Elezioni inutili?

Un’offerta politica bloccata

di Lapo Berti –

Che le prossime elezioni saranno pleonastiche, cominciano a pensarlo in molti. L’offerta politica ha subito qualche ritocco, qualche smottamento del quadro politico lo si è avvertito, ma niente che faccia pensare a quel cambiamento radicale che in molti si aspettano e che, soprattutto, è richiesto dalla drammatica situazione in ci si trova il nostro paese. Ci ritroveremo di fronte soluzioni politiche deboli e confuse, incapaci di assumere decisioni coraggiose sui temi che contano. Assisteremo ai consueti, defatiganti tira e molla, fino a che, inevitabilmente, si porrà il problema di tornare alle elezioni. Un paio d’anni in tutto. E questo è il tempo breve, brevissimo, entro cui è necessario por mano a una nuova formazione politica che ambisca a mettere insieme tutte le forze autenticamente e decisamente riformiste, senza pasticci e senza compromessi. È l’ultima chiamata.

Vecchi recinti
Il nodo politico della crisi italiana è tanto facile da dire quanto difficile, se non impossibile, da sciogliere. L’offerta politica è ancora largamente dominata e condizionata dalle forze politiche che, a vario titolo, sono responsabili delle scelte che, da un lato, hanno mantenuto l’Italia vincolata a un modello economico e a dinamiche sociali e politiche di un passato esaurito da tempo e, dall’altro, hanno impedito che emergessero con chiarezza soluzioni economiche e politiche alternative. Pur d’impedire questa evoluzione, pur di fare in modo che i perimetri politici entro cui raccogliere le mandrie politiche marchiate da ideologie morte e sepolte rimanessero gli stessi, si sono consumate le aggregazioni più improbabili, devastando interi giardini botanici: ulivi, margherite, garofani, rose.
L’operazione è fin qui riuscita. I partiti sono sopravvissuti a se stessi, seppur passando per scomposizioni e ricomposizioni varie, opere di restyling, cosmesi di ogni tipo. Ma, soprattuito, si sono mantenuti saldamente al potere i membri di quel ceto politico che, estraniatosi a poco a poco dagli interessi del paese, ha finito per occuparsi solo di se stesso. A pagare è stato il paese nel suo insieme e in particolare i ceti medi e popolari, di cui è stata accecata la prospettiva sul futuro e ai quali è stata sottratta la possibilità di scegliere soluzioni alternative, di esprimere la loro volontà di cambiamento.
Il risultato di questo immobilismo così ferocemente e tenacemente perseguito dalla classe dirigente è un panorama politico da cui è del tutto scomparsa la capacità di individuare ed elaborare prospettive future che offrano una risposta ai problemi del presente. Basta guardare agli spezzoni di programma che i partiti, anche quelli che si vorrebbero più innovativi, esibiscono in questa penosa campagna elettorale dalla quale è assente qualunque riferimento ai problemi veri che stanno all’origine del declino italiano e che da decenni aspettano una risposta. Sembra la ripetizione stanca e anche poco convinta di un panorama da anni settanta, con tutti, a parte qualche gruppo di intellettuali, che si rifugiano nell’invocazione di un nuovo massiccio intervento dello stato, come se i disastri segnalati dall’abnorme livello del debito pubblico non stessero lì a ricordarci l’incapacità dello stato, del governo, di questo stato e dei governi che lo hanno incarnato negli ultimi decenni, di operare nell’interesse della maggioranza dei cittadini e, soprattutto, senza devastarne le risorse o, peggio, senza appropriarsene illecitamente.

La società civile che non c’è
Di fronte al quadro devastato e devastante della scena politica, c’è solo il richiamo vuoto e stucchevole a una società civile dalla quale dovrebbe venire il riscatto, attraverso le forze sane di cui essa sarebbe composta e che sarebbero frenate solo da una politica miope e irresponsabile. Forse dovremmo cominciare a liberarci anche di queste cartoline di comodo che descrivono una società che non c’è è non c’è mai stata, come più volte abbiamo cercato di dire su questo sito, da ultimo riportando un sorprendente articolo di Francesco De Sanctis del 1877.
La nostra è una società molto variegata e frammentata, in cui prevale l’apatia, la visione angusta e accidiosa del familismo amorale, la cultura dei furbi legittimata dall’esibizione della ricchezza comunque conseguita, il gusto della lamentela in attesa che dall’alto piova qualcosa, l’inclinazione ad attendere che siano gli altri a farsi carico dei problemi e, magari, quell’altro impersonale che è lo stato. È una società in cui, come si vede ancora in questi giorni, l’anomalia berlusconiana appare a molti come una prospettiva invece che come un abbaglio, per non dire peggio.

