Governi che non governano

La recessione ai tempi di Verdi

Per chi sa appena un po’ della storia patria, l’interrogativo che non trova risposta è perché ci siano delle costanti che condizionano il nostro paese di cui ancora non siamo venuti a capo. Marta Boneschi ci riporta agli anni di Verdi, quasi un secolo e mezzo fa. Il 1867 è un anno di grave crisi economica. Un’economia in recessione, il reddito che si riduce, la disoccupazione giovanile che aumenta, e un governo, quello della Destra storica, che poco e nulla fa per dare sollievo alla popolazione.

Torniamo indietro nel tempo, fino ad arrivare a metà giugno di centoquarantasei anni fa. Con la sua grafia frettolosa, il 16 giugno 1867 Giuseppe Verdi scrive all’amico Opprandino Arrivabene, giornalista, e perciò vicino al mondo politico: «Cosa faranno i nostri uomini di Stato? Coglionerie sopra coglionerie! Ci vuole altro che mettere delle imposte sul sale e sul macinato per rendere ancora più misera la condizione dei poveri. Quando i contadini non potranno più lavorare ed i padroni dei fondi non potranno, per troppe imposte, far lavorare, allora moriremo tutti di fame. Cosa singolare! Quando l’Italia era divisa in tanti piccoli Stati, le finanze di noi tutti erano fiorenti! Ora che tutti siamo uniti, siamo rovinati. Ma dove sono le ricchezze d’una volta?».
In quei giorni è davvero preoccupato. In quanto proprietario di terre, e datore di lavoro di contadini, si sente disorientato; in quanto cittadino e patriota, è deluso. Il 18 giugno 1867 infatti si sfoga di nuovo con Giuseppe Piroli, un altro amico di antica data, nativo anche lui di Busseto, giurista e parlamentare: «Ah perché siete deputato e consigliere di Stato, ed uno dei grandi cucinieri che fanno bollire la gran pentola ove vi sono ben brutti intingoli Voi non rispondete più alle lettere che gli amici vi scrivono! A proposito di cucina come vanno le faccende? E cosa pensate fare? Se le cose continuano così qualche tempo ancora noi morremo tutti di fame. Io non ho mai potuto capire come i nostri Uomini di Stato cercano di annientare le poche richezze che naturalmente abbiamo. E certo che se voi togliete le forze alle braccia dei lavoranti, e le scorte a quelli che devono far lavorare il terreno che produceva per esempio l’anno passato dieci, ora produrrà otto, domani sei, finché non produrrà più nulla. E ditemi un po’: cosa vuol dire che quando l’Italia era divisa in tanti piccoli Stati, tutti quasi avevano le Finanze in ottimo stato; ed ora che siamo uniti siamo rovinati. Ma tutte le ricchezze di una volta se l’è mangiate il Diavolo? Voi mi risponderete: l’armata e la marina … E mandateli a casa tutti. Cosa ne faremo? Chi si batterà con noi? Eppoi? Quando si hanno risultati come quelli di Custoza e Lissa è meglio non aver nulla. Vi giuro che tutto ciò mi rattrista e m’annienta».
Artista, sì, con la testa alla musica, ma anche uomo di acuta e pronta intelligenza, Verdi elenca prima di tutto i problemi: il fisco soffoca, i poveri diventano più poveri, l’iniziativa paralizzata; poi passa al quesito: si stava meglio quando si stava peggio? Pochi giorni dopo, scrivendo a Piroli, precisa: «Mi sono mal spiegato quando nell’ultima mia feci il paragone fra i vecchi Stati ed il nuovo. Volevo semplicemente dire che i prodotti sono minori ora d’una volta. So bene che le spese adesso sono e devono essere infinitamente maggiori, ma il Governo non ha saputo né sa utilizzare le ricchezze naturali del paese».
Le preoccupazioni di Verdi sono giustificate: da proprietario, prevede che la stretta fiscale impoverirà non soltanto lui, ma i suoi contadini e l’agricoltura del paese; da patriota, teme che l’unità italiana abbia troppi risvolti negativi; da uomo di successo, sa che il lavoro ben fatto è alla base di ogni impresa riuscita e osserva con buon senso che, se manca il lavoro, “moriremo tutti di fame”.
