Riforma del lavoro

Verso una nuova azione di classe collettiva?

di Rossella Aprea

Dopo la grande abbuffata della querelle sull’art. 18 dei mesi scorsi, un inquietante velo di silenzio, soprattutto da parte degli organi d’informazione, è sceso sulla riforma del lavoro, sul suo iter parlamentare, e quindi sulle modifiche approvate già al Senato a colpi di fiducia. Ciò che sta accadendo andrà approfondito in un prossimo contributo, ma per capire in che contesto ci muoviamo oggi, dobbiamo forse fare un passo indietro e cominciare a guardare la questione in un’ottica di più lungo periodo.

Non c’è dubbio che ci troviamo in una situazione di profonda crisi delle relazioni industriali nelle democrazie avanzate. Sono crollati uno dopo l’altro, nell’arco di sessant’anni, i due principali modelli di regolazione del lavoro: quello europeo e quello nord-americano. In Europa, all’indomani della II guerra mondiale si consolida un welfare generoso e universalistico sullo sfondo di un sistema di produzione omogeneo di stampo fordista, in cui il potere di mercato dei lavoratori era garantito dalla situazione di crescita e di piena occupazione, in cui si viveva. In Europa, i grandi sindacati con la loro azione di mediazione della pluralità di interessi, le rappresentanze nei luoghi di lavoro, il sistema della contrattazione collettiva e dei patti sociali depotenziano il conflitto imprenditori-lavoratori, convogliandolo in un’azione collettiva regolata dagli esiti negoziali controllati.

Nel contesto nord-americano, nello stesso periodo, non si sviluppa nessuna di queste forme o modalità di rappresentanza, per cui non si assiste a una radicalizzazione del conflitto di classe, quanto piuttosto a una forte individualizzazione del rapporto di lavoro. Questo determina l’affermazione di un modello di mobilità sociale ascendente, che porterà alla creazione di una vasta classe media che incorporerà valori individualistici.

Il modello sociale che si sviluppa in Europa è lontano dall’American dream basato sul successo individuale.

Questa situazione resisterà per circa trent’anni, fin quando negli anni Ottanta, con l’avvento del governo Thatcher, si avvierà progressivamente in Europa un processo di attacco prolungato alla regolazione istituzionalizzata del lavoro, al sistema del welfare e quindi al modello sociale europeo, anche in virtù di una serie di fenomeni che convergeranno nella stessa direzione: la crescente ricerca di flessibilità organizzativa da parte delle imprese a causa di mercati più volatili e lo sviluppo di una contrattazione individuale o per piccoli gruppi, determinata dalla crescente diversificazione della forza lavoro. Il modello americano si configura come la vera, valida alternativa.

La negoziazione “individuale” non diventa, però, solo l’espressione di un’offensiva imprenditoriale per ristabilire la propria autorità unilaterale nei luoghi di lavoro, ma anche la rappresentazione di mutamenti strutturali e culturali che riguardano sia le imprese che i dipendenti.

Con la crisi finanziaria del 2008 si sgretola anche il modello americano di regolazione del lavoro.

Mentre il disfacimento del tradizionale modello europeo prosegue inesorabile, quello americano cessa di essere un modello di successo alternativo. Perché? Cosa è accaduto in America negli ultimi anni? Perché, come sostiene il premio nobel per l’economia Paul Krugman, la classe media è in una situazione di crisi profonda e si cominciano a sviluppare forti disuguaglianze? Dov’è finito il sogno americano che garantiva uguaglianza di opportunità per tutti?

La risposta va cercata nei processi e negli equilibri di domanda e offerta di lavoro qualificato.

