Il lavoro autonomo nella crisi italiana Parte I

Il nodo del lavoro autonomo

di Sergio Bologna

Ancora il lavoro autonomo. Sotto forma di una lunga recensione al libro di Costanzo Ranci, di cui abbiamo già parlato, Sergio Bologna offre un nuovo e impegnato contributo di analisi per comprendere a fondo lo statuto sociale del lavoro autonomo e proporre una svolta nell’analisi delle classi sociali in Italia. Questa che ubblichiamo è la prima parte dell’intervento

Finalmente la sociologia accademica ha compiuto uno sforzo serio per mettere a fuoco, dare una dimensione e capire il valore del lavoro autonomo in Italia. Questo volume è il quarto di una serie destinata a rendere pubblici i risultati di un ambizioso progetto di ricerca sui ceti medi del Consiglio italiano per le Scienze Sociali, coordinato da Arnaldo Bagnasco e finanziato in parte dalla Compagnia di San Paolo. Il progetto è partito nel 2004 e finora i volumi pubblicati sono Ceto medio. Perché e come occuparsene, uscito nel 2008 e curato dallo stesso Bagnasco, Restare di ceto medio, a cura di N. Negri e M. Filandri, uscito nel 2010, La costruzione del ceto medio. Immagini sulla stampa e in politica, a cura di R. Sciarrone, N. Bosco, A. Meo, L. Storti, pubblicato nel 2011, tutti presso Il Mulino, e finalmente questo sulle partite Iva.(1)

Diciamo subito che uno dei meriti ma al tempo stesso dei limiti di questo lavoro sta proprio nel fatto che gli autori intendono arrivare a definire una componente del ceto medio – questo è lo scopo finale della ricerca – e pertanto analizzano il lavoro autonomo in quanto appartenente a questo ceto. Se lo scopo finale fosse stato quello di mettere a fuoco il lavoro autonomo in quanto tale probabilmente avrebbero dovuto approfondire molto di più l’aspetto soggettivo, la specificità “antropologica” del lavoro indipendente. Ma di questo si dirà in seguito. Qui importa rilevare che questo impianto di fondo ha consentito di scoperchiare un lato oscuro di cui il lavoro autonomo ha sempre sofferto e che ne ha fortemente limitato il riconoscimento sia sul piano sociale che sul piano istituzionale.

Il pregiudizio nei confronti del lavoro autonomo

“Il ceto medio non si dà in natura” è uno degli slogan di questa ricerca. Il ceto medio è il risultato di una costruzione mentale, di un’immagine che viene confezionata da diversi soggetti, è una rappresentazione che il ceto medio ama dare di se medesimo, di un’ideologia di status. Lo stesso vale per il lavoro indipendente, è una realtà ma al tempo stesso una rappresentazione della realtà, che vive di vita propria. Seguendo questa indicazione, gli autori rendono giustizia (dopo trent’anni!) del pesante giudizio che della piccola borghesia, alla quale il lavoro indipendente appartiene, aveva dato nientemeno che l’autorità indiscussa in materia di ceti sociali: Paolo Sylos Labini. “Topi nel formaggio”, “individui servili” e “culturalmente rozzi” aveva scritto l’illustre barone, ai quali andrebbero ricondotte “pratiche non di rado sgradevoli e perfino ripugnanti della nostra vita pubblica”. Parlava di gruppi della piccola borghesia, non specificamente di lavoratori autonomi, ma l’anatema era così forte e consentiva un giudizio sommario così “vendibile”, che la cultura italiana, felice quando qualcuno offre al suo moralismo un’opportunità di praticare un’esclusione, se ne è appropriata subito e ne ha individuato l’oggetto nel solo lavoro autonomo, forse anche al di là delle intenzioni dello stesso maître à penser. Quindi il primo merito indiscusso di questo libro è quello di riconoscere che il lavoro indipendente è stato per lungo tempo vittima di un pregiudizio e che l’origine di questo pregiudizio non stava nella redazione di qualche foglio scandalistico o chissà dove ma nel sancta santorum dell’università italiana.

Quando è stata superata questa visione puramente negativa del lavoro indipendente? Quando sociologi ed economisti si sono esaltati ad osservare i successi della microimpresa italiana dei distretti. Lo ammette una che aveva lavorato in parallelo a Sylos Labini, la sociologa e politologa americana Suzanne Berger, che 25 anni dopo le sue prime ricerche sul “caso italiano”, considerate a suo tempo assai autorevoli, ammise di “non aver capito” lo spirito d’intrapresa della provincia italiana e il grande slancio innovativo delle microimprese. Ecco dunque che il lavoro indipendente viene riabilitato ma a condizione di confondersi o di identificarsi con l’impresa. Perde la sua immagine negativa ma acquista un’immagine confusa, dalla quale è difficile districarlo, come vedremo. E’ un merito quindi di questi ricercatori averci consentito di ricostruire la genesi di una serie di aporie con le quali ci troviamo ancor oggi a fare i conti.

