Quanto “stanca” essere precari?

di Rossella Aprea

Una quotidianità fatta di confusione, di disorientamento, di incertezza assoluta. Una vita fatta di presente, in cui il futuro non riesce a farsi largo. Mai. E la stanchezza diventa l’unica sensazione che prevale e ti accompagna. Questa la condizione di chi vive per anni nel precariato. Si fa largo con il tempo, nella mente e nell’animo, insieme a una sensazione di estenuante ricerca, la convinzione, che diventa, in seguito, quasi certezza dell’ineluttabilità della propria situazione, dell’impossibilità di modificarla per quanti sforzi e quanto impegno si possano profondere. Un’altra intervista franca e dolorosa.

Proseguo il viaggio nel mondo del precariato attraverso questa piccola, ma significativa inchiesta di LIB21, fatta di incontri, di sguardi, di conversazioni, di confessioni amare ed imbarazzate.

L’esperienza dell’incontro a domicilio è stata molto fruttuosa, decido, così, di replicarla. Il perché è facilmente spiegabile, nella propria realtà gli intervistati parlano più facilmente, sono a loro agio nella propria casa, in un ambiente rassicurante e in un’atmosfera tranquilla e silenziosa, senza fretta. Io non faccio altro che incoraggiare la conversazione e stimolarla, ma mi dispongo all’ascolto. Come sempre, cerco di far dimenticare all’interlocutore che c’è un intruso, un piccolo registratore che annota tutto fedelmente per me: intonazione della voce, contenuti del discorso, pause, incertezze, anche se è totalmente incapace di rappresentare uno sguardo, le mani che si contorcono, che toccano nervosamente il viso, le labbra, le gambe che si accavallano, la postura del corpo, che tende a chiudersi. Questo rimane impresso nella mia mente e solo lei è in grado registrarlo. Purtroppo, non so se mai riuscirò a trasmetterne anche solo un frammento nel testo scritto. In tutte le interviste fatte sinora restano in me queste immagini, unite alle parole, alle riflessioni, che mi danno la misura netta e incontrovertibile della gravità del livello di sofferenza, del disagio, a volte affrontato con coraggio, a volte con serena consapevolezza, a volte con palpabile frustrazione e senso di colpa.

Questa volta nella loro casa, mi accolgono in due F.P., quarantenne romana e la sua creatura che nascerà tra alcuni mesi. Vivacizza il nostro incontro una giocherellona femmina di boxer, che tenta di attirare la mia attenzione in ogni modo. Verso la fine dell’incontro rientra anche il marito di F.P. ne nasce un’inaspettata ma interessantissima conversazione a tre, che mi fa perdere la cognizione del tempo. Resto a casa loro per quasi tre ore, il tempo vola, e solo i timidi guaiti di Laika ci richiamano alla realtà.

Quello che mi colpisce subito di F.P. è il senso di stanchezza, il disorientamento, la rassegnazione di chi le ha provate tutte, che si manifesta con una palpabile evidenza. F.P. si laurea in Lettere a 24 anni, manda subito il curriculum a una serie di case editrici, ma senza risultato. Si arma allora di pazienza e con l’aiuto economico del padre segue un corso per redattore e correttore di bozze presso case editrici, spendendo anche molti soldi. Neanche questo la aiuta. Così decide di frequentare la scuola Vaticana in biblioteconomia, supera la selezione e dopo un anno consegue il diploma con il massimo dei voti. L’idea, che poi si rivelerà un’illusione sarebbe stata quella di poter lavorare nel settore dei beni culturali, nel mondo delle biblioteche, di diventare un bibliotecario. Un sogno accarezzato, sfiorato, ma mai raggiunto. Diventa, invece, un forzato della catalogazione.

“Dopo la scuola vaticana è iniziato questo calvario” – così lo definisce senza mezzi termini – “che è durato circa nove anni, sempre con contratti co.co.co, co.co.pro., collaborazione occasionale, prestazione di opera intellettuale etc. Ho lavorato 3 anni e mezzo presso una biblioteca universitaria, ma dopo un primo contratto personale di un anno, le cose sono cambiate e mi hanno invitato a trovare una cooperativa che mi assumesse per poter continuare a lavorare con loro. E così da quel momento in poi è stato così in tutti i posti in cui sono stata, ho lavorato sempre tramite cooperative, perché in tutte le strutture, soprattutto se si tratta del lavoro di catalogatori, non ci sono altre possibilità che il ricorso alle cooperative. Ho fatto il catalogatore complessivamente per 9 anni, non il bibliotecario, che è un’altra cosa, con contratti dai quattro mesi ai 3 anni. Ad un certo punto non ce la facevo più, ogni volta dovevo specializzarmi nuovamente in determinate materie o nella conoscenza di strumenti specialistici, che non conoscevano spesso neanche quelli che lavoravano sul posto. In me è maturato anche un certo sfinimento, perché ti ritrovi in questa condizione altalenante, sempre di scarsa definizione e massima disponibilità che devi garantire con uno zero di ritorno. Nei tre anni in cui ho lavorato continuativamente nella stessa struttura mi incoraggiavano ad avere pazienza, ad aspettare, perché la situazione poteva e doveva evolvere. Sarei potuta rimanere in quelle condizioni per tutta la vita. Ad un certo punto ho veramente creduto che accadesse quello che speravo perché a seguito di alcuni cambiamenti sembrava si aprissero delle possibilità. Purtroppo, neanche in quel caso sono stata presa in considerazione, e mi sono definitivamente demoralizzata. Questa è una tecnica, poi l’ho capito, non ti dicono mai di no, ti dicono di aspettare, rinviano, ma la situazione non si sblocca e non si sarebbe mai sbloccata. Quando me ne sono andata, la persona che mi ha sostituita è stata assunta con la stessa tecnica.”

