Luoghi «spaesati»: viaggio nell’Italia al margine

La civiltà dei borghi

di Aldo Bonomi –

Un viaggio fatto di microstorie in ciò che non è più: le baite in rovina delle terre alte, le cascine abbandonate nella bassa, villaggi che restano dopo i terremoti in Irpinia e all’Aquila, e i vuoti paesi della Locride con il loro doppio a valle. È l’attualità dell’inattualità, lo spaesamento, che significa rimanere letteralmente senza paese, che fa apparire un vuoto di rovine che interrogano il futuro, il pieno che abbiamo costruito e abitato dopo l’abbandono.

Avevo concordato con il giornale il microcosmo abituale. Partendo dal libro peripatetico per territori della storica Antonella Tarpino: Spaesati (Einaudi). Un viaggio fatto di microstorie in ciò che non è più: le baite in rovina delle terre alte, le cascine abbandonate nella bassa, villaggi che restano dopo i terremoti in Irpinia e all’Aquila, e i vuoti paesi della Locride con il loro doppio a valle. Convinto come sono che il racconto di questo non più sia funzionale a ragionare sui non ancora, perché, come scrive la Tarpino, «inciampando nei suoi ruderi si avverte quanto il passato (tramite lo “scandalo” di ciò che risulta fuori corso) contamini ancora il presente».
È l’attualità dell’inattualità, lo spaesamento, che in questo caso significa rimanere letteralmente senza paese, che fa apparire un vuoto di rovine che interrogano il futuro, il pieno che abbiamo costruito e abitato dopo l’abbandono. Non sarà un caso se ci ritroviamo in molti a ragionare di smart city e di green economy, facendo i conti con quel concetto del limite che la memoria delle rovine e dell’abbandono ci segnalano. Un libro tutto costruito sul margine, segnala la vibratilità del margine nella crisi del tempo presente. Perché la Tarpino non si limita al racconto delle rovine. Anzi, con un lavoro di archeologia sociale, le fa parlare.
Parla Paraloup, un alpeggio della Valle Stura dove si aggregò una delle prime formazioni partigiane. Qui militò Nuto Revelli che sceso a valle da vincitore nella Cuneo liberata, per tutta la vita non si sarebbe mai dimenticato di quelli che restano e abitano le terre alte: il mondo dei vinti. I numeri dello spopolamento sono impietosi: lo spaesamento si è portato via il 71% della Val Stura, il 75% della Val Grana, l’83% della Val Maira.
Un’ecatombe, una fine del mondo per dirla con Ernesto De Martino. Nelle montagne cuneesi, ripercorrendo il mondo dei vinti si è girato il filmato “Il popolo che manca”. Intessuto di una sottile eterotopia sembra dire che i beni comuni che stanno in alto, dall’acqua al bosco, sono motori di una green economy che verrà.
La Fondazione Nuto Revelli cerca di recuperare Paraloup come un laboratorio tra la resistenza di allora e la resistenza di oggi. Un po’ come gli edifici recuperati che sono un mix tra ciò che rimane delle pietre del passato e i nuovi materiali di oggi.
Nella bassa padana, a Vho di Piadena, parla la cascina “Calderon”. Qui c’è traccia della Lega di Cultura di Piadena e la cascina con la sua storia è protagonista del libro “Il paese sbagliato” del maestro e animatore culturale Mario Lodi. Anche perché ciò che prima stava in alto e in basso, qui sta tutto in orizzontale. La cascina con la sua storia di braccianti e obbligati che lottarono per il patto colonico, la casa del padrone, il palazzo dei Grasselli con l’opulenza di saloni e scalinate e con tanto di teatro, sino ad arrivare a San Lorenzo Guazzone dove si incontrano i numerosi mungitori indiani che hanno preso il posto dei paesan nelle cascine semi diroccate del cremonese.
Come nella Locride, a Riace, paese che il sindaco definisce «paese limite» con le sue «case senza gente» come apparve ad una moltitudine di profughi sbarcati come novelli bronzi alle sue coste. Il paese ha riempito i suoi vuoti accogliendo i rifugiati dalla sua porta del l’acqua, da dove si usciva per andare a prendere l’acqua, trasformata in una porta aperta a quelli che arrivano dal mare.
Ero tutto appassionato per micro storie di rovine interroganti quando dal giornale mi segnalarono un intervento del governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco alla presentazione del volume “Civiltà dei borghi: culla di cooperazione”. Il testo, a proposito dell’attualità dell’inattualità, parte scavando nella storia lessicale del termine borgo, nella differenza tra il burg tedesco e il borgo italiano.
Il primo indicava la rocca feudale, in Italia «rimase a designare il gruppo delle abitazioni del popolo, in contrapposizione al castello signorile», il margine, il mondo dei vinti per usare il lessico della Tarpino. Ma proprio in quel margine il governatore sostiene che affondano le radici della nostra industrializzazione dal basso tracciandone il percorso dal borgo ai distretti al territorio.
All’abbandono e alla fragilità dei borghi e del territorio fa riferimento Visco partendo dal dramma degli eventi sismici e delle recenti alluvioni. Sostenendo che sarebbe necessario «promuovere attività di manutenzione straordinaria, restauro… una rivitalizzazione delle aree periferiche del paese». Mi sono sentito confortato. Se anche il governatore volge lo sguardo in difesa di ciò che non è più, c’è speranza per ciò che non è ancora. La tenacia dei comuni polvere per sopravvivere, l’Italia borghigiana di De Rita, le Langhe di Carlin Petrini che conservano memoria di Paraloup senza cui non ci sarebbe l’Università del Gusto di Pollenzo o EatItaly di Farinetti al Lingotto, dimostrano che si può riabitare, far rivivere la microstoria degli spaesati.

Tratto da “Microcosmi”, Il Sole 24 Ore, 25 novembre 2012