Pesci quadrati: cibo e design

di Paolo Deganello

Il design applicato al cibo ovvero l’apoteosi di un modello consumistico che sfocia nell’esaltazione dell’inutile e nello spreco delle risorse, facendo perdere le radici naturali dell’alimentazione, il rapporto con la natura, con chi produce le materie prime alimentari. Una qualità della vita apparente, confusa con l’ostentazione del lusso. Occorre invece, anche nell’alimentazione, ritrovare un gusto della qualità che si coniughi con l’uso intelligente e sostenibile delle risorse disponibili.

Possiamo immensamente godere nel poter mangiare in un ristorante di lusso un quadratino di 6x6x1,8 cm perfettamente bianco di merluzzo elegantemente guarnito da un sottile segno a spirale di maionese gialla, posato al centro di una porcellana anch’essa bianca e quadrata che un cameriere di nero vestito ci ha messo sul tavolo in un ristorante di Barcellona.

Sulle tavole dei migliori ristoranti si può spesso avere il piacere di un piatto omaggio all’action painting di Pollock, o sensuali policromie che rimandano a Oldemburg e a molta Pop Art, con sapori più o meno sublimi. Anche nel pranzo a prezzo fisso ormai si può mangiare un approssimato Donald Judd di merluzzo 6x6x1,8 magari su un puntinato di maionese Calvet, o infinite versioni del già citato Pollock.

Meraviglia del moderno, la massificazione del “buon gusto” nella società del benessere non ha confini. Tutto cominciò con la Ford T. Mi sembra finita questa società del benessere con l’inglorioso “fallimento impedito” della General Motors. Michele De Lucchi in un suo intervento agli Stati generali per l’EXPO 2015 a Milano (www.statigeneraliexpo.it) giustamente ricordava l’Abbazia di Chiaravalle quale buon esempio di filiera corta interamente gestita, dalla produzione alla vendita dalla stessa piccola impresa, sopravvissuta, nonostante tutto, e oggi possibile radicale riferimento alternativo al mito della grande serie e della grande industria su cui si era costruita tutta la speranza progettuale della disciplina del design.

Oggi il latte viene pagato 27cent per litro a un allevatore, disperato perché non ci vive più con quei miseri 27 cent, per quanto aumenti la produttività delle sue mucche, perché produrre il latte in serie in Polonia oggi costa meno. Diceva Carlo Petrini, sempre agli “Stati generali”, in un intervento applauditissimo, che i contadini guadagnano sempre meno, qui come nel Benin, e i consumatori pagano sempre di più. Proponeva anche lui, anche noi come il designer De Lucchi, l’agricoltura di prossimità, un rapporto diretto produttore consumatore quale unica condizione perché il lavoro agricolo venga pagato, perché questa società del benessere riduce alla fame chi produce e genera un desiderio sempre più sfrenato di un sublime ed esclusivo 6x6x1,8 di merluzzo bianco per pochi, che è sempre più aria fritta, magari profumata perché il design ora progetta anche il profumo.

Il design è diventato come re Mida, tutto deve toccare e tutto deve nobilitare, ma per l’appunto oggi ci troviamo di fronte ad una infinità di merci che non ha più senso produrre. E’ nostro compito dare qualità estetica a qualsiasi merce alimentare? Stimolare nuovo desiderio di cibo, atrofizzato dall’abbondanza, in soggetti sovralimentati, o, come ci aveva fatto sperare il meglio del Movimento Moderno, diffondere e rendere disponibile ai più l’estetico attraverso le merci? O come aveva tentato il radical usare l’estetico nelle merci per veicolare istanze di equità di soggetti subalterni ma capaci di ribellione e propositività alternativa?