Undici anni dopo, quando l’unità nazionale si è consolidata, Roma è capitale, l’industria è avviata al nord e il governo è in mano alla sinistra, Verdi è di nuovo preoccupato e, da buon italiano, il 12 marzo 1878, chiede lumi a Piroli; «Come vi dissi, la miseria è molta; è cosa grave e può diventare gravissima, compromettendo anche la sicurezza pubblica. Si tratta di fame!!! Nelle grandi città anche nelle più ricche come Genova, Milano et: il commercio è diminuito d’assai; i fallimenti frequentisimi, e quindi mancanza di lavoro. Nelle piccole nostre città come Parma, Piacenza, Cremona, il proprietario non ha denari, e se ne ha qualche poco lo tiene ben stretto in tasca perché ha paura dell’avvenire; e così troppo aggravato di contribuzioni fà i lavori i più grossi, ed i più strettamente necessari, non dà lavoro ai giornalieri, il fondo peggiora, ed intanto la ricchezza pubblica decresce. Se voi vedeste, mio caro Piroli, da noi quanti poveri, e fra questi quanti giovani robusti, che domandano lavoro, e non trovandolo domandano la carità di un tozzo di pane! E ciò dovrebbe pure essere noto al Governo, perché, per non citarvi che i dintorni, a Zibello, a Soragna, Busseto et. et. i Prefetti hanno mandato rinforzi di carabinieri a cavallo, di Bersaglieri et. per prevenire qualche dimostrazione. Così la povera gente dice “Noi domandiamo lavoro, e pane … Essi ci mandano soldati, e manette …”. Così è. Io non vi parlerò di industria, di alto commercio, ma essendo contadino, vi parlerò soltanto d’agricoltura. E’ certo che la terra da Noi non produce quello che dovrebbe: ed è certo che al Proprietario mancano i mezzi per farla produrre … Questo è chiaro come il Sole … […] Quante chiacchiere, e purtroppo inutili …».
Le ansie di Verdi sembrano le nostre. A saper leggere il pezzo di storia raccontato dal grande musicista nelle sue lettere agli amici, siamo in condizione di riflettere sulle costanti della storia italiana: i bilanci dello Stato precari, disinvoltura nell’uso dello strumento fiscale, indifferenza al valore del lavoro, frustrazione dei proprietari dinamici. E siamo in grado di ragionare sulle differenze tra il diciannovesimo e il ventunesimo secolo: bene o male, al tempo delle lettere verdiane, l’Italia costruiva ferrovie, strade e porti, attirava capitali all’interno e dall’estero, riformava le scuole, guardava al futuro; al tempo nostro no, di grandi progetti non si discute neppure, così come pochi afferrano che, come l’Italia unita dell’Ottocento, anche l’Europa unita del Duemila ha un costo e promette benefici. La conoscenza della storia potrebbe insegnare come contenere i costi e massimizzare i benefici. Ma chi studia la storia nel 2013? Dà forse da vivere lo studio della storia?
Grazie alle lettere verdiane, spontanee e non profonde, sentite più che meditate, cerchiamo di domandarci come mai nella storia dell’Italia unita ha per lo più spadroneggiato un ceto politico afflitto dalla noncuranza (se non vogliamo chiamarla ignoranza) e dal disprezzo della libertà, che è prima di tutto libertà dal bisogno e dall’emergenza; ardito più nell’opprimere chi non ha il potere che non nell’immaginare il bene comune.
I giovani robusti del tempo di Verdi, resi inerti dalla mancanza di investimenti, dall’assenza di futuro, finivano a chiedere la carità e, prima di morire di fame, inscenavano manifestazioni anche violente. I giovani intelligenti e istruiti del tempo nostro, resi inerti alla stessa maniera, non muoiono di fame (non ancora), ma lasciano languire l’intelligenza o s’ingegnano a trovare la raccomandazione giusta. Ma nei due casi, è l’intera comunità a perdere le buone occasioni che riserva il futuro. Potremmo ripetere con Verdi che né ieri né adesso «il Governo non ha saputo né sa utilizzare le ricchezze naturali del paese». E se «il Governo» non è messo alle strette dai tanti cittadini che condividono le ansie di Verdi, continuerà a non «utilizzare le ricchezze naturali del paese».