Quell’eterna adolescenza forzata dei precari

di Rossella Aprea

Lo sfruttamento della motivazione da parte dei datori di lavoro crea un paradosso, che i lavori più belli e gratificanti sono quelli che vengono retribuiti di meno, in cui ci sono i contratti più capestro, quelli più assurdi, e dove le aziende non mostrano alcun interesse a investire tempo e denaro per formare e mantenere i precari. L’individualismo delle giovani generazioni e il disinteresse nei confronti del problema da parte di quelle successive hanno determinato una situazione di immobilismo sociale e di impoverimento economico drammatici, spingendo i giovani a vivere in una condizione di eterna adolescenza senza sguardo verso il futuro e verso il passato, ma appiattiti in un immutabile presente.

F.C. è una giovane redattrice editoriale di 29 anni, lavora a Milano ma vive ad oltre 150 km di distanza, ha scelto di fare la pendolare per il suo equilibrio personale e la sua serenità, con tutte le conseguenze che questo implica, dopo anni di estraneità vissuti in un’altra città.

Conosco F.C. tramite Rerepre, la Rete Redattori Precari. A loro mi rivolgo per cercare collaborazione, per raccontare altre storie di precarietà. Accettano di aiutarmi e il mio messaggio viene fatto girare nella loro lista. Nessuno risponde per giorni, poi una sera aprendo la posta elettronica compare una mail gentile di una ragazza, disponibile a farsi intervistare. Un miracolo. Credevo che i precari ormai fossero diventati tutti diffidenti e individualisti. Al buio, senza conoscermi F.C. accetta di raccontare la sua storia. Scoprirò solo dopo che la sua disponibilità affonda le radici in una forte sensibilità personale e un’attiva partecipazione al problema, che l’ha spinta a tener vivo su Internet un blog sui precari. La lontananza non è un ostacolo, sfruttiamo le potenzialità di Internet e ci conosciamo poche sere dopo su Skype. E’ un incontro strano, singolare tra due sconosciute che vivono in due città diverse – Nord e Centro – e si vedono su uno schermo, ma che sono animate tutt’è due da una profonda voglia di dare il proprio contributo alla realtà in cui vivono, sorrette da una forte motivazione che è allo stesso tempo etica e sociale. Lo stato in cui la vedo è quello in cui spesso lavora “a casa a ciabattare”, scherza.

Le interviste riescono meglio quando si sviluppa un’empatia, tra noi nasce subito. Non metto mai fretta al mio interlocutore, lo ascolterei per ore, anche perché racchiudere una vita, seppur giovane, in pochi minuti è impossibile e io nelle loro vite voglio entrarci non per invadenza o per banale curiosità, ma perché le loro storie devono attraversarmi per arrivare agli altri. L’ascolto a lungo, appare ai miei occhi di sconosciuta, una ragazza molto sensibile, piena di garbo, ma dotata di una notevole forza di carattere e determinazione ben mimetizzata sotto quell’aria così delicata e timida. S’indigna e vuole provare a raccontare la realtà che lei vive in prima persona, ma che condivide con molti suoi coetanei.

“Ho avuto un percorso di studi molto normale, mi sono laureata in Storia dell’arte. Avevo una grandissima passione per l’arte, ma avendo pochissime possibilità, ho iniziato subito dopo l’università a seguire un corso di specializzazione. Sono riuscita ad entrare in un prestigioso master di Editoria. Una organizzazione molto aperta, che adotta criteri di scelta molto particolari e, infatti, tutte le persone selezionate che hanno seguito il master con me, erano tutte molto, molto brillanti. La frequenza del master serve anche a capire quali sono le attitudini di ciascuno, e alla fine del corso ho scelto l’editoria scolastica. Io mi sento diversa dai miei compagni di studi, perché sento il bisogno di fare un lavoro che abbia una connessione con il sociale. Sono sempre stata attirata dal mondo della scuola, anche se il lavoro editoriale in questo settore è molto più pesante. Se l’autore non è così importante, il redattore può veramente dare un contributo sostanzioso al libro che si rivolge tra l’altro ad un pubblico particolare, gli studenti.”

Mi fa capire immediatamente che il suo è un tipo di lavoro che si presta particolarmente bene all’uso e all’abuso dei contratti a progetto o delle partite IVA.