Aprire il fronte compenso è altrettanto deprimente.

Spesso la retribuzione era versata in tranche, pagati sempre con un mostruoso ritardo, per una media di mille euro al mese. La mia esasperazione è arrivata al limite. Lavorare in biblioteca nel mio immaginario era proprio un’altra cosa. E io preferisco allora fare come tutti quelli demansionati che vengono magari messi al desk, perché è una cosa più umana, piuttosto che lavorare a catalogare come un pollo da batteria, isolato, chiuso in una stanzetta, o peggio in corridoi e cunicoli improbabili. Quello che ho trovato avvilente di tutti questi contratti con le cooperative nei vari posti privati o pubblici in cui sono stata, è che sei vincolato rigorosamente alle tue mansioni dalle quali non ti puoi schiodare. Se sei stato chiamato a catalogare, puoi fare anche altre cose “di nascosto”, ma nessuno lo deve sapere. E ovviamente tu non lo puoi inserire nel tuo curriculum, perché non sono previste e quindi anche un patrimonio di esperienza che tu hai capitalizzato, non lo puoi utilizzare, non ne puoi usufruire. Non lo puoi scrivere, perché non è nelle mansioni previste nel progetto. Io mi sono sempre vista come una specie di lavoratore in miniera. Così ho gettato la spugna. Sono due anni, che non lavoro.”

Provo a chiederle cosa le piacerebbe fare, la risposta mi fa capire che quelle lunghe giornate in cui forzosamente veniva condannata alla solitudine e all’isolamento, l’hanno segnata profondamente.

“A me piacerebbe lavorare con il pubblico. Infatti, arrivata ad un certo punto, io ho rimesso in discussione le scelte che ho fatto, perché mi sono trovata a fare un lavoro che non ho mai considerato tale, senza disporre di una scrivania e senza poter avere contatti con le persone. In certi posti mi sono trovata anche segregata in certi labirinti dove stavo completamente da sola senza vedere nessuno. Probabilmente dovevo muovermi in un’altra direzione, dovevo lavorare nel sociale.”

E’ confusa.

” Io ho pensato di tutto e per questo dopo l’ennesima esperienza, durata solo quattro mesi, dove mi dovevo occupare di elaborare delle guide su banche dati giuridiche economiche, fiscali, tributarie e catalogare materiale residuale che, ormai essendo stata chiusa la biblioteca, non aveva neanche più senso catalogare, ho deciso di lasciar perdere.. Quattro mesi di lavoro, peraltro pagati sei mesi dopo. Adesso sono ferma e aspetto questo bimbo”

E qui si ferma e sorride un attimo, finalmente.

“Tra l’altro considera che se nel corso degli anni, come è successo a me, ti proponi come una donna, in condizioni lavorative precarie, con un’età anagrafica che prevede un rischio di maternità, sei proprio fuori da ogni possibilità. Puoi partecipare solo ad un concorso pubblico e basta, in altri ambiti e in altri settori no, perché tu sei una specie di bomba a tempo. Mi sono sentita diverse volte chiedere, se ero sposata o fidanzata e se avevo intenzione di farmi una famiglia. Domande che io ho trovato veramente inopportune.”

Le domando se pensa di considerare il lavoro un capitolo chiuso.

“No. Con il lavoro in assoluto no. Penso con questo lavoro di catalogazione, con le biblioteche sì. Non ce la posso fare. Immagina anche che ci sono stati giorni in cui dovevo lavorare 10 ore, facendo un’attività di controllo tra schede e documentazione al computer, da sola, senza parlare con nessuno”

Provo a capire se almeno c’era qualche aspetto positivo in questa esperienza di precariato che ha vissuto, ad esempio la possibilità di organizzare il suo tempo liberamente. La risposta è netta.

“Positivo? Un tempo che non scegli e un tempo che ti obbliga? L’intervallo tra il tempo in cui si conclude un lavoro, la corsa affannosa a cercartene un altro, che cos’è? E’ un tempo libero, che ti puoi gestire? Puoi stare fermo anche solo un mese, ma è un mese che tu non vivi con serenità, per cui tu possa dire di questo tempo ne dispongo. A mio avviso, tra le cose che pregiudica il precariato per una donna c’è sicuramente quello di crearsi una famiglia, di avere una sicurezza esistenziale.”

