Paestum bene comune

Legambiente compra Paestum per restituirla al mondo

di Oscar Nicodemo –

L’azione degli ambientalisti pestani ha in sé elementi di straordinarietà e rimanda ad una rivendicazione universale per il diritto a godere della cultura, semplicemente intesa nel suo largo significato: il tentativo di comprare gran parte di un’area archeologica adibita a coltivazione, laddove non si presenta coperta solo da una selvatica vegetazione, per proporne l’incanto al turismo internazionale, di cui Paestum sin dai primissimi flussi è stata una tappa irrinunciabile, comporta considerazioni che esplorano il meraviglioso passato.

La “riscoperta” romantica del centro della Mégale Hellàs da parte di umanisti incomparabili, come Goethe e Winckelmann, trova, così, a distanza di quasi tre secoli, una spirituale e sintomatica consonanza nell’intenzione di esporre alla luce vestigia che, da troppo tempo ormai, appartengono alla fantasia dei creativi e all’immaginifico prospetto visivo degli studiosi, essendo, queste, sommerse in terreni che risultano di proprietà privata. Sì, perché, tutto sommato, la volontà di porre all’attenzione generale testimonianze tanto indicative della storia dell’umanità, per ora non visibili, oltre ad avere una risonanza ed una finalità strettamente legate alla contemporaneità, si riconduce ad una percezione della vita e ad una visione del mondo che pongono in posizione centrale la gioia di conoscere, di apprezzare, di contemplare. E i pionieri settecenteschi del turismo culturale erano mossi da motivazioni del genere.

Ecco perché, il singolare progetto del Circolo Freewheeling di Legambiente-Paestum, denominato “Paestumanità”, sembra adagiarsi adeguatamente, con la dovuta leggerezza, nel cuore e nella mente degli amanti delle pregevolezze storiche, dell’arte architettonica, della cultura in genere. Rilevare, dunque, attraverso un azionariato popolare, una “buona azione” da 50 euro al fine di acquisire l’area privata, situata all’interno della cinta muraria dell’antica città di Poseidonia, per rendere interamente visitabile la polis e ammirarla in tutto il suo splendore, resta un’idea convincente, applicabile, risolutiva.

La brillante iniziativa, già nobile di per sé, condivisa con entusiasmo da giornalisti, critici e artisti di fama, tanto da esserne stati parte attiva, come Gian Antonio Stella, Gillo Dorfles e Vinicio Capossela, trova nelle riflessioni della professoressa Monica Amari, esperta in Progettazione Culturale e docente dell’Università Bicocca di Milano, lo slancio ideale per ottimizzare, razionalizzare e rimodernare le finalità contenute nel progetto stesso. Quella che potrebbe apparire come una semplice “raccolta fondi”, strumento operativo di molte realtà associative -sostiene la prof.ssa Amari- è in realtà molto di più: è un punto di non ritorno, contenente tre idee innovative che hanno premesse ideologiche di grande rilievo, da cui non si può più prescindere.

Il progetto

1) è una precisa richiesta di azione politica a livello europeo, in considerazione del fatto che il riconoscimento del concetto di sostenibilità culturale presuppone un riesame del modello di sviluppo voluto dal Trattato di Amsterdam nel 1977;

2) è l’espressione di un neo collettivismo culturale.

3) ha soprattutto una valenza di ordine etico, poiché afferma la necessità di un modello di distribuzione sociale della bellezza, come condizione fondamentale per poter instaurare processi di relazione e di convivenza civile.

In merito alle motivazioni dei tre punti enunciati, l’autrice sottolinea che il Trattato di Amsterdam riconosce nel modello di sviluppo, inerente ai Paesi dell’Unione, l’importanza fondamentale della sostenibilità ambientale, economica e sociale, dimenticando del tutto di includervi, come elemento strutturale, la sostenibilità culturale. L’omissione non è stata assolutamente indolore -fa notare la Amari- tant’è che ha portato le politiche culturali ad essere considerate residuali e non soggette ad interessanti linee di finanziamento, contrariamente ad altri settori, che, ritenuti, invece, strutturali, hanno beneficiato di incentivi per poter sviluppare processi innovativi non indifferenti: uno per tutti il concetto di green economy e green society. Alla riprova dei fatti, quindi, una simile dimenticanza ha consentito che i governi nazionali continuassero a perpetrare tagli alla cultura, lamentando la scarsità di risorse a fronte di una crisi finanziaria ed economica di cui non si vede la fine. In realtà, come hanno ampiamente dimostrato gli avvenimenti scanditi dalla cronaca più recente, in una nazione come l’Italia, ad esempio, l’intero sistema partitico ha preferito allocare le risorse pubbliche in comparti più remunerativi per le consuete prassi di malversazione e corruzione. Pertanto -fa osservare la studiosa- si potrebbe fare di “Paestumanità” una leva per spingersi a chiedere all’Europa un patto per la sostenibilità culturale: Paestum, prima di essere un patrimonio mondiale dell’umanità è un patrimonio europeo, e come tale oggetto di diritti e doveri da parte dell’Unione Europea, non solo del singolo stato nazionale.

Quanto al riferimento teorico del progetto, esso viene identificato in un nuovo collettivismo di tipo culturale, che in qualche modo rimanda alla filosofia di Rousseau e alla teoria de “Il Contratto Sociale”, e, pertanto, sicuramente diverso dal collettivismo di ordine economico di matrice totalitaria.

Ma “Paestumanità”, nell’ottica delle considerazioni di Monica Amari, è soprattutto un progetto etico, in quanto oltre a rifarsi in modo più semplice a un modello di trust di tipo anglosassone, come fa da anni il Fai, che acquisisce per donazione proprietà dai privati per poi farle condividere alla collettività, sposta ancora più avanti la linea della ricerca nell’ambito delle teorie di politica culturale, offrendo un modello di distribuzione sociale della bellezza come nuova esigenza ed espressione del bene comune e di giustizia sociale.