Nella mia casa editrice vengo pagata a pagina, si fa un calcolo delle pagine di cui si comporrà orientativamente il libro, e il totale viene corrisposto e suddiviso mensilmente, ma tu non riesci mai a farti un’idea di quanto guadagnerai al mese. Se stai svolgendo un lavoro e per motivi editoriali, economici o di marketing si decide improvvisamente che il libro debba avere una foliazione diversa, inferiore, guadagnerai ovviamente di meno, ma lavorerai lo stesso numero di mesi necessari. A me è successo, anche di ricevere il contratto a lavoro finito ed essere pagata dopo averlo già svolto. Perciò vorrei proprio cambiar lavoro. Nella casa editrice si parla di assunzioni nel 2013, ma credo che dipenderà molto dal settore editoriale nel quale si lavora. Se io non sarò nel settore giusto al momento giusto, non riuscirò mai ad entrare. Considera anche che da una redazione all’altra e da una redattore all’altro ci sono compensi diversi, è un ambiente fortemente gerarchizzato con una pressione enorme perché i collaboratori non transitino da una redazione all’altra.

Nell’editoria il lavoro varia a seconda dal settore, ad esempio nella narrativa il redattore sistema il testo della traduzione confrontandolo con l’originale, facendo leva sulla sua sensibilità, mentre nell’attività di redazione scolastica il lavoro è più di macelleria, è più incisivo. C’è un progettista che pensa il libro, fa uno studio sulla concorrenza e sui libri più adottati su quel determinato argomento, conduce un’inchiesta fra i professori e vede quali sono le richieste, poi progetta il libro.

Ci sono case editrici, anche enormi, che hanno collaboratori pagati molto bene, altre no, ma non c’è nessun tipo di legislazione che regoli la situazione. Ci sono quelli che hanno il contratto a progetto o quelli che hanno la partita IVA. Anzi alcune case editrici ti obbligano a prendere la partita IVA, ma la maggior parte delle persone che conosco io di fatto sono dei dipendenti mascherati. Subisci il continuo ricatto che il contratto non ti verrà rinnovato e devi sempre dare il massimo.”

Le chiedo se sono questi i motivi per cui vorrebbe cambiare.

Il lavoro è molto bello, ma non ci sono prospettive e io, nonostante tutto, voglio mantenere la mia curiosità. Se lavori in una casa editrice ti trovi a scontrarti con una realtà che è quella economica. Quando si decide di investire, il collaboratore rientra nel conto economico. Ci siamo accorti che l’Ufficio del Personale non sa nemmeno che esistiamo, perché non siamo personale, siamo come la carta del libro.

A me piacerebbe fare sempre la redattrice, non ambisco a far carriera, però se penso che ai miei sforzi non corrispondono quelli del progettista, che viene pagato il doppio di me, mi scoraggio. Io mi impegno come e più di altri, ma non vedo nessuna gratificazione né economica, né in prospettiva di stabilizzazione, e nemmeno un salario che mi faccia vivere dignitosamente. Io attualmente guadagno 800 euro al mese. Ho vissuto due anni a Milano spendendo 400 euro per una camera in un appartamento condiviso con altre cinque persone. Considera anche che per alcuni mesi a volte non ho percepito nulla, perché magari il contratto era scaduto, ma il lavoro non era ancora finito. Ad un certo punto non ce l’ho fatta più, a parte il costo enorme di stare a Milano con uno stipendio ridicolo, c’era anche il costo psicologico di non sopportare più questa situazione di estraneità. Ho fatto l’Università molto lontana da casa e ho convissuto con altre persone per anni. Arrivata a 28 anni, non ce l’ho fatta più a tollerare questa situazione, perciò ho deciso di andarmene per convivere con il mio ragazzo, anche se questo significa essere così distante dal luogo di lavoro. Psicologicamente è stato un cambiamento enorme per me. Questa pratica, invece, è molto diffusa a Milanoragazzi giovani, anche trentenni, che vivono in condivisione perché, pur avendo buoni stipendi, non riuscirebbero a sostenere l’affitto di un appartamento da soli, così decidono di convivere. A me sembra una situazione di adolescenza forzata. Io non ce la faccio più, non sono più disposta a pagare anche questo. Ho quasi 30 anni e voglio vivere da adulto, adesso c’era questa opportunità e devo dire che l’ho anche un po’ forzata. E’ molto pesante per me sotto certi aspetti. Quando devo raggiungere la sede della casa editrice a Milano, mi tocca svegliarmi alle 5.30 circa, ma preferisco questo per il mio equilibrio psicologico. Io non ho grandi ambizioni, vedo i miei amici a cui non pesa questa situazione, io vorrei soltanto avere il mio posto di lavoro retribuito il giusto, per avere una vita privata soddisfacente. Ci sono dei lavori a forte carica motivazionale, come il lavoro del redattore, per questo motivo lo si fa a qualsiasi costo, anche se offrono uno stage a 500 euro al mese. Ci sono ragazzi della mia età che lo accettano, e ci sono altre persone che, invece, decidono di buttare alle ortiche la laurea, e di fare lavori meno qualificati per avere la tranquillità tutti i mesi. Non è giusto né per gli uni né per gli altri.C’è un lucro, uno sfruttamento della motivazione che si sta facendo. Sembrano generalizzazioni, però per l’esperienza che ho e per le persone con cui sono entrata in contatto nel mio blog, mi sono resa conto che i lavori più belli e gratificanti, sono quelli che vengono retribuiti di meno, in cui ci sono i contratti più capestro, quelli più assurdi. Ci sono colleghi che hanno accettato per un anno di lavorare a tempo pieno a 500 euro al mese. C’è una gran quantità di ragazzi giovani, preparati e brillanti, che sono pronti a fare il tuo lavoro, così se tu te ne vai ci sarà sempre qualcuno che prenderà il tuo posto, e non c’è neanche interesse da parte dell’azienda a formarti e a tenerti.”