Le forze per voltare pagina
In questa società, tuttavia, trovano spazio anche una miriade di iniziative sociali, culturali, politiche in senso lato, che aspirano a un mondo diverso, cercano di prefigurarlo, di metterlo in atto, facendo lucidamente e coraggiosamente i conti con le sfide del presente, senza fuggire di fronte ai problemi che ci vengono da un mondo globalizzato che, com’è sempre stato, aspetta solo che noi sappiamo trasformarlo in cultura condivisa per elargirci i frutti di una più estesa e matura umanità. E’ l’immenso bacino del volontariato e del terzo settore, in cui si sta formando una nuova classe dirigente e dove si sperimentano modelli sociali ed economici alternativi. Sono i giovani che tenacemente s’impegnano nell’amministrazione dei loro territori; sono i giovani e meno giovani che profondono energie nel mondo delle professioni intellettuali, cercando forme di lavoro e di socialità nuove. Sono i giovani che cercano all’estero quello che non trovano in patria e spesso ci riescono brillantemente.
Anche l’economia è ricca di energie positive, di imprese piccole e grandi che innovano, che si misurano con le sfide della globalizzazione, che non aspettano protezione ma esigono supporto. Sono le migliaia di imprese, almeno 5000, che anche nel pieno della crisi riescono a reggere e a farsi spazio sui mercati internazionali.
È difficile dire quanta parte della società rappresentino queste forze. Forse non sono la maggioranza, ma certo una parte importante, quella più dinamica, che, anche inconsapevolmente, si fa carico dell’apatia, della mancanza d’iniziativa, della passività, dell’altra parte, e mantiene il paese in movimento.
Quello che è certo è che questa parte della nostra società non è esplicitamente e unitariamente rappresentata nel quadro incrostato della politica italiana. È costretta a disperdersi nei diversi e inospitali recinti offerti da partiti che non si sforzano più d’interpretare la società, ma si accontentano di mettere insieme gruppi d’interesse o, al più, di offrire asilo ai nostalgici di culture politiche del passato, divenute inutili, vuote. Non esiste, non riesce a nascere una forza politica che sia l’espressione diretta e consapevole di questa parte dell’Italia che vorrebbe un paese moderno, impegnato a fronteggiare le sfide della globalizzazione, capace di rinnovare i termini della coesione sociale guardando alla società per come è e non per come sopravvive in narrazioni logore quanto inefficaci: un paese in cui la democrazia non sia una vuota parola e non si arresti davanti ai cancelli delle imprese e alle porte degli uffici.

