La società civile non c’è

Mali antichi: l’Italia, una società assente e irresponsabile

di Redazione lib21 –

“La società civile non c’è. Pensa solo ai fatti suoi”. Parole di Francesco De Sanctis di più di un secolo fa sorprendentemente attuali e amaramente vere. Rileggerle fa bene, perché ci offrono come uno specchio in cui vedere noi stessi, quella comunità nazionale che ancora non riusciamo a essere, quella società civile che non c’è mai stata e che, come ormai ben sappiamo, ha lasciato uno spazio incontrastato ai più deplorevoli esperimenti politici, primo fra tutti quello di una deriva populistica che non è mai venuta meno.

Davide Bidussa ha opportunamente riprodotto su Linkiesta un articolo di Francesco De Sanctis del 1877 che tratteggia con sorprendente efficacia uno degli aspetti costitutivi del “carattere” degli italiani. In un periodo in cui ci affanniamo a ricercare i modi per uscire da una crisi che giorno dopo giorno esibisce sempre più chiaramente il suo fondamento strutturale e non ciclico, transeunte, può essere utile riflettere anche sulle debolezze ataviche di una società, come quella italiana, che non è mai riuscita a essere protagonista come tale e che, una volta di più, non riesce a esserlo oggi. E’ difficile pensare a una sorta di riscossa nazionale, a una mobilitazione di energie ed intelligenze sufficiente a ribaltare la prospettiva di declino cui un po’ alla volta ci stiamo assuefacendo senza un qualche protagonismo non marginale della società civile. Proclami poitici, programmi economici, anche i più arditi e innovativi, possono poco se la società nel suo insieme resta silente, passiva, aggrappata all’eterno, devastante motto “Piove governo ladro”. Finché penseremo che ciò che accade e ci colpisce è sempre colpa di qualcun altro e non è invece responsabilità nostra agire, difenderci, porre in atto i cambiamenti che riteniamo necessari, le speranze di una rinascita, ma anche solo quelle di una ripresa economica, sono destinate a rimanere tali. Non possiamo che concludere, sconsolatamente, con le parole di De Sanctis: “il male c’è, e il primo metodo di cura è riconoscerlo francamente”.

Il brano è Francesco De Sanctis, L’educazione politica, in “Il Diritto”, 11 giugno 1877 (in Scritti politici, Alberto Morano editore, Napoli, 1924)

“Leggo nel Diritto, un articolo sulla vita politica che mi pare come un riscontro con certe idee che da un pezzo mi frullavano nel cervello e volevano uscire. Sicuro, il Parlamento rimane come estraneo al paese, e il paese, galvanizzato a quando a quando dal rumore dei giornali e dal chiasso di certe questioni, si riaddormenta. Uno stato di atonia politica, che è peggior del malcontento, o che è per dir meglio lo stesso malcontento scompagnato da ogni speranza di rimedio.

“Dove sono andati gli entusiasmi?” sento gridare. È inutile andarli a cercare. Tant’è a voler cercare il 1848 e il 1860.
Avemmo giorni di entusiasmo, e ciò che è anche più bello, giorni di santa indignazione, la prima virtù che attesti la vitalità di un popolo. Allora c’era un obbiettivo chiaro e semplice. Quando si gridava: – Viva la libertà! – tutti si capiva che volevamo uno Statuto. E quando si gridava: – Viva l’Italia! – fino i nostri lazzaroni mostrarono di aver capito, alzando il dito indice, e gridando: – Una ha da essere, una! – Il cittadino allora si chiamava un patriota, non si chiamava ancora un uomo politico.

Lo stato d’oggi è così diverso, che quella ci pare già una storia antichissima. Quando, unificata l’Italia e avuta la libertà, abbiamo acquistata la facoltà di moverci e di camminare, ci siamo fermati a un tratto, e non sappiamo più dove andare e cosa fare. Siamo come impantanati. E passiamo l’ozio nelle maledicenze e nelle caricature come le comari. Tutta la nostra storia è travestita. Martire vuol dire oggi un furbo che si è fatto pagare il martirio a peso d’oro! Patriota vuol dire un usuraio che ha saputo far fruttare quel titolo del cento per cento. La deputazione è un affare. La medaglia d’oro è una mezzana. La maggioranza è il popolo ebreo che aspetta dal cielo la manna, una manna almeno di croci e di commende. Se dici sì, sei una pecora, se dici no, sei un volgare ambizioso. C’è in aria un prestito, una convenzione ferroviaria? E tutti ci veggono il carrozzino, almeno un milione, perché la fantasia popolare, dopo il famoso milioncino, riduce tutte le corruttele a cifra rotonda, il milione.

