Mi fletto ma non m’impiego

di Rossella Aprea

Non un’intervista questa volta, ma una testimonianza, pubblicata sull’Unione Monregalese nella rubrica “Se potessi avere 1000 euro al mese”, curata da Irene Cavarero. E’ L.M., trentenne diplomato, studente-lavoratore in Scienze Politiche a raccontare i suoi 4 anni “flessibili”. Una rappresentazione amara, lapidaria, lucida delle anomalie e storture che caratterizzano in varia forma tutti i tipi di lavoro e di contratti, in cui possono incappare i precari, anche, e soprattutto quelli, che accettano la flessibilità. Nonostante L.M. abbia accettato di “flettersi”, collezionando esperienze di lavoro diverse per tipologia e forma, si è reso conto dell’impossibilità di rimanere in quella condizione a lungo. La mancanza di qualsiasi forma di protezione sociale per chi ne ha più bisogno, i precari, e la tacita liceità con cui si stabiliscono rapporti di lavoro scorretti costituiscono il segno tangibile di una società, quella italiana, totalmente priva, ormai, di qualsiasi senso di giustizia sociale.

Ricordate quando il marchese del Grillo ordina di suonare tutte le campane di Roma “a morto”? La gente è sconvolta, pensa che sia morto il papa, ma alla fine si scopre che il “morto” per cui si è fatto tanto rumore è la Giustizia.

Se il nobile cialtrone vivesse qui oggi e fosse animato dalla stessa onestà intellettuale, probabilmente comprerebbe pagine e pagine sui giornali per pubblicare un necrologio: quello della Giustizia sociale.

Infatti come può essere considerato “giusto” un sistema che nega la protezione sociale alle persone che più ne hanno bisogno?

Come può essere considerato “giusto” un paese che consente rapporti di lavoro evidentemente scorretti?

La testimonianza di L.M.

Ho sempre considerato il lavoro come un’opportunità per conoscere le cose e le persone, oltre che un mezzo per vivere. In ogni caso, se non hai un immenso patrimonio familiare, il lavoro più che una scelta è una necessità. Però c’è anche la curiosità di capire come si fa concretamente una cosa: provare ogni volta a farla meglio può essere una sfida interessante.

Quattro anni fa, dopo tre anni da dipendente con un contratto a tempo indeterminato in una azienda vinicole, decido di cambiare lavoro: a venticinque anni mi sembra di non poter rimanere per sempre nello stesso posto senza provare altre strade. Nell’era della flessibilità non dovrebbe essere un problema. Infatti non lo è, di lavori se ne trovano sempre. Hanno in genere un difetto: hanno tutti una data di scadenza, come il latte. E quelli che non hanno una scadenza sembrano pensati apposta per farti smettere di lavorare, per le condizioni assurde che ti impongono. E infatti ho notato che questa seconda categoria di lavori ha un ricambio di personale altissimo. In ogni caso, se sei “flessibile”, riesci sempre a trovare altri lavori.

Rimane un dettaglio: e tra un lavoro e l’altro? Perché nel passaggio da una mansione all’altra ci sono dei tempi morti e a fine anno rischi di aver saltato due mesi di salario, che con gli stipendi attuali non è poco. Ma se ci fosse un minimo di assistenza almeno riusciresti a coprire le spese fisse.

Intanto cominci a “fletterti”, assecondando il mercato.

Ecco i miei 4 anni flessibili.

Restauratore con contratto a progetto. Finisce il progetto, non hai diritto ad alcuna indennità di disoccupazione.

Agente immobiliare: sei obbligato a prendere la partita iva, ma di fatto sei trattato come un dipendente. Hai tutti gli oneri del libero professionista, ma non sei affatto libero. E per almeno un anno non guadagni: non fa per me, non me lo posso permettere. Lasciato il lavoro, non hai comunque diritto alla disoccupazione.

Inserimento dati per aggiornamento archivi. In nero. Quindi, quando il lavoro finisce, non hai diritto alla disoccupazione.

Vendemmiatore. Finita la vendemmia, avresti diritto alla disoccupazione… Se avessi maturato abbastanza giorni da dipendente!

Assistente sullo scuolabus. Finito il lavoro avresti maturato i giorni per ottenere una piccola indennità, ma ti ha assunto una cooperativa a patto che alla fine ti licenzi… Quindi non hai diritto ad alcun sussidio.

“Procacciatore d’affari”: hai un contratto a progetto con un fisso irrisorio e sei pagato a cottimo, cioè un tanto per ogni “affare” concluso. Di fatto sei un commesso, cioè un dipendente, che però è pagato a provvigione. Scopri poi che la provvigione è calcolata su risultati impossibili da realizzare. Almeno per me e per il 99% di chi ci prova. Quando smetti, poiché avevi nominalmente un contratto a progetto (ma che progetto è “vendere di più”?), non hai diritto alla disoccupazione.

Promoter in un centro commerciale. Contratto a chiamata. Tra una “chiamata” e l’altra non hai alcun sussidio.

E per finire… La ciliegina sulla torta! Assunto per ritirare presso un municipio della provincia un documento per conto di un’impresa che ha preso in appalto il servizio di pulizia e la cui sede dista 856 km dal suddetto municipio. Durata del contratto: 4 ore.

Quindi, dall’analisi della mia esperienza di lavoratore flessibile evinco che: se lavori da dipendente con un contratto a tempo indeterminato senza interruzioni, e quindi non sei mai disoccupato, avresti pure diritto alla disoccupazione. Se cedi alla flessibilità perché aspiri a un lavoro migliore (o perché non hai un lavoro) e cambi più lavori esponendoti inevitabilmente a brevi periodi di disoccupazione tra uno e l’altro, il diritto alla disoccupazione non ce l’hai.

Poi dicono che i lavoratori non devono arroccarsi su posizioni vecchie e fuori dalla realtà. Io la posizione flessibile l’ho provata. Ma non è una posizione che si possa mantenere a lungo.