Fatta questa premessa, entriamo nel merito dell’impianto metodologico di questa ricerca. Ad esso è dedicato il paragrafo “la nostra proposta analitica” (p. 62-67).

L’impianto metodologico

I lavoratori indipendenti si caratterizzano, secondo questa proposta, per “collocarsi contemporaneamente su tre dimensioni del proprio lavoro: quella della professionalità, quella dell’imprenditorialità e quella dell’autonomia nelle relazioni organizzative”. Qui i ricercatori accolgono molte indicazioni contenute nelle ricerche anglosassoni sulla formazione del ceto medio di professionisti indipendenti, creato dalla scelta di molte imprese medio-grandi di esternalizzare i servizi esperti. La proposta analitica si sostanzia ulteriormente con l’accento posto sui problemi della regolazione, quindi si insiste molto sulla rilevanza del riconoscimento della professione attraverso gli Ordini professionali, sulla specificità della componente non ordinistica – dove i dati quantitativi sono purtroppo rappresentati ancora dagli studi del CNEL del 2005 – e sui problemi posti dall’esclusione di molte categorie dai sistemi di welfare. Per altre categorie invece, artigiani e commercianti soprattutto, si sottolinea il benign neglect di cui hanno goduto sul piano fiscale per un certo periodo. Fondamentale quindi per la collocazione sociale all’interno del ceto medio del lavoro indipendente è il sistema di regolazione a cui sono sottoposti i diversi gruppi al suo interno e le politiche di consenso che i vari governi della nostra Repubblica hanno con maggiore o minore consapevolezza praticato. La crisi però, sottolineano ripetutamente i ricercatori, sta cambiando profondamente questi assetti, il mercato riprende a prevalere sulla regolazione e ne mette a nudo i limiti. E’ proprio nei capitoli dedicati ai “grandi numeri” che risulta evidente l’aspetto che suscita alcune perplessità. I ricercatori considerano il territorio che va dal lavoro indipendente individuale alla piccola impresa un continuum socio-produttivo che si può catalogare sotto l’unica dizione di “lavoro autonomo”. Sfugge in tal modo tutta la problematica che riguarda la netta distinzione che esiste tra l’ordine simbolico del lavoro e l’ordine simbolico dell’impresa, una distinzione questa che ha forti risvolti sia sul piano giuridico-regolativo che sul piano della forme della rappresentanza (non è un puro fatto lessicale chiamare un’organizzazione Union piuttosto che Council of microbusiness). Ma di questo parleremo più avanti. All’interno di questo continuum si individuano le varie categorie e si attribuisce loro un peso quantitativo. Sulla base di elaborazioni di dati Istat per la serie storica 1992-2010, dei 5 milioni e 570 mila lavoratori indipendenti censiti nel 2010, 257 mila sarebbero gli “imprenditori in senso stretto”, pari al 4,5% del lavoro indipendente, 3 milioni 500 mila i “lavoratori in proprio”, artigiani e commercianti soprattutto, che rappresentano la quota più rilevante, il 60,9%, 1 milione 200 mila i “liberi professionisti”, che rappresentano il 20,6%, 400 mila i collaboratori, 370 mila i coadiuvanti familiari e 70 mila i soci di cooperativa. Tralasciando per ora il fatto se sia corretto o meno inserire questi ultimi due gruppi nel lavoro indipendente, merita soffermarsi sul giudizio dei ricercatori circa l’evoluzione subita dal lavoro indipendente, come da loro inteso, nel corso della serie storica presa in esame. Se si osserva il grafico a pagina 106 risulta a colpo d’occhio un’impressionante stabilità con tendenza alla diminuzione, il lavoro indipendente rimane quello che era vent’anni fa. In realtà il passaggio significativo in questo apparente immobilismo è quello che avviene all’interno dei vari gruppi e nella proporzione tra i medesimi. E’ il fenomeno che mi aveva fatto parlare di “lavoro autonomo di seconda generazione” in quanto scrivevo nel 1997, cioè di un lavoro orientato sempre più verso funzioni cognitive o di relazione sociale (servizi alla persona) rispetto al tradizionale lavoro autonomo nell’artigianato e nel commercio. Cala quest’ultimo e cresce l’altro, questo è il fenomeno rilevante della serie storica degli ultimi 20 anni. Nel paragrafo del terzo capitolo Trasformazioni del mercato del lavoro che cambiano il lavoro indipendente i ricercatori mettono in rilievo questo cambiamento, dato da una spinta evidente verso la diffusione di servizi professionali di alta qualificazione oppure di servizi alla persona determinati dai nuovi stili di vita. Curioso che lo facciano sulla base di scritti di autori che per lungo tempo avevano negato questa trasformazione, come Reyneri o Accornero. Più interessante l’analisi successiva che esamina all’interno di ciascuno dei diversi gruppi i cambiamenti avvenuti, prendendo in considerazione l’universo del lavoro autonomo non più dal punto di vista della sua posizione formale ma dal punto di vista dei contenuti reali e delle modalità effettive di svolgimento dell’attività. I cambiamenti sarebbero determinati essenzialmente dalle trasformazioni subite dal terziario: l’imprenditorialità diffusa della stagione dei distretti lascia il posto a diverse forme di organizzazione del capitale e diverse forme di esternalizzazione delle competenze, il settore degli addetti alle vendite viene assorbito dal lavoro subordinato anche grazie alle diverse forme flessibili di rapporto di lavoro, l’introduzione dei contratti di collaborazione assorbe una quota rilevante di occupazione femminile e così via. Hanno personale alle dipendenze 1 milione 524 mila lavoratori indipendenti, di cui due terzi sono lavoratori in proprio. 3 milioni 800 mila sono invece i lavoratori indipendenti individuali, anch’essi per la maggior parte lavoratori in proprio ma con una componente importante di circa 1 milione di professionisti individuali, al cui profilo si assimila quello dei collaboratori.