Questa è l’atonia politica, impotente a fare, attivissima a demolire. In mezzo all’ozio fermenta la corruttela. E il paese spettatore, ingigantendo, fantasticando, generalizzando, assiste allo spettacolo, e ne fa il suo passa ozio. È una malattia che colpisce tutte le classi, le infime in una forma grossolana, e quasi cinica le altre, sotto un’apparenza ipocrita che mal dissimula il vuoto.

La moltitudine, e intendo con questo nome le classi meno intelligenti, non avendo più idea che le venga dall’alto, se ne fabbrica una lei, e la più vicina al suo sentire e al suo soffrire. La politica non è per lei altro che il macinato, le imposte; il suo uomo è colui che le prometta minor lavoro e più guadagno; il Parlamento è una fabbrica di nuove imposte. In verità, bella opera fanno quei partiti politici, che si fondano sopra quest’istinti grossolani, o gli aizzano e gl’irritano. E mi duole che certa stampa moderata sia entrata in questa via anche lei, e dimenticando ogni idea di Governo e le sue buone tradizioni, aiuti a rincrudire certe piaghe, non medicabili subito.

Quanto alle classi che si dicono intelligenti, si dice così per dire. Tra noi generalmente è una mezza coltura peggiore della ignoranza; un impasto di molte idee vecchie e di qualche idea nuova; si legge poco e si studia meno. Viviamo di reminiscenze e almeno ci è questo di bene che ne abbiamo acquistata coscienza. Aspiriamo al nuovo, e non abbiamo la forza d’impossessarcene, e restiamo alla superficie celando il vuoto sotto frasi sonore. La nostra fede in queste superficialità e in queste reminiscenze è così piccola, che spesso vediamo un uomo mutare le sue idee e dire l’opposto da un dì all’altro, e non se ne vergogna lui e nessuno se ne vergogna per lui.

La fiacchezza di carattere, la codardia morale, la sfrontata menzogna, la dissimulazione dei proprii fini, costituiscono un’atmosfera equivoca da demi-monde, nella quale si putrefà questa mezza coltura. Partiti politici non possono esistere, dove si tiene in saccoccia due o tre bandiere, pronti a mostrar questa o quella secondo il bisogno. Sento già dire conservatori progressisti o progressisti conservatori, e anche moderati progressisti. Sono vergogne, quando non siano ingenuità dell’ignoranza. La confusione dei vocaboli attesta la confusione delle coscienze, via aperta alla corruttela politica. In luogo di alzare la moltitudine a noi, scendiamo noi a quella, e le rubiamo la sua politica di campanile e facciamo politica regionale, provinciale e comunale. I bassi fondi salgono su, e comunicano la loro aria da trivio alle più alte regioni. I più arditi prendono aria di bravi; i più accorti scambiano l’arte di Stato con la furberia e l’intrigo.

Se ne son viste tante, che oggi anche i più mediocri dondolano il capo, come volessero dire: – E anche noi siamo qua – . Cosa è la politica? Politica è farsi gli amici e gli alleati, vantare protezioni e relazioni, parlare a mezza bocca, congiungere l’intimidazione con la ciarlataneria. Politica istintiva della mediocrità e dell’ignoranza, che si pratica benissimo fino ne’ più umili villaggi, da chi vuol essere sindaco o almeno consigliere comunale. In mezzo a queste piccolezze, il paese lavora e produce e progredisce, e alza le spalle e non vuol saperne di politica, e pronto a fare il suo dovere, lascia soli gli attori assistendo al più a quegli spettacoli che abbiano luce di curiosità o di novità.

Questo è quel male che si chiama atonia o indifferenza politica. Vero è che in mezzo a questo pubblico indifferente, il cui desiderio modesto è di esser lasciato vivere e fare in pace i suoi affari, si agitano associazioni costituzionali e progressiste, circoli repubblicani e internazionali e società cattoliche; ma l’alimento manca e la loro azione rimane circoscritta in piccoli gruppi di aspiranti o d’irrequieti. Son lasciati soli, perché rimangono partigiani, e non viene da essi nessun progresso della coltura e delle idee morali, la grande base sulla quale si formano o si rigenerano le nazioni.

Forse il mio quadro è un po’ fosco, e certo non corrisponde così appuntino a tutta l’Italia. Forse il male è men grave che a me non pare. Ma, piccolo o grande, il male c’è, e il primo metodo di cura è riconoscerlo francamente”.