E una realizzazione professionale? – le domando.

” Sì, anche, ma quello è proprio implicito. Io non mi sono mai sentita realizzata. Mai, mai…”

La voce si affievolisce, cambia argomento.

Io non ho più i miei genitori, mi hanno comunque lasciato in una condizione economica accettabile, così posso anche permettermi di non lavorare. All’inizio questa cosa l’ho vissuta con un senso di grande frustrazione e con grande dolore, perché comunque mia madre e mio padre hanno profuso molto impegno. Entrambi laureati, entrambi professori, hanno investito molto sul mio futuro. Mi ha dato molto dolore il fatto di pensare, dopo che non ci sono stati più, di non poter finalizzare quello che faccio a nulla. Posso vivere perché queste due persone mi hanno messo nelle condizioni di farlo. Posso vivere senza lavorare, ma certo questo non è mai stato il mio obiettivo, né il loro per me. Mio padre è morto nel dolore della mia condizione e nella preoccupazione per me fino all’ultimo. Non se n’è fatto una ragione finché è vissuto, non se n’è proprio fatto una ragione…”

Lo ripete a me e a se stessa, la voce diventa un soffio, abbassa lo sguardo. Mi vien voglia di chiudere l’intervista, è troppo, troppo duro, ma lei continua.

“Io ho anche una visione molto unilaterale, la vita del lavoratore precario io la identifico con la vita di schiavo che ho fatto io. Per me il lavoro precario è uguale a questi lavori di cottimo, di schifo che ho fatto io. Sono arrivata addirittura a pensare che forse lavorare in un call center è meglio (a meno che non devi vendere, questo no), ma se tu sei in un servizio che ha le chiamate in ricezione, forse è meglio, perché almeno ti interfacci con delle persone e non con questa carta straccia.

In questi ultimi due anni, diciamo, di “vacanza” ho anche pensato di fare un lavoro volontario. Per esempio, ho una mia amica che lavora in una biblioteca comunale, potrei collaborare prestando servizio volontario lì, però così tornerei indietro al punto esatto in cui ho iniziato dieci anni fa. Ho pensato addirittura questo, pur di essere coinvolta in qualcosa, e non vivere in questa astrazione assurda, perché tolta questa alienazione mia di queste otto ore vissute in quel modo, quello che mi è mancato è proprio anche il senso di non sentirsi parte di niente, di un progetto, di una relazione. Niente. Niente. Ci sei tu, alla catena di montaggio. Quello che mi ha provocato molto dolore, sai, è stato anche il fatto che io ho sempre amato molto leggere, ho amato i libri, anche come oggetti. Tu ci credi che con questo lavoro io sono riuscita ad odiarli. Se mi mettevi davanti un opuscolo schifoso fatto con carta straccia, o mi mettevi davanti libri rari, bellissimi, con incisioni, per me era diventato uguale, non me ne fregava niente, perché l’unica mia preoccupazione era che avere quel tempo a disposizione per lavorare su quel libro significava guadagnare (nell’incarico più “ricco” che mi è capitato) 6 euro e 50 lordi. Quindi per me che c’erano le incisioni con la botanica o gli studi anatomici del millecinquecento o che dovevo trattare un estratto di miscellanea di 20 pagine, era uguale, anzi meglio il secondo perché era più piccolo e più veloce da trattare, così impiegavo meno tempo a guadagnarmi gli stessi soldi.”

A questo punto le domando con evidente imbarazzo “Chiederti come vedi il tuo futuro è una domanda inopportuna?”

“Dal punto di vista professionale, lo vedo proprio nebuloso…anzi non lo vedo. Lo vedo al limite in un servizio volontario, cioè su quello qualcosa trovi.”

Mi limito a farle notare che dovrebbe forse cambiare settore visto che quello in cui ha lottato per nove anni non le ha portato niente di significativo.

“E’ che io adesso difetto proprio di immaginazione” – mi risponde sconfortata – “io non riesco neanche ad immaginare cosa potrei fare, né un ambito, né un interesse.”

A questo punto si inserisce il marito che lavora presso un Centro Orientamento Lavoro e racconta con tono pacato, ma con estrema sicurezza che cosa sta accadendo nel mondo del lavoro e quali cambiamenti sconvolgenti ha avuto modo di rilevare da questo osservatorio particolare negli ultimi 5-6 anni, ma questa è un’altra storia, un’altra intervista che vi racconteremo presto.

Quando si conclude la nostra lunga conversazione, F.P. mi accompagna alla porta e mi saluta con la mano fin sul pianerottolo. Vado via con una duplice sensazione: il piacere di aver conosciuto delle persone semplici e autentiche e la tristezza di non poter fare nulla, di affidare solo a questo piccolo scritto su Internet, la storia di una vita.

Mi avvio verso la macchina e mi ritorna l’immagine di un sorriso dolce e un pò nervoso e una frase che riecheggia nella mente come una fucilata “provo dolore!”.