Un nuovo pregiudizio?

Esaminando l’universo del lavoro autonomo non dal punto di vista formale ma da quello della modalità organizzativa di svolgimento dell’attività, il primo problema che s’incontra è quello del “finto lavoro autonomo”. Va dato atto ai ricercatori che non cadono nella tentazione diffusa di ridurre tutto il lavoro autonomo delle Partite Iva a lavoro dipendente mascherato, visione questa unilaterale e tendenziosa ma purtroppo prevalente nel dibattito che ha preceduto la riforma Fornero. Nel paragrafo Spazi di autonomia e professionalità del terzo capitolo, in quelle che sono tra le pagine più articolate e interessanti della ricerca, si mette in luce l’estrema complessità della “contaminazione tra lavoro parasubordinato e lavoro indipendente tradizionale”, alla quale non sfugge in primo luogo il lavoro dipendente medesimo, che ha subìto in questi anni di postfordismo trasformazioni che non sono riconducibili alla sola gestione della flessibilità. La letteratura sociologica e in parte giuridica hanno distinto il problema dell’autonomia in una componente giuridico-formale, una economica e una operativa ed è proprio la combinazione tra queste ultime due a richiedere la necessità di un’analisi molto diversificata per distinguere, come propongono i ricercatori, l’area del lavoro parzialmente autonomo da quella del lavoro pienamente autonomo in modo da isolare l’area di “nessuna autonomia” (a tale proposito vengono forniti anche dei dati quantitativi nella tabella 3.10. a pag. 131). Il tema è di assoluta rilevanza perché il dilemma “finta o vera autonomia” è alla radice degli interventi di regolazione. La domanda da porre ai ricercatori allora è: perché non avete provato a esaminare la questione dal punto di vista di chi esercita il lavoro autonomo? Perché l’unico osservatorio è quello della sociologia accademica ed in parte del pensiero giuridico, escludendo il contributo dei soggetti organizzati? Se invece di guardare le cose dall’esterno le guardiamo dall’interno, dal punto di vista soggettivo di chi esercita l’attività di professionista individuale, la distinzione tra vera e finta autonomia perde molto del suo significato, la monocommittenza non risulta essere una relazione di lavoro molto diversa dalla pluricommittenza, perché la condizione di fondo del rapporto di lavoro dell’una e dell’altra è la forma della retribuzione ed è su questa che va misurata la differenza, non tra vera o finta autonomia ma tra lavoro salariato e lavoro a fattura.(2) Una differenza che ha dei profondi risvolti esistenziali e che porta a mettere l’accento della regolazione su questioni diverse, come quelle della previdenza e della fiscalità. Sicché a ben pensare l’enfasi posta sulla questione dell’autonomia formale o sostanziale appare come la versione odierna del vecchio pregiudizio nei confronti del lavoro autonomo. Bollati come esseri scurrili e dannosi negli Anni 70, esaltati come businessman negli Anni 80, oggi i lavoratori autonomi diventano “finti” e la regolazione li caccia a pedate nelle schiere del lavoro subordinato in base alla teoria che questa sarebbe la strada percorribile per garantire a loro delle tutele sul piano previdenziale.

Questi risvolti, venuti alla luce in maniera prepotente durante il dibattito attorno alla riforma della signora Fornero, non sono presenti, né potevano esserlo per scadenze temporali, nei testi che stiamo esaminando. (segue)