Immagino che per una donna sarà ancora più difficile conciliare il lavoro e le scelte personali, penso inevitabilmente alla maternità.

“Esistono dei contributi che ti permetterebbero di andare in maternità, ma sono veramente ridicoli: puoi ricevere per 5 mesi una retribuzione pari all’80% di quanto hai percepito nei 12 mesi precedenti. Questo vuol dire che se non hai lavorato per 6 mesi nell’anno precedente, percepirai solo l’80% di 6 mesi di stipendio. Chi decide di fare un figlio in queste condizioni? Nessuno.”

Mi incuriosisce capire come una persona così discreta e timida come lei decida di curare un blog sui precari.

Ho maturato una fortissima rabbia, non trovavo nessun canale che mi permettesse di liberarla, se non parlarne con altri. Tutto il resto della società deve conoscere bene la situazione in cui ci troviamo. La nostra sembra una generazione incapace di mettersi insieme.

Su questa questione io ho maturato una mia teoria, la mia generazione è dominata dall’individualismo, perché si sono diffusi i modelli di alcune persone di successo che sono riuscite a realizzarsi, così ognuno crede di poter fare altrettanto nel proprio piccolo, senza considerare gli aspetti più macroscopici, e cioè che se tutti abbiamo questi stipendi penosi, l’economia non gira e anche le tue possibilità di realizzazione personali si riducono, perché non puoi diventare grande editor se non ci sono soldi. L’individualismo, poi, è accresciuto da questi tipi di contratti che abbiamo. La situazione più assurda, però, è rappresentata anche dall’atteggiamento delle altre generazioniI 60enni, ad esempio, sono i nostri genitori, ogni genitore sa in che condizioni siamo, eppure sembrano più interessati al problema delle pensioni, che noi non avremo mai, che al futuro dei loro figli, e dovrebbero adoperarsi più che ad aiutare il figlio con la propria pensione, ma a metterlo in condizioni di farcela con le proprie forze.”

Anch’io ho cominciato a maturare la convinzione che ci sia una responsabilità generazionale gravissima, e che i padri dovrebbero acquisire coscienza di quale danno hanno procurato ai figli, prosciugandone le possibilità di futuro.Questa situazione, effettivamente, crea anche una condizione di dipendenza nei giovani, i genitori stanno sopperendo alle carenze socio-economiche sostenendo economicamente i loro figli in maniera diretta. Una situazione che si potrà mantenere in questo malsano equilibrio fin quando resteranno in vita i genitori, ma già per le generazioni attuali e ancor più per quelle che seguiranno non sarà più possibile mantenere né se stessi, né i propri figli. Attualmente le tensioni sociali sono contenute perché c’è ancora l’ammortizzatore della famiglia d’origine che evita l’esplosione della situazione, in più il diffuso individualismo sfrenato che ha frammentato tutto ha impedito ai precari di collegarsi e costituire una forza. Io ne sono convinta e ribadisco più volte che i precari sono una forza, una forza incredibile, ma F.C. è molto scettica.

“Io non ci credo. Non c’è nessuna possibilità di uno scontro sociale, perché non è nella nostra mentalità. Io non sono per la violenza, ma non capisco questa assenza della mia generazione. Per esempio quando c’è stata la manifestazione di febbraio “Se non ora, quando”. Io ero in piazza e mi guardavo intorno e vedevo pochissime, pochissime ragazze della mia età. Mi veniva da piangere, avevano tutte l’età di mia madre, avevano 60 anni. Era una cosa senza senso, e invece dovevamo scendere noi in piazza per denunciare la situazione che si era determinata. Non succederà mai che la mia generazione si metterà insieme, e si vede già da ora. Adesso per esempio nella questione della riforma del mercato del lavoro, chi sono gli attori? Il ministro del lavoro e i sindacatima i sindacati non rappresentano noi, i precari io non li sento, eppure avrebbero tutto il diritto di avere una voce in questa riforma e non è certo la voce dei sindacati. E’ stato un fallimento totale il fatto che siano stati introdotti 46 tipi di contratto di lavoro, senza creare dei contrappesi, degli ammortizzatori che rendessero “sopportabile” questa estrema flessibilità. In realtà io penso che non era neanche prevedibile l’uso che ne è stato fatto. Certo, mi rendo conto che il contratto a progetto potrebbe funzionare in una condizione di esubero di lavoro, ma il problema è che viene utilizzato in modo strutturale.”