Eravamo l’altro ieri, Giorgio Ferraresi, Andrea Calori, Elisabetta Ambrosio ed io ospiti a pranzo del prof. Franco Berrino alla Cascina Rosa dell’Istituto Tumori di Milano. Cercavamo di capire come usare l’Expo 2015 per promuovere quel cibo che oggi ha senso produrre, pranzavamo insieme a una trentina di pazienti operati di cancro alla mammella che imparavano e sperimentavano un’alimentazione preventiva, e avevamo ognuno un piatto preparatoci con soddisfazione dalla cuoca della Cascina Rosa formato da un risotto di riso integrale alle vongole, una quantità contenuta di spinaci verde scuro con una macchia di salsa bianca, un contorno di carote cotte insieme, ravanelli tagliati fini con la loro bellissima bordatura color fuxia e imfine, a dominare il piatto, metà sgombro, che è pesce che non mangia altri pesci ma plancton e quindi è meno inquinato e ha molto omega e che manteneva nel piatto intatta la sua forma di pesce. C’era un senso di vita in quel piatto variegato policromo e questa era una bellezza implicita che non ha bisogno di design. Carlo Petrini lamentava agli “stati generali” il senso della perdita del valore del cibo, il cibo è diritto alla vita, non esibizione di potere, di privilegio che il design tende ad esaltare artisticizzando la forma del cibo. Il cibo deve essere l’incontro tra una cultura del coltivare e allevare e la cultura del consumare nel rispetto della vita. La produzione di polli in batteria che tra Verona e Padova producono in grande serie, come alla General Motors, una quantità mostruosa di polli in un territorio piccolissimo (www.report.rai.it ,”Carne” 17 maggio 2009 ore 21,30) non è rispetto della vita, le pandemie da allevamento e coltivazione intensiva causa di un uso iperproduttivistico e conseguente sfruttamento irresponsabile delle risorse del pianeta, insieme al degrado ambientale all’ossessione di sempre più auto, sempre più merci, sempre più cemento è un segnale di morte.

Dobbiamo produrre sempre più cibo, aumentare la produttività del terreno, delle sementi, ma produciamo cibo sufficiente a sfamare 12 miliardi di abitanti, siamo sei miliardi e mezzo, a un miliardo il cibo non lo diamo, sprechiamo, buttiamo via nelle discariche il cibo per sette miliardi e mezzo di esseri umani. Quanti devono sopravvivere rovistando nell’immondizia? Questo spreco mi sembra un altro chiaro segno del fallimento di quella società del benessere che con la grande industria, con il progresso, con l’artificializzazione del naturale, con l’uso spregiudicato delle risorse pensate infinite del pianeta, avrebbe dovuto soddisfare il bisogno di vita di tutti. Su questa speranza, ripeto, si è costruita tutta la disciplina del design, e siamo arrivati a un miliardo di obesi e un miliardo di affamati (Raj Patel “I Padroni del cibo”). C’è ormai un consumatore di cibo che va a comprarsi gli alimenti in campagna (Andrea Calori, Coltivare la città). Sono i GAS (Gruppi di acquisto solidale) in continua crescita in tutto l’emisfero del benessere e in continua crescita è la vendita diretta nelle aziende agricole. 1943 sono le aziende bio in Italia con vendita diretta dei prodotti nel 2008, il 47% in più del 2006 (“Altreconomia” n.104). Il cambiamento è ancora minoritario, ma è già in atto. Chi produce dialoga con chi consuma, lo scarto si riduce al minimo, il consumatore partecipa alle scelte produttive e remunera equamente il lavoro agricolo. Qui il design non serve ma potrebbe servire moltissimo se progettasse eventi capaci di promuovere questa nuova modalità del produrre e del vendere che ha il grande pregio di riaprire lo scambio, il percorso città campagna e campagna città, ridare valore al cibo, ridare abitabilità all’urbano. A Milano si farà nel 2015 un’Expo sul tema “nutrire il pianeta, energie per la vita”; proponiamo di progettare eventi che promuovano una nuova merce espressione di una cultura del cibo che può contribuire a ridurre obesità e fame, non c’interessa progettare pesci quadrati.