L’illusione che l’economia della conoscenza avrebbe richiesto masse crescenti di knowledge workers – lavoratori della conoscenza – da impiegare nelle economie avanzate, le uniche che avrebbero realizzato prodotti a elevato contenuto tecnologico, per cui sarebbero state necessarie elevate competenze a fronte di alti salari, ha, invece, determinato un’eccedenza dell’offerta di questa forza lavoro rispetto alla domanda effettiva del mercato. Il crescente livello di istruzione superiore ha innescato la spirale dell'”inflazione delle credenziali”, cioè dei requisiti e titoli richiesti da parte delle imprese per l’accesso a molti posti di lavoro senza che a questo corrispondesse un effettivo innalzamento del contenuto professionale di quei posti. L’efficacia dell’investimento su se stessi, sulla propria formazione, ha cominciato a produrre ritorni decrescenti, e non solo per l’esplosione dei livelli di istruzione nelle economie occidentali, ma anche perché lo stesso fenomeno ha preso piede nelle economie emergenti (Cina, India, Russia).

La globalizzazione si è estesa anche al mercato del lavoro altamente qualificato. La forte competizione ha cominciato a determinare una sorta di “asta globale” dei lavori a elevata qualificazione, ma che si ritrovano sempre più con un basso salario. Così crolla anche il modello americano con la retorica del successo e della mobilità ascendente garantita a chi volesse investire su se stesso, situazione che per un po’ ha fatto da ammortizzatore del conflitto di classe. Il problema, a ben guardare, non è legato solo a un eccesso di offerta di lavoro qualificato, ma anche al tipo di domanda di lavoro qualificato, quale si sta configurando negli ultimi anni. Una grande quantità di lavoro di conoscenza di managers, professionisti e tecnici viene sempre più standardizzato, mediante la codifica e la digitalizzazione in pacchetti di software, schemi e prescrizioni che possono essere trasferiti e manipolati da altri. Si parla di un nuovo Taylorismo – un Taylorismo digitale. Questo traduce l’innovazione in routines che richiedono un certo livello di istruzione, ma non i livelli di creatività e autonomia richiesti dall’economia della conoscenza.

In questo contesto, per quanto tempo ancora si ricorrerà a forme di contrattazione individuale invece di puntare ad azioni collettive?

Nei paesi avanzati la debolezza e la sempre più ridotta capacità di rappresentanza economica e sociale dei sindacati è stata indubbiamente determinata da un’adesione sempre più limitata dei lavoratori alle organizzazioni sindacali, da una crescente frammentazione del mondo del lavoro e da una riorganizzazione dei processi produttivi.

La difficoltà nella quale si muovono oggi i sindacati tradizionali non è solo quella di garantire adeguata rappresentanza anche alle fasce più deboli e precarie della forza lavoro, ma è di rischiare di perdere la rappresentanza dei gruppi più qualificati o con maggiore potere contrattuale. Sono proprio questi gruppi i più tentati di abbandonare l’azione collettiva per puntare a un’autotutela individuale.Tuttavia, proprio la crisi del modello americano, accompagnata da un livello crescente di frustrazione dei lavoratori più qualificati, potrebbe aprire nuovi scenari, in cui ci sarebbe spazio per un ritorno all’azione collettiva, per un sindacalismo più radicale, per la presa di coscienza di una cosiddetta “nuova classe operaia”, incentrata sui lavoratori della conoscenza. In Italia stiamo già osservando segnali che sembrano andare in questa direzione. In una situazione di mancanza di rappresentanza sindacale sia per milioni di lavoratori precari sia per i cosiddetti knowledge workers, stiamo assistendo, negli ultimi tempi, proprio a seguito della deludente azione di mediazione delle organizzazioni sindacali tradizionali nella riforma del lavoro, alle prime forme di auto-organizzazione collettiva, ai prodromi della rinascita di una nuova coscienza sociale, di cui il QuintoStato sembra rappresentare il fenomeno più interessante.

Per un approfondimento del tema si legga l’articolo di Marino Regini, Tre fasi, due modelli e una crisi generalizzata, in Stato e mercato, n. 1, 2012, pp. 77-89