Le ricordo che lo sfruttamento è avvenuto anche nel pubblico e lei rincara la dose.

Nel pubblico è andata anche peggio. Io adesso con le testimonianze che ricevo, sento lavoratori di ogni tipo, ma per quanto riguarda il pubblico percepisco delle cose angoscianti, ad esempio le partite IVA obbligate in ospedale. Questo significa che non si faranno mai più concorsi per certe posizioni, perché ti obbligheranno a prendere la partita IVA per ricoprire quel ruolo e sarai un finto dipendente con molti meno diritti di un dipendente. Allo stesso modol’altra grande trovata del pubblico è stato il ricorso alle cooperative, che nella mia regione stanno fallendo, perché vengono pagate con anni di ritardo. E’ una situazione surreale, io queste cose le so, ma i miei coetanei forse no.”

Sento dal tono della voce quanto sia turbata.

“Io sono sconvolta da questa situazione e faccio quello che posso, ho scelto di tenere un blog, perché mi sono resa conto che l’unico momento in cui ho parlato con dei miei colleghi a tempo indeterminato della mia situazione, vedendoli veramente sconvolti, è stato il giorno dopo la trasmissione di Iacona “Generazione sfruttata” e allora ho detto, bisogna informare perché è un problema di base di cui la gente non ha idea.”

E subito ci tiene a sottolineare un’altra grave conseguenza che sta producendo questo sistema.

“La questione che ci siano mamma e papà che ti aiutano quando c’è qualche problema sta determinando un altro fenomeno ancora peggiore, quello dell’immobilità sociale assoluta. Cioè se io sono figlia di genitori benestanti, potrò permettermi il lusso di non lavorare per alcuni mesi e ricercare lavori belli e interessanti, se io, invece, sono figlia di persone che non hanno una buona condizione economica dovrò accettare qualsiasi lavoro. E ti sembra giusto? Ti sembra un modo meritocratico di selezionare? Così torniamo al Medioevo.”

No, non mi sembra giusto, ma di fatto nessuno protesta vivacemente.

“Esistono molte associazioni di precari, settoriali con proprie posizioni più o meno radicali, c‘è molta frammentazione, e manca un sindacato che rappresenti l’intera categoria dei precari. Noi giovani non siamo riusciti ad organizzare una manifestazione di piazza, che fosse l’espressione di un grande movimento coeso, unito più che su un progetto, sulla necessità di farsi sentire, sulla richiesta di avere un posto in questa società. I giovani dovrebbero acquisire questa consapevolezza. Intanto aspetto di vedere cosa succede a seguito della riforma del mercato del lavoro. Temo, però, che nel settore editoriale saremo costretti tutti ad aprire la partita IVA.

Mi chiedo se tutti coloro che ne stanno discutendo abbiano effettivamente il polso della situazione. Tutti questi tipi di contratto stanno tenendo su le imprese, ed hanno effettivamente una funzione strutturale. Nella mia casa editrice, che è molto grande, più della metà dei dipendenti sono precari, anche di lunghissimo corso. Se domani incrociamo le braccia noi, salta tutto”.

Si ferma un attimo a pensare e aggiunge l’esistenza di un problema di cui nessuno parla, spesso neanche i precari.

Le conseguenze psicologiche di questa condizione sono pesantissime. Io ad esempio sono andata regolarmente da uno psicologo per due anni, non c’ero mai andata prima, ma mi chiedo come avrei fatto senza questo sostegno. Il sostegno psicologico è fondamentale, non esistono neanche delle organizzazioni di auto-mutuo aiuto, eppure sarebbero indispensabili. Riuscire a sopravvivere con uno stress così forte, per me non è normale.

Per quello che vedo c’è una forma di resistenza inconsapevole dei precari, c’è una scelta di vivere in un eterno presente, senza alcun progetto, anche piccolo, di famiglia. Non si pensa né al passato, né al futuro, si è costretti ad appiattirsi sul presente. Per me è un fenomeno molto, molto strano, eppure tutto questo costituisce la nostra realtà”.