Ultima chiamata
Dunque, tra meno di un mese, andremo a votare per eleggere un parlamento in cui fin da ora sappiamo che le aspirazioni, le esigenze, i valori, di questa parte dell’Italia non troveranno spazio né rappresentanza, se non per quel tanto che può servire ai calcoli miopi ed egoistici di qualche partito in cerca di nuova linfa. Sappiamo fin da ora che per quelle persone che, da sole e insieme con altre, ogni giorno lottano per far esistere un’Italia diversa e migliore, queste elezioni non avranno nulla da dire. Come non avranno nulla da dire su ciò che servirebbe per far uscire il paese dal pantano in cui è finito, per responsabilità di chi lo rappresenta e si assume l’onere di governare, ma anche di tutti coloro che si sono consegnati all’apatia e all’attesa dell'”uomo della divina provvidenza” che dovrebbe risolvere tutti i problemi. Saranno elezioni inutili, perché non produrranno le soluzioni di cui il paese ha bisogno. Nessuna delle posizioni di potere che portano la responsabilità del declino economico e dello stallo politico verrà intaccata. Sulle grandi scelte si riprodurrà il meccanismo dei veti incrociati. Dopo qualche scaramuccia e qualche tentativo di improbabili compromessi si tornerà al voto, a meno che, come pure è possibile, già il risultato frammentario e contraddittorio del voto non impedisca addirittura la formazione di un qualsivoglia governo.
Non c’è bisogno di essere raffinati analisti politici per immaginare che è questo oggi lo scenario più probabile, perché è quello su cui convergono i movimenti inerziali che hanno trascinato l’Italia fin qui. Ci sono stati, è vero, negli ultimi mesi, moti d’insofferenza, tentativi di reazione, spinte in direzione di una rottura degli steccati politici obsoleti, di un ricambio massiccio del ceto politico. Per un breve lasso di tempo, Renzi da una parte e Monti dall’altra hanno fatto sperare che l’innovazione politica potesse offrire nuovi protagonisti, avviare un rinnovamento della rappresentanza. Ma anche queste spinte sono state bloccate, dirottate, smembrate, dalla potente macchina della conservazione, dei poteri costituiti. Il futuro rimane dunque incerto, ingombrato da un passato che non passa.
In ogni caso, occorre prepararsi a un’altra tornata elettorale a distanza ravvicinata. È la campanella dell’ultimo giro. Nessuno è in grado di prevedere, oggi, che cosa potrebbe accadere se anche quest’occasione venisse sprecata. Forse ci avvieremmo verso quella catastrofe che già su questo sito abbiamo adombrato come possibile esito, non del tutto negativo, di una situazione in cui la governance del paese, sia a livello politico che economico, si trova irrimediabilmente incartata, nell’impossibilità di prendere decisioni produttive di futuro.
Per cogliere l’ultima chance di un rinnovamento della governance capace di disincagliare il paese dalle secche del declino ci sono da fare poche cose, che tutti sappiamo necessarie, ma che non è agevole tradurre in pratica, perché cozzano contro l’apatia e la resistenza di una parte rilevante del paese. Non si tratta solo di misure che devono essere trasformate in norme, ma di azioni rivolte a cambiare l’Italia con il coinvolgimento del maggior numero di persone. Occorre, dunque, uno sforzo da parte di tutte le forze economiche, sociali, culturali, per mettersi insieme sulla base di un programma basato su pochi ma decisivi punti, che si tratterà di realizzare con orizzonti temporali differenziati.
Con un’importante, decisiva, premessa. Nelle economie miste, come oggi sono tutte, il funzionamento della macchina economica è il prodotto dell’interazione, regolata da norme, fra tre grandi categorie di soggetti: le amministrazioni pubbliche, i cittadini, le imprese. Le politiche pubbliche intervengono di volta in volta a modificare opportunamente i modi di questa interazione in vista di un fine condiviso. Ciò che rende peculiare la situazione italiana è che in essa questa triade risulta azzoppata per il fatto che l’operatore pubblico non è affidabile, per una storia di sprechi, di inefficienze, di corruzione, lunga almeno un secolo. Fino a quando la sfera dell’azione pubblica in campo economico non sarà risanata, con un ricambio significativo della dirigenza e delle regole di funzionamento, la macchina economica non potrà e non dovrà contare sull’apporto dello stato e del governo. Ne conseguirà anche una bonifica del settore privato, da troppo tempo inquinato da rapporti collusivi e clientelari con il mondo politico. Questo rende più difficile il compito, ma non cambia la sostanza delle cose che vanno fatte e su cui nessun autentico e sincero riformatore dovrebbe nutrire dubbi:

  • lotta senza quartiere all’illegalità e alla corruzione, adeguando le leggi e le pene per tenere conto della gravità della minaccia sociale che oggi rappresentano;
  • eliminazione di tutte le posizioni di privilegio e delle normative che le sostengono;
  • drastico abbattimento delle disuguaglianze di reddito e di ricchezza con l’apposizione di limiti alle retribuzioni e la reintroduzione di una significativa imposizione sui patrimoni ereditati;
  • liberalizzazione piena delle attività economiche accompagnata da una sostanziale revisione dei meccanismi e degli organismi di controllo e supervisione dei mercati;
  • riforma radicale della pubblica amministrazione, con l’eliminazione di tutti i posti di lavoro inutili, l’abolizione dei privilegi e la responsabilizzazione dei dirigenti;
  • programma di investimenti finalizzati nella ricerca scientifica;
  • promozione degli investimenti nella green economy nell’ambito di un’adeguata politica di sostegno alle economie locali;
  • riqualificazione del sistema dell’Istruzione pubblica, basata sulla valorizzazione del merito e la tutela dei soggetti deboli.

Non è tutto, ovviamente, e non tutte queste cose potranno essere attuate contemporaneamente e con lo stesso tasso di riuscita. Soprattutto, non è un programma di governo. E’ solo l’elenco di alcune, fondamentali cose che è necessario fare per cambiare i connotati al paese e portarlo sulla via di uno sviluppo sostenibile. La cosa importante è riconoscere che queste sono le cose che si tratta di fare per avviare un cambiamento profondo del modello economico e sociale e che questa è la proposta che una forza politica nuova, che rappresenta la volontà di cambiamento diffusa nel paese, offre alla valutazione di tutti. E’ l’agenda di una forza politica nuova che non sarà in campo in questa tornata elettorale, ma che deve essere costituita in tempi brevi, per quando si tornerà a votare. Il momento è questo. Il presupposto di tutto, infatti, è l’avvio di un vasto ricambio della classe dirigente, di quella politica in primo luogo, che è la depositaria e la custode di tutti gli intrecci collusivi che tengono bloccate le forze del cambiamento.