Taranto può essere la nuova Manchester

Lo stabilimento Ilva visto dai tetti del quartiere Tamburi, 19 settembre 2013. ANSA / CIRO FUSCO

Ecco come fare

Vista con gli occhiali del lavoro la decrescita è serena per pochi e la recessione feroce per molti. Serve la mobilitazione dei soggetti locali per far funzionare il capitalismo del limite che è la green economy

È uno strano destino quello che a volte tocca a una città e a un territorio: diventare fantasmagorico luogo di una crisi ove precipitano i fantasmi di ciò che “non è più” con le allegorie di ciò che “non è ancora”.

È il caso di Taranto con l’Ilva, che purtroppo è tutt’altro che un fantasma con il suo impatto drammatico locale e nazionale. Essendo lì saltato il sincretismo tra la produzione di acciaio e il lavoro e la salute di chi lì lavora e del territorio.

Ma, come ho discusso spesso con Alessandro Laterza, responsabile di Confindustria Mezzogiorno, sull’asse Taranto-Melfi-Pomigliano aleggia il fantasma di ciò che resta della nostra grande impresa e del fordismo che, come a volte avviene nella storia industriale di un paese, non ha più il suo vulcano a Torino ma nel mezzogiorno. Che è attraversato dall’allegoria dello sviluppo compatibile e della green economy che per qualcuno è proprio pura allegoria quando si sogna un mezzogiorno verde di ulivi e di puro turismo destinato ad una decrescita serena. Che, vista da Taranto sarà poco serena, avendo tutti chiaro che agricoltura e turismo, e ci aggiungo pure la smart city, da soli come vasi comunicanti non risolveranno la crisi del lavoro. Ad oggi, vista con gli occhiali del lavoro, la decrescita è serena per pochi e recessione feroce per molti. In mezzo a questa forbice, tra ciò che resta del fordismo e ciò che verrà di green ho partecipato ai lavori dell’assemblea aperta di Confindustria Taranto con il governatore Vendola, il ministro Trigilia e il presidente Squinzi. Aperta dal presidente Vincenzo Cesareo che non si è sottratto al mettersi in mezzo ragionando di impresa di sviluppo possibile e di green economy. Ipotizzando una capacità di Taranto di progettare una smart area che tenga assieme una Ilva risanata attraverso l’Aia, una città che torna ad essere tale con il porto, il grande museo della Magna Grecia… e un nuovo patto tra città contado e costa, laddove si fa agricoltura di qualità e turismo. Una eterotopia possibile, tracce di speranza di cui abbiamo discusso. Che sarà possibile se si avrà chiaro che green economy significa prima di ogni altra allegoria un capitalismo che incorpori il concetto del limite, non certamente un capitalismo come è stato quello dei Riva.

Gli associati di Confindustria Taranto ne avevano lì, e lo hanno ascoltato, un esempio possibile. Essendo che la Mapei è un’industria chimica che fa nuovi materiali proprio per la green economy del costruire.

Il primo limite da incorporare nella green economy delle imprese è la salute di chi ci lavora e del territorio. Il territorio, appunto. Che deve avere una coscienza di luogo non percependosi come un puro luogo di atterraggio delle imprese o dei flussi dei fondi strutturali necessari per far decollare la smart area. Altrimenti diventa uno spazio dello “sviluppo senza autonomia” come ha ricordato il ministro Trigilia invitando alla mobilitazione dei soggetti locali senza la cui progettualità e iniziativa non sarà possibile fare a Taranto quello che si è fatto a Manchester o, scomodando il sociologo Richard Florida, a Pittsburgh passata dall’acciaio alla creatività.

Molto dipenderà non solo da Taranto ma dal protagonismo dei tanti sindaci dei comuni che la circondano: da Grottaglie a Martina Franca a Manduria da dove l’Italsider attrasse e mise al lavoro i metalmezzadri, la figura ibrida descritta da Giorgio Fua che si fecero metalmeccanici rimanendo in parte contadini. E dalla politica regionale da dove passano i fondi strutturali, le uniche scarse risorse disponibili nella crisi. Questi non bastano senza una visione che tenga assieme ciò che resta del fordismo, della coscienza di classe dell’ impresa e del lavoro e della classe operaia. Ciò che resta dell’indotto e del capitalismo molecolare comprese le 54 imprese artigiane che fanno il distretto della ceramica a Grottaglie a fianco dello stabilimento Alenia ove si fabbricano componenti dei Boeing. Con le 100 masserie della green road che possono fare corona a Taranto.

Fare sintesi di questo magma territoriale significa fare green economy. Che necessita per fare progetti sia dei saperi contestuali diffusi nell’agricoltura, nelle ceramiche, nel lavoro operaio di qualità, sia dei saperi formali delle università pugliesi e di una discontinuità delle forze sociali chiamate ad una nuova rappresentanza degli interessi. Questo in sintesi il nostro dibattito al Forum di Confindustria Taranto. Che rimarrà tale senza una coscienza di luogo ed un racconto di autoriflessione nel microcosmo Taranto. Che forse è iniziato.

Mi congedo da Taranto invitando alla lettura di due libri: “Fumo sulla città” di Alessandro Leogrande e “Manuale Green Road” a cura di Antonio Prota e Carla Sannicola. Nel primo, Leogrande ripartendo dall’inchiesta sul Corriere della Sera del 15 ottobre 1979 di Walter Tobagi sui metalmezzadri dell’Italsider racconta la città operaia dalla fase storica dell’aziendalismo sregolato sino all’oggi, frutto di una «complessa vicenda storica, politica, sociale, industriale, sindacale, economica, ecologica e non solo giudiziaria». Il manuale racconta la green road di un territorio che ha FAME (Food Art Movie Energy). Spero che partendo dall’intreccio tra questi due racconti sarà possibile avere una fame di futuro che riesca a diradare il fumo sulla città.

Tratto da “Microcosmi”, Il sole 24 Ore, 4 agosto 2013