A Berlino va di moda il sirtaki

Una Grecia in stato di necessità sull’orlo del crac finanziario e una Germania che ha rinunciato al nucleare stabiliscono una joint venture per produrre energia pulita. La Germania ci mette i soldi, la Grecia i propri terreni demaniali per realizzare parchi solari che producano energia anche per la Germania. Siamo all’alba di una nuova colonizzazione economica in Europa, che altri Paesi potranno seguire? Cosa potrebbe accadere al nostro Paese, il cui debito è ampiamente superiore a quello greco?

Dopo tre anni di crisi economica la Grecia è prostrata fino ad essere prossima alla bancarotta. Talmente prossima che forse non sarà in grado nemmeno di pagare gli stipendi di ottobre ai dipendenti pubblici. Al centro della bufera della crisi dell’Eurozona ed oramai strangolata dal debito pubblico, Atene per reagire ha deciso di puntare anche su un consistente piano di sviluppo del fotovoltaico in grado di attirare dall’estero decine di miliardi di investimenti. L’approvvigionamento energetico è da sempre al vertice degli interessi dei Paesi industrializzati e, complici la debolezza ellenica e i mutati programmi tedeschi sull’energia, Berlino ha pensato bene di cogliere al volo quella che appare un’interessante occasione.

L’obiettivo delle rinnovabili tedesche

L’effetto Fukushima ha pesantemente influito sul futuro energetico germanico, portando alla rinuncia dell’energia nucleare, sia pure diluita nel tempo. Una svolta, però, per la quale è indispensabile che le energie verdi raggiungano entro il 2020 la copertura del 35% del fabbisogno energetico.

A sostegno dell’addio al nucleare a favore delle energie pulite ci sono gran parte dei tedeschi. Secondo un sondaggio promosso dall’istituto Tns Infratest, il 94% dei cittadini tedeschi considera importante la costruzione degli impianti e delle infrastrutture necessarie e addirittura il 65% del campione si dichiara disponibile a ospitare le strutture nelle proprie vicinanze. Un risultato sorprendente, viste le tante proteste nate negli ultimi anni un po’ ovunque in Germania, anche contro la costruzione di impianti connessi al settore delle rinnovabili. Intendiamoci, non è tutto rose e fiori. La Green economy tedesca sconta, come in Italia, una certa avversione dell’industria. La tassa, pari a 35 euro per MegaWattora che le aziende sono costrette a pagare per finanziare il passaggio alle rinnovabili, non è visto di buon occhio dagli imprenditori, dato l’alto costo dell’energia per le imprese, giunto anche nel cuore dell’Europa a livelli critici. Tuttavia, il percorso che condurrà la Germania fuori dall’era dell’energia nucleare comincia a prendere forma. Secondo i dati dell’Associazione federale dell’Energia, riferiti ai primi sei mesi del 2011, per la prima volta la produzione energetica da impianti per fonti rinnovabili ha superato la soglia del 20%. Primeggia l’eolico, con il 7,5% di energia prodotta, seguita dalle biomasse (in leggera crescita al 5,6%) e dal fotovoltaico, il cui contributo, nonostante le difficoltà finanziarie di alcune importanti imprese, è cresciuto dal 2 al 3,5%, superando quello idroelettrico sceso al 3,3%. “Grazie a robusti sostegni, la Germania ha conosciuto nel 2010 rispetto ad altri Paesi europei un forte impulso alla costruzione degli impianti fotovoltaici” ha scritto il settimanale Zeit. L’obiettivo del 35% dell’energia da fonti rinnovabili entro il 2020 appare però ancora lontano e quindi urgono nuove iniziative. Ecco allora il “Progetto Helios”, con il quale parte dell’elettricità prodotta con il sole greco andrà in Germania per contribuire a colmare il vuoto lasciato dal nucleare. Gli esperti climatici stimano che l’Europa meridionale possa contare su 2000 ore di sole all’anno, contro le 800 della Germania, e il tedesco Günter Oettinger, commissario europeo all’Energia, ha affermato che “il commerciante consiglia di piazzare i pannelli solari laddove il sole splende”, precisando a proposito della Grecia che “Olive e formaggio di pecora non rappresentano una produzione sufficiente per rimettere in moto l’economia”. La mancanza di tatto è evidente, ma come suol dirsi gli affari sono affari e non si può sempre curare la forma…..

