Servono ancora i partiti?

Verso un partito ibrido

di Luigi Della Luna Maggio

L’elezione del Presidente della Repubblica ha messo in tutta evidenza la fragilità dei partiti. C’era da aspettarsi che i gruppi dirigenti, in particolare del Pd, non fossero più capaci di “fare sintesi” tra le varie anime o correnti del partito.

Già da alcune settimane, si discute molto, in generale a sinistra, della necessità di provare a dare una nuova forma partito al Pd e ad un (probabile) nuovo partito della sinistra (che includa anche Sel), capace di ricucire lo strappo (ormai evidente) con la base e più generale con il territorio (nonostante le primarie che, paradossalmente, hanno acuito lo scontro tra le varie correnti del Pd). Il recente contributo del Ministro Barca ha posto al centro del dibattito politico l’individuazione di nuovi modelli organizzativi dei partiti, in riferimento soprattutto al futuro del Pd (gli scenari stanno evolvendosi rapidamente per cui è difficile ora capire che tipo di contributo riuscirà a dare il documento di Barca). In questa sede, non si vorrà analizzare il documento sul “partito nuovo”, né si vorranno passare in rassegna i modelli organizzativi dei partiti che in occidente si sono affermati a partire dal secondo dopo guerra. Piuttosto, l’intenzione è quella di portare avanti alcune considerazioni prendendo spunto dalla recente cronaca politica italiana.

Da molti anni si discute della necessità di riempire quell’enorme vuoto lasciato dalla scomparsa dei partiti di massa. Ciclicamente, ritorna la nostalgia per la funzione (certamente straordinaria) svolta dai partiti di massa, e, ciclicamente, ritorna il tentativo da parte di taluni di voler riproporre, probabilmente in forme nuove, quel modello organizzativo, solido, di massa, che ha avuto tanta fortuna nei decenni scorsi. Quello del Ministro Barca, è uno dei tanti tentativi finora proposti per individuare un nuovo modello organizzativo dei partiti, una nuova forma di connessione tra l’apparato, la classe dirigente, e il territorio, la base. Spalleggiato da Sel, l’idea di partito di Barca è quella di ritornare a costruire una politica di dialogo con quelle forze espressione del territorio. Un grande partito di sinistra, insomma. Sull’altra sponda, Renzi, insieme all’idea di ritornare (qualora ci fossimo mai arrivati prima) ad un sistema bipolare, propone l’idea di un Pd a “vocazione maggioritaria”, simile, per certi versi, a quella di Veltroni che quando nel 2008 lanciò la sua candidatura a Premier, puntò moltissimo sull’idea di un partito capace di pescare consensi anche fuori dai tradizionali confini elettorali.

E’ doveroso premettere che queste sono considerazioni che potrebbero essere ribaltate nei prossimi giorni, dal momento che la situazione politica è in continua trasformazione, sia dal punto di vista del sistema dei partiti che dal punto di vista degli equilibri istituzionali.

Ad ogni modo, al di là delle opinioni, ritengo che le proposte appena accennate, insieme ad altre che saranno avanzate in vista del prossimo Congresso del Pd, favoriscono l’utile quanto indispensabile dibattito sul futuro dei partiti politici e sulla loro funzione che svolgono all’interno della società. Del resto, è opinione diffusa (una certa lettura dei dati elettorali delle ultime elezioni politiche lo confermerebbe) che i partiti politici hanno perso la loro funzione originaria di intercettare il disagio sociale e incanalarlo nelle istituzioni democratiche affinché si traducano in decisioni politiche. E’ opinione diffusa, insomma, che i partiti siano diventati delle agenzie elettorali nelle mani di pochi capi corrente, divenuti piccoli comitati affaristici. Si tratta di un’opinione che, probabilmente, parte dal confronto con ciò che è stato tradizionalmente il partito politico, ed in particolare con il più grande esperimento di organizzazione partitica, cioè il partito di massa. Capillarmente presenti sul territorio e con una struttura organizzativa piramidale, i partiti di massa, tra gli anni cinquanta e sessanta, hanno contribuito alla costruzione e al consolidamento dei regimi democratici in Occidente, ponendo le basi necessarie per lo sviluppo dello stato sociale. Soprattutto per quei partiti che si sono affermati in corrispondenza del cleavage capitale-lavoro, questi elementi sono di assoluta evidenza.

Il passaggio dal fordismo al postfordismo ha radicalmente trasformato il modello organizzativo dei partiti politici. Da almeno trent’anni, è in atto un processo di trasformazione radicale dei partiti politici, qualunque ne sia la collocazione sull’asse destra-sinistra, sia sul piano dell’organizzazione che su quello programmatico. Oggi i partiti non esprimono più quella carica partecipativa capace di coinvolgere ed interpretare le rivendicazioni degli elettori. Allo sesso tempo, la “compenetrazione nello Stato”, e il graduale distacco dalla società civile (secondo il modello del cartel party di Katz e Mair) provoca, di fatto, un appiattimento sulle politiche governative, senza più alcuna “alternatività” in termini di programma e di progetto politico. Personalizzazione e leaderismo sono i tratti ormai evidenti di un modello organizzativo che hanno prodotto scarsi risultati sul piano della compatezza interna dei partiti.

