La democrazia ci rende felici?

di Lapo Berti

La democrazia rende felici? Gustavo Zagrebelsky ed Ezio Mauro* sembrano crederlo, anche se il loro dialogo è, in gran parte, una preoccupata illustrazione di tutti i mali che affliggono le nostre democrazie e delle insidie che ne minacciano la sopravvivenza.

La scommessa democratica

Sullo sfondo resta, tuttavia, per quanto disattesa, la grande promessa che l’affermazione della democrazia ha consegnato ai cittadini. Essa ha spostando su questa terra il mondo della felicità possibile e ha reso gli uomini liberi di perseguire i loro progetti e di mettere in pratica la loro idea del bene individuale e collettivo. E “proprio qui sta la possibilità vera della felicità: nella condizione di libertà personale e civile che nasce dalla democrazia, nella consapevolezza che tutti – non io soltanto – esercitano quella libertà e ne riconoscono il limite”.
E’ una scommessa che ancora non è stata vinta, ma non ce n’è un’altra che abbia come premio la convivenza e il benessere di tutti.
Per quanto inusitata possa apparire quest’affermazione, felicità individuale e democrazia vanno di pari passo, perché è solo se ci rende felici che, in definitiva, siamo disposti a riconoscere il patto democratico che unisce le nostre società. E’ solo la prospettiva della felicità terrena che ci induce ad accettare la convivenza pacifica in una società di uguali, rinunciando alla legge del più forte. Ma, a sua volta, è solo con la democrazia che la ricerca della felicità individuale può dispiegarsi liberamente, perché solo la democrazia pone le basi per armonizzarla con la felicità di tutti, sottraendola a tutte le pulsioni prevaricanti e distruttive, che pure fanno parte della natura umana, come ben sapeva Freud.
Non è un caso, dunque, che la qualità della nostra vita e la qualità della democrazia si siano venute degradando parallelamente. Il panorama sociale che abbiamo di fronte appare devastato dal degrado della vita democratica e questo, indubbiamente, influisce sulla qualità della nostra vita, specialmente negli aggregati urbani. Ma anche noi abbiamo una responsabilità, perché abbiamo lasciato che le nostre vite si degradassero senza investire nella democrazia, senza far valere i nostri diritti, senza far sentire la nostra voce. Ci siamo dimenticati che la democrazia non è una condizione che si conquista una volta per tutte, ma è un processo difficile che va ogni giorno riempito di contenuti con il contributo della maggior parte delle persone. Ci siamo dimenticati che la democrazia è, prima di tutto, cultura, consapevolezza di tutti.

L’Italia è una democrazia?

Un po’ sorprendentemente, manca, nelle dense pagine di questo saggio a due voci, quella che a me sembra la domanda fondamentale, da cui discendono tutte le altre, anche quelle che i due autori si pongono: il sistema politico che governa la vita delle nostre società, in particolare dell’Italia, può definirsi democratico? E ancora: in che misura lo è, cosa manca perché si possa parlare di una democrazia funzionante, se non proprio compiuta? Uno sguardo anche superficiale alla realtà italiana, al funzionamento delle sue istituzioni e al ruolo del ceto politico ci restituisce un’immagine che non si può certo definire “democratica”, nel senso che il sistema sociale sia, in ultima istanza, regolato dall’insieme delle persone che ne fanno parte. La democrazia imperfetta uscita dalla resistenza si è a poco a poco corrotta fino a perdere alcuni dei suoi connotati formali essenziali, come il fatto che i rappresentanti del popolo siano effettivamente eletti e siano concretamente responsabili nei confronti di chi li ha eletti. E’ stato così possibile che, sotto i nostri occhi, le funzioni di governo in cui dovrebbe trovare espressione la volontà collettiva diventassero terreno di caccia di delinquenti, di corrotti, di corruttori, di personaggi mediocri mossi solo dalla sete di potere e di ricchezza.
Dal punto di vista formale, l’Italia è indubbiamente una democrazia. Vi sono leggi che tutelano le libertà fondamentali, vi sono elezioni a tutti i livelli per eleggere gli organi rappresentativi e così via. Ma dal punto di vista sostanziale? Si ha veramente difficoltà a definire democratico un regime in cui il popolo sovrano non ha alcun oggetto su cui esercitare la sua sovranità, perché ben altri poteri, primi fra tutti quello economico e quello mediatico, per non parlare dei poteri occulti, lo hanno spogliato di qualsiasi capacità d’influenzare la realtà sociale. La democrazia è tornata a essere un problema di cui ci dobbiamo occupare, un obiettivo, uno stato, che non possiamo dare per scontato. Per troppo tempo, forse, ci siamo dimenticati che la democrazia vive della nostra partecipazione, dei nostri desideri, delle nostre lotte e che, senza tutto questo, inevitabilmente perisce e può essere agevolmente stravolta dal primo avventuriero.

La felicità della democrazia

La democrazia ha bisogno di noi, come noi della democrazia. La democrazia è, ci dicono Mauro e Zagrebelsky, condizione della felicità individuale e di quella collettiva, perché nel quadro di regole che si è data è “possibile cercarvi anche la felicità, attraverso la libera realizzazione di se stessi, modulata nella consapevolezza degli altri, dei loro diritti, e nella possibilità di costruire un progetto comune di riconoscimento, che chiamiamo società politica, istituzionale, di cittadini”. Ma qual è la felicità che si coniuga con la democrazia? Non certo quella che pure è al centro di certe narrazioni moderne, la felicità intesa come soddisfazione individuale che prescinde dalle regole e dal rispetto degli altri, la felicità che si esaurisce nell’inseguimento solipsistico del desiderio. E’ un’altra felicità quella che i due autori richiamano, una felicità antica, che il mondo moderno ha messo da parte e avvilito, la felicità della vita buona, che non è “il soddisfacimento illimitato di pulsioni individuali, ma la pratica della virtù”. Sembrano considerazioni lontane, quasi ingenue, ma è da qui che deve ricominciare anche la ricostruzione della democrazia. Solo se ci rendiamo che il vicolo cieco in cui ci stiamo cacciando è figlio di uno svuotamento dei fini in cui si è perso il senso della nostra vita. Per riconquistarlo dobbiamo ricominciare da noi stessi, dalla domanda fondamentale su ciò che fa la nostra felicità. La ricerca della felicità, di quella felicità che si coniuga con l’esercizio della virtù, deve tornare al centro dell’attenzione, perché solo con essa si può tornare a riconoscere il senso della democrazia e della politica. E solo se torniamo a interrogarci sulla nostra felicità, sulle condizioni che la rendono possibile, possiamo ritrovare il gusto della democrazia.
(*) Ezio Mauro e Gustavo Zagrebelsky, La felicità della democrazia. Un dialogo, Laterza, Bari 2011.