Servizi pubblici locali e beni comuni

Si tutela il “bene comune” difendendo i monopoli?

di Andrea Pezzoli

La saga dei servizi pubblici locali ci offre più di uno spunto per concludere che no, non è difendendo il monopolio che si garantisce la tutela dei “beni comuni”

Siamo sicuri che per tutelare i “beni comuni” si debbano difendere i monopoli e le loro rendite? La saga dei servizi pubblici locali ci offre più di uno spunto per concludere che no, non è difendendo il monopolio che si garantisce la tutela dei “beni comuni”. La concorrenza, nelle forme in cui è possibile, può essere invece uno strumento assai utile per avere servizi pubblici efficienti, accessibili e di buona qualità.

Dopo il referendum e la sentenza della Corte Costituzionale

Il quadro regolatorio delineato per i servizi pubblici locali con i decreti Salva-Italia e Cresci-Italia presentava indubbiamente ancora più di una fragilità ma si caratterizzava per un’accettabile coerenza interna. Le “fragilità” riguardavano tre profili in particolare: i) il nuovo assetto normativo non era sufficientemente rispettoso delle peculiarità di settori anche molto diversi tra loro come il trasporto locale ovvero la raccolta e lo smaltimento dei rifiuti; ii) alcuni passaggi regolamentari erano un po’ “barocchi” e onerosi sia per le amministrazioni locali che per l’Autorità antitrust, chiamata ad esprimersi sugli effettivi spazi per l’introduzione di una gestione concorrenziale; iii) non venivano previste le misure di “compensazione” senza le quali l’introduzione della concorrenza risulta socialmente indigesta quanto meno per le categorie direttamente interessate.

Le “nuove” regole, tuttavia, per la prima volta esplicitavano i passaggi logici che andrebbero seguiti per individuare le modalità di affidamento e di gestione più efficienti: definiti gli obblighi di servizio pubblico, identificare la parte del servizio che può essere garantita anche dal solo confronto concorrenziale; solo per la parte non profittevole del servizio ipotizzare un sussidio e l’affidamento in esclusiva (sfruttando al meglio le potenzialità della concorrenza per il mercato); in coerenza con i principi comunitari ricorrere agli affidamenti in house solo una gestione competitiva del servizio configge con la “missione pubblica”.
E, però, c’era un però nient’affatto irrilevante. Il nuovo quadro regolamentare, per quanto avesse escluso dalla nuova disciplina il servizio idrico (che in molti pensavano fosse l’unico settore interessato dal referendum), finiva per “ri-proporre” più di un ingrediente considerato “indigesto” dal 95 per cento degli elettori che si erano espressi per l’abrogazione dell’art. 23 bis.

A giudizio della Consulta le modifiche introdotte nella regolazione dei servizi locali finivano per porsi in contrapposizione con l’esito referendario. In particolare, l’art. 4 del dl n. 138/2011 nei fatti reintroduceva le norme contenute nell’art 23 bis che rendevano obbligatorio il confronto concorrenziale e limitavano a ipotesi residuali gli spazi per gli affidamenti in house[1].
Il sistema dei servizi locali rischia, pertanto, di riprendere l’andamento oscillante tra i tentativi (a volte anche sinceri ma più spesso velleitari) di “costringere” all’efficienza il monopolista pubblico (con quali strumenti?) e i tentativi ambiziosi (in un Paese che stenta a percepire le virtù della concorrenza anche nei mercati dei beni e servizi privati) di avvalersi degli incentivi concorrenziali per utilizzare al meglio le sempre più scarse risorse pubbliche destinate ai servizi pubblici locali.
Di nuovo e per sempre servizi pubblici locali instabili e lontani da gestioni efficienti? E, soprattutto, ora che il confronto concorrenziale garantito – nei limiti del possibile – dalla gara viene derubricato da “obbligo” a opportunità, lasciata al buon cuore delle amministrazioni locali, cosa ci resta per garantire che le sempre minori risorse pubbliche destinate alla gestione dei servizi locali siano utilizzate al meglio, minimizzando gli sprechi? Cosa ci resta per provare a far sì che i servizi locali, proprio perchè beni comuni, non siano “svenduti” ma anche gestiti in modo efficiente?

Ritengo che siano interrogativi ai quali siamo tenuti a rispondere un po’ tutti. Sia coloro che, votando sì all’abrogazione dell’art. 23 bis, non confidavano in un’improvvisa scoperta dell’efficienza da parte dei monopoli pubblici, sia coloro che hanno votato no, non in omaggio ad un’indimostrata superiorità della gestione privata su quella pubblica, ma piuttosto sperando che l’esposizione al confronto concorrenziale (e non la privatizzazione!) costringesse il gestore dei servizi, privato o pubblico che fosse, a dare se non il meglio almeno il meno peggio di sé, a beneficio dei cittadini/utenti e dei cittadini/contribuenti.

Come gestire al meglio i servizi locali

Autobus, metro, treni affidabili e puntuali, materiale rotabile confortevole, raccolta dei rifiuti differenziata e frequente, insomma servizi locali efficienti e che utilizzino al meglio le risorse pubbliche se non necessariamente beni comuni dovrebbero senz’altro essere obiettivi comuni.