A sinistra, la trasformazione dei partiti ha posto dei problemi di assoluta rilevanza. Il rapporto con l’elettorato, il ruolo dei militanti, la funzione della classe dirigente e, in generale, del partito (con la P maiuscola) sono questioni aperte che inevitabilmente devono fare i conti con un processo di cambiamento che investe le società contemporanee. L’esaurimento del paradigma fordista, lo sviluppo delle nuove tecnologie e delle forme di comunicazione, hanno messo in evidenza la fragilità dei partiti. Per come li abbiamo conosciuti, i partiti, oggi, non riescono più a porsi come i soggetti protagonisti nel panorama politico. Ciò non vuol dire che abbiano esaurito la loro funzione. Anzi. Vuol dire che debbono essere capaci di ripensare sé stessi in una forma nuova, adatta al cambiamento che stiamo vivendo.
Interrogarsi, dunque, sui nuovi possibili modelli organizzativi dei partiti è certamente un esercizio utile a comprendere le dinamiche del cambiamento che stiamo attraversando. Sarebbe utile, però, non lasciarsi trascinare dalle nostalgie di un passato che, a mio modo di vedere, è irriproducibile. Pensare di ridare forma ai partiti, oggi, secondo lo schema classico dei partiti di massa significherebbe non comprendere pienamente la sfida politica che abbiamo di fronte.
Per intenderci, ritengo che le forme di partecipazione alla politica siano profondamente cambiate. Credo, cioè, che la gente diserti le sezioni e i circoli territoriali dei partiti non perché sia disinteressata alla politica tout court (la manifestazione fuori Montecitorio, al di là del merito, dopo l’elezione di Napolitano indicherebbe tutt’altro) ; ma perché la gente vede nei meccanismi di discussione della politica processi troppo lunghi e farraginosi che ostacolano il cambiamento e il confronto tra le parti in gioco. Si consideri, poi, la diffusione su larga scala dell’utilizzo dei social networks (twitter in testa) che, come riportano molti giornali e alcuni osservatori in questi giorni, pare abbiano fatto la differenza nella scelta del candidato alla Presidenza della Repubblica da parte dei parlamentari del Pd. L’impressione è che ai cittadini basti un account per sentirsi protagonisti di una battaglia politica, per sentirsi parte di un processo di cambiamento. La questione, però, è un’altra e più complessa. I partiti, per come li abbiamo conosciuti, per la loro organizzazione “pesante” e burocratica non riescono più a interpretare la velocità dei nostri tempi. L’immagine è quella di una realtà, quella di tutti i giorni, che, complice la rivoluzione di internet cui stiamo assistendo, corre a cento all’ora contro le burocrazie di partito ferme ancora ai box.

Banalmente, servirebbe un modello organizzativo ibrido, che coniughi la massa con la liquidità. Un partito, cioè, ben organizzato e strutturato, ma che si concentri su singole issues, mescolando e ritrovando nuove identità politiche, coinvolgendo e collaborando costantemente con i movimenti sociali che lavorano sui temi come l’acqua pubblica, energie rinnovabili, ambiente, diritti civili, diritti umani ecc…
Penso che i cittadini siano molto interessati a partecipare e lasciarsi coinvolgere, in maniera più o meno attiva, in questo tipo di movimenti-partiti. E ciò per almeno per due motivi. Prima di tutto, l’identità del movimento-partito è chiara e specifica; in secondo luogo, l’obiettivo risulta altrettanto chiaro, cioè concentrarsi e lavorare su questioni specifiche senza disperdere inutili energie in burocrazie di partito. Forse, il recente successo elettorale del M5S è dato anche dal fatto che il non-partito di Grillo è nato insieme al programma (certamente vago): le 5 stelle contenute nel simbolo, infatti, come ricorda la recente analisi condotta da Corbetta e Gualmini per i tipi del Mulino, indicano gli obiettivi programmatici del Movimento: acqua, ambiente, energia, trasporti, sviluppo.

Con disinteresse e scarsa attenzione abbiamo guardato ai referendum del giugno 2011 su acqua pubblica ed energia nucleare. E’ la tesi del recente lavoro di Marco Revelli secondo il quale ben 27 milioni di cittadini “erano usciti di casa e si erano messi in marcia verso i seggi per affermare la propria volontà di difendere un bene comune come l’acqua e di rifiutare un male universale come il nucleare”. Si è trattato, invece, di un grande esperimento di partecipazione politica, slegata dai partiti presenti sulla scena politica e parlamentare (anzi, talvolta, questi ultimi hanno anche cercato di ostacolare la battaglia referendaria) . Quei referendum hanno dimostrato che i cittadini sono interessati alla vita pubblica del Paese e hanno tanta voglia di impegnarsi nelle cause che ritengono più giuste (con o senza social networks) . Il comitato per l’acqua pubblica, il soggetto promotore del referendum del giugno 2011, è, tra l’altro, tutt’ora attivo e sostiene, soprattutto al livello locale, le iniziative in sostegno alla pubblicizzazione dell’acqua, coinvolgendo già tanti cittadini e associazioni.

I partiti, soprattutto a sinistra, dove la ricerca dell’”identità perduta” è un tema forte e sentito, potrebbero trarre qualche insegnamento da quel flusso di partecipazione democratica. Il Pd, perché no, potrebbe, ad esempio, immaginare di ripensare il proprio modello di organizzazione provando a rimescolarsi nella società civile, coinvolgendo nel dibattito politico necessario alla la sua “ristrutturazione” le decine di associazioni e comitati civici che già da tempo lavorano e operano nel campo dell’ ambiente, dei diritti civili, delle nuove tecnologie, di un nuovo modello di sviluppo.