappresentativo degli Ordini, il CUP, nel documento presentato al Comitato ristretto è andato giù pesante, scrivendo che “il soggetto che per l’ordinamento giuridico italiano è qualificabile come ‘professionista'” è altra cosa rispetto al soggetto il quale “pur svolgendo servizi che hanno ad oggetto prestazioni d’opera intellettuali non può essere qualificato come ‘professionista'”. Quindi, secondo il CUP, parlare di “professionisti non regolamentati” – come finora abbiamo fatto nel corso di questa recensione – è illegittimo, in quanto questi sono “liberi prestatori d’opera intellettuale”, che non esercitano una “professione”. Il DDL 3270 entra pertanto in contraddizione, secondo il CUP, con la legge 14 settembre 2011, n. 148 in materia di professioni regolamentate e la sua approvazione potrebbe essere impugnata davanti ai tribunali amministrativi.

Siamo dunque ancora su un terreno incerto e ci si chiede quale vantaggio potrebbero trarre da queste norme persone che hanno problemi ben più pressanti, in termini economici, di condizioni di lavoro, di pagamenti, di contenziosi con il fisco, di malattia. Il disagio che percorre il mondo del lavoro indipendente, più acuto oggi in periodo di crisi, la sua debolezza nei confronti della committenza, il suo scarso potere negoziale, la concorrenza suicida – a questo chi ci pensa, qual’è l’organizzazione di tutela sindacale cui un soggetto può rivolgersi? Il mondo associativo delle cosiddette professioni non regolamentate da questo punto di vista è carente, questo è il vero vuoto di rappresentanza. I ricercatori che hanno lavorato al volume de Il Mulino hanno colto la diversità di ACTA, il suo tentativo di rappresentare qualcosa di diverso, un’organizzazione trasversale, rappresentativa di molte categorie professionali, concentrata sui problemi grossi: previdenza e fisco. Non a caso collegata ad organizzazioni di consulenti di alto livello che la pensano allo stesso modo, come i britannici del PCB, ventimila iscritti, o con organizzazioni dove il 30% dei soci lavora con contratti verbali, come la statunitense FU, 170 mila soci.

Ma ACTA, dove i soci paganti sono 300 e non 170 come dice il volume, e 1.500 circa gli iscritti, malgrado la sua forte visibilità, è una goccia nel mare, non priva di contraddizioni interne, tra chi si sente più vicino al mondo del precariato e chi più vicino al ceto medio dei ‘professionisti’ incravattati. Insomma, sono i lavoratori autonomi stessi i primi responsabili della loro situazione di debolezza nelle decisioni politiche che li riguardano, la riforma Fornero è stata da questo punto di vista una cartina di tornasole. C’è da augurarsi pertanto che questo volume possa servire al lavoro autonomo non solo dal lato dell’immagine pubblica ma anche dal lato della consapevolezza dei soggetti che lo compongono.