Allarme clima, ma davvero

Imparare a vivere nell’antropocene

La bozza dell’ultimo rapporto, ancora riservato, dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC), un gruppo di scienziati ed esperti nominato dall’ONU con il compito di monitorare i progressi nella scienza del clima, usa espressioni forti, secondo quanto riferisce il New York Times che ne ha ottenuto una copia.

Il tempo stringe
Secondo l’autorevole panel, siamo prossimi a un punto di non ritorno. Il riscaldamento crescente del pianeta prodotto dalle emissioni di gas serra, che accompagnano “le magnifiche sorti e progressive” del nostro capitalismo iperconsumistico, sta mettendo seriamente a repentaglio la sopravvivenza dell’ormai fragile ecosistema in cui viviamo. “Il rischio di un cambiamento improvviso e irreversibile aumenta di pari passo con l’aumento della dimensione del riscaldamento”. Il mondo potrebbe già essere vicino a una temperatura alla quale diventerebbe inevitabile lo scioglimento dell’imponente crosta di ghiaccio che ricopre la Groenlandia. Lo scioglimento totale dei ghiacci richiederebbe secoli, ma sarebbe inarrestabile e irreversibile. I suoi effetti sarebbero accresciuti dallo scioglimento del ghiaccio antartico. Il livello dei mari si alzerebbe di circa sette metri, sommergendo, potenzialmente, le maggiori città del mondo.

Altrettanto forti sono i dati e i fatti che sono richiamati nel rapporto. Fra il 1970 e il 2000, le emissioni globali di gas serra sono aumentate dell’1.3% all’anno. Ma fra il 2000 e il 2010 questa percentuale è già balzata al 2,2% e sembra che stia ulteriormente aumentando. Gran parte di questo incremento è dovuto all’industrializzazione della Cina, dove oggi si consuma circa la metà del carbone mondiale, in larga misura per rifornire il mondo occidentale di beni di consumo.

“L’emissione continuata di gas serra provocherà un ulteriore riscaldamento e cambiamenti durevoli in tutte le componenti del sistema climatico, aumentando la probabilità di impatti gravi, pervasivi e irreversibili per le persone e gli ecosistemi”, afferma il rapporto. Ad esempio, il riscaldamento del globo sta già riducendo la produzione di cereali di diversi punti percentuali e, procedendo su questa strada, si andrebbe incontro, con la massiccia estinzione di piante e animali, a un drammatico deficit alimentare che colpirebbe, inevitabilmente, le antropocene3fasce più deboli della popolazione mondiale. L’ulteriore riscaldamento del globo, afferma il rapporto, “rallenterebbe la crescita economica, renderebbe più difficile la riduzione della povertà, minerebbe ulteriormente la sicurezza alimentare e prolungherebbe le trappole della povertà esistenti e ne creerebbe di nuove, specialmente nelle aree urbane e nelle emergenti zone calde della fame”.

Il rapporto è evidentemente indirizzato a suscitare allarme nell’opinione pubblica e, soprattutto, fra i decisori politici allo scopo di creare un clima propizio per quel cambiamento culturale, prima ancora che politico, senza il quale è impensabile che vengano affrontati e battuti i poteri che traggono vantaggi e ricchezza dall’attuale modello di produzione e di consumo centrato sullo sfruttamento di fonti energetiche che producono emissioni insostenibili di gas serra. È difficile sottovalutare l’enorme forza d’inerzia che mantiene in vita e sospinge il modello di crescita dominante.

Vivere nell’antropocene
Eppure un cambiamento culturale che ponga l’umanità in grado di affrontare e di dominare i processi messi in moto dall’industrializzazione è necessario e improcrastinabile. Da tempo, non importa stabilire esattamente da quando, siamo scivolati, senza che ce ne rendessimo conto e senza che ancora ce ne rendiamo pienamente conto, in una nuova era, che qualcuno ha efficacemente chiamato “antropocene”, per mettere in evidenza il ruolo nuovo, diverso, dirompente, che la presenza umana svolge nel determinare gli assetti dell’ecosistema in cui viviamo. Per la prima volta da quando esistono le società umane, l’azione dell’uomo, che pure ha sempre inciso, trasformandolo, sull’ambiente naturale, senza peraltro turbarne gli equilibri sistemici, è oggi in grado di mutare gli assetti antropocene5dell’ecosistema terra, addirittura di governare e trasformare i processi naturali. Fino a oggi era l’uomo, in linea di massima, ad adeguarsi alle dinamiche naturali, pur tentando di piegarle ai propri fini; oggi è la natura che deve provare ad adeguarsi alle dinamiche messe in moto dall’uomo. È un rovesciamento radicale del rapporto uomo-natura, che stenta a trovare un modo altrettanto radicale di cambiare i nostri comportamenti e i modi in cui pensiamo e progettiamo l’evoluzione dell’ambiente terrestre. I nostri costrutti mentali cambiano molto lentamente, e ancora più lentamente cambiano i nostri comportamenti, perché prima che i mutamenti che si verificano nell’ambiente in cui viviamo provochino reazioni stabili e durature occorre che vengano sperimentati ripetutamente e che ne venga pienamente percepita la portata. Questo avviene, per lo più, sotto l’influenza di eventi traumatici che ci toccano direttamente. Ora, per l’appunto, i cambiamenti climatici, l’effetto serra e gli altri fenomeni di mutazione degli equilibri ambientali sono difficili da percepire direttamente e in maniera drammatica. Si è così indotti a sottovalutarne la portata e a rinviare le misure necessarie per affrontarli e per adeguare i nostri comportamenti.

Dobbiamo imparare a vivere nell’antropocene. Dobbiamo acquisire la consapevolezza fondamentale che i nostri comportamenti, i nostri stili di vita, non sono indifferenti per gli equilibri ambientali e, addirittura, per la capacità di sopravvivenza dell’ecosistema terrestre. La difficoltà, nuova e drammatica, è che questa consapevolezza non può essere acquisita, come è stato per millenni, nella nostra esperienza diretta del rapporto con l’ambiente naturale e con quello antropico. È necessariamente mediata dalla conoscenza e dalla cultura e, soprattutto, deve essere condivisa. È richiesto un senso di responsabilità più maturo ed evoluto, che contempli non solo il riconoscimento e il rispetto dell’altro, ma di tutto ciò che ci circonda sulla nostra terra. Compito immane, per istituzioni che ancora non ci sono, in un mondo in cui la civiltà sembra aver perso la bussola. Possiamo, e dobbiamo, partire dalla cura e dal rispetto del nostro territorio, ma la strada è lunga e incerta e il tempo breve.

Note
(1) Il termine è stato coniato negli anni ottanta dal biologo Eugene Stoermer e nel 2000 è stato adottato dal Premio Nobel per la chimica Paul Crutzen.