In particolare, gli elettori di sinistra (ma non solo) dovrebbero tutti avere a cuore il buon funzionamento dei servizi pubblici locali, ingrediente fondamentale oltre che per crescita e la competitività del sistema economico anche per una giustizia sociale che non poggi solo sulla ridistribuzione del carico fiscale.

Una parte consistente dell’elettorato di sinistra (ma non solo) è tuttavia in buona fede scettica in merito alla possibilità che l’apertura alla concorrenza nei servizi pubblici (gara e/o confronto tra diversi gestori nel mercato) possa costituire un mezzo per aumentarne l’efficienza e, dunque, per utilizzare al meglio le risorse loro destinabili, peraltro sempre più scarse. Allo scetticismo in buona fede si aggiungono le resistenze corporative di coloro che temono per le loro poltrone e per i loro privilegi (spesso micro-privilegi ma pur sempre privilegi) e di coloro che sono ideologicamente ostili al mercato, anche quando le virtù della concorrenza non vengono idolatrate come obiettivo in sé ma più laicamente richiamate come strumento di efficienza e di erosione di ingiustificate rendite di posizione.

Lo scetticismo è tale che invece di sperimentare i risultati della liberalizzazione (non della mera privatizzazione!!) dei servizi si preferisce non mettere in discussione la gestione pubblica in monopolio, ipotizzandone al più un ardito recupero di efficienza (le cui determinanti però non vengono precisate) o persino rassegnarsi agli sprechi e alle inefficienze che tale gestione produce, timorosi che qualsiasi forma di liberalizzazione sia comunque peggiore dello status quo.
È del tutto comprensibile il timore che dal monopolio pubblico si passi semplicemente al monopolio privato. Un timore alimentato anche da chi racconta l’introduzione della concorrenza semplicemente come il passaggio alla gestione privata, aprioristicamente considerata più efficiente di quella pubblica. In questo senso chi, in occasione del referendum, ha sostenuto le ragioni del no all’abrogazione dell’art. 23bis in quanto fiducioso delle potenzialità degli affidamenti competitivi, non può limitarsi a denunciare le manipolazioni prodotte da una parte dei referendari (si è lasciato credere che il referendum fosse sull’acqua e sui rischi di una sua privatizzazione piuttosto che sulla generalizzata abrogazione dell’obbligo di gara) ma deve anche sottoporsi a una severa autocritica laddove non ha preso le distanze dai vari comitati che invece delle virtù della concorrenza esaltavano le virtù (!?) della proprietà privata.

Assai meno comprensibile appare invece continuare a preferire il monopolio pubblico di fronte a chi, neutrale rispetto alla natura della proprietà, suggerisce di non scartare le possibilità offerte da modalità di affidamento o dalla gestione concorrenziale dei servizi locali. Fossimo in Francia dove per lungo tempo la gestione monopolistica pubblica ha dato buona prova di sé, lo capirei. Ma nel nostro Paese gli esempi “presentabili” di monopolio pubblico dei servizi locali si possono rintracciare con fatica solo in alcune realtà regionali. E persino in quelle poche realtà negli ultimi anni la riduzione delle inefficienze si è potuta realizzare anche e forse soprattutto grazie alla “minaccia” della gara, senza la quale il gestore pubblico difficilmente si sarebbe sottoposto a significative cure dimagranti…

Appare dunque difficile capire quali incentivi si vogliono utilizzare per costringere all’efficienza il monopolista pubblico. Un contratto di servizio particolarmente rigoroso ed esigente? Ma se l’incompletezza dei contratti (la difficoltà a prevedere tutte le eventualità e a prevederne un efficace monitoraggio) è una dei principali argomenti utilizzati per frenare facili entusiasmi anche per gli affidamenti con gara!!

A meno che – ma allora sarebbe ancor più incomprensibile – non ci si accontenti dello status quo, con le sue inefficienze, gli sprechi, i consiglieri di amministrazione “selezionati” tra le file dei candidati non eletti da ricompensare e il costo sociale iniquamente distribuito a scapito delle categorie più deboli. Continuando magari a ricordare la natura di “bene comune” di alcuni servizi pubblici e, forti di un lessico evocativo, chiedere a gran voce più risorse da canalizzare in un sistema ben lontano dall’efficienza.

E, invece, proprio perché beni comuni, dovrebbero essere gestiti al meglio, per averne di più e di migliori. La concorrenza, nelle sue varie forme e con tutti i suoi limiti, è una possibilità. Magari declinandola con normative settoriali più rispettose delle specificità dei diversi servizi e dotate di previsioni che garantiscano l’equilibrio economico del servizio pubblico, così da non rinunciare ai benefici derivanti dall’ingresso di nuovi gestori non sussidiati. Se ci sono altre soluzioni altrettanto efficaci, ben vengano purchè adeguatamente motivate. Ma, per favore, discutiamo nel merito e poniamoci tutti il problema di come avere un sistema di servizi pubblici locali, efficiente, di qualità e a costi sostenibili. Nella consapevolezza che affidamenti in house non adeguatamente motivati, finiscono per tradursi nella difesa delle rendite monopolistiche piuttosto che nella tutela del “bene comune”.

L’autore lavora presso l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato. Le opinioni espresse sono quelle dell’autore e non coinvolgono l’istituzione di appartenenza

[1] Cfr. Corte Costituzionale sentenza n. 199/2012 del 17 luglio 2012

L’articolo è ripreso da Sbilanciamoci