La joint-venture greco-tedesca nel fotovoltaico

Il “Progetto Helios”, nato direttamente da colloqui tra il governo greco e quello tedesco, è stato annunciato un mese fa dagli ellenici con una conferenza stampa tenutasi non a caso ad Amburgo. I capitali arriveranno, per l’appunto, soprattutto dalla Germania, leader mondiale del settore fotovoltaico. Il piano prevede di moltiplicare la capacità fotovoltaica installata in Grecia dai 206 MegaWatt attuali a 2.200 MegaWatt nel 2020 per arrivare a 10.000 MegaWatt nel 2050, grazie a capitali esteri attratti dalla garanzia di condizioni particolari e dall’export di elettricità pulita. In altri termini, saranno messi a disposizione terreni demaniali (ad esempio cave abbandonate o basi militari) per realizzare parchi solari senza vincoli amministrativi, in cambio di investimenti pari a 20 miliardi in 10 anni. Insomma, una corsia preferenziale per attrarre nella disastrata economia greca capitali esteri e far fruttare a pieno il potenziale solare del Paese. Che il progetto stia a cuore a Berlino è dimostrato dall’arrivo ad Atene due mesi fa del segretario di Stato del ministero dell’Economia tedesco, Stefan Kapferer, e del presidente della Confindustria teutonica Markus Kerber. Il progetto sembra infatti vantaggioso soprattutto per i tedeschi. Da un lato il fotovoltaico è tra i settori più promettenti dell’economia greca, tant’è che l’associazione greca del fotovoltaico, Helapco, ha previsto che con le nuove installazioni nel 2011 si potrebbero raggiungere complessivamente i 500 MegaWatt, 10 volte il valore del 2009. Dall’altro lato, se gli investimenti esteri contribuiranno al risanamento delle casse di Atene, Berlino beneficerà di incentivi estremamente generosi – in media 400 euro per MegaWattora secondo Bloomberg New Energy Finance – e potrà garantirsi la fornitura di elettricità pulita, dando uno sbocco alla sua forte industria fotovoltaica.

Berlino ha intrapreso la via “coloniale”?

È chiaro che quella descritta rappresenta per l’economia greca un’operazione di contorno rispetto ai pesanti interventi di contenimento della spesa pubblica fin qui effettuati dal governo di Atene. Pesanti e probabilmente insufficienti. Mark Weisbrot del Center for Economic and Policy Research (CEPR) di Washington, ad esempio, è decisamente pessimista e avverte che se la Grecia continuerà su questa china rischierà di saltare da una crisi all’altra, mentre 12 milioni di cittadini rischieranno la povertà. Le responsabilità politiche dei governi greci che negli ultimi decenni si sono alternati alla guida del Paese, riconducibili per lo più alle due più potenti famiglie greche, sono indiscutibili e meritano uno spazio a parte per essere illustrate come meritano. In questa sede però ci preme porci altre domande: quella tra greci e tedeschi è una joint-venture o invece è il preludio a una politica interventi economici “coloniali” di Berlino? E se così fosse altri potrebbero fare altrettanto in giro per il Vecchio Continente? Le domande sono meno peregrine di quanto si potrebbe credere e non occorre pensare alla provocazione dei finlandesi che hanno “invitato” gli ellenici a ripianare il debito anche vendendo il Partenone. In condizioni di grave fragilità economica governi dal fiato corto tendono ad applicare una politica non certo lungimirante. Lo stato si accolla – direttamente e indirettamente – il debito estero privato, il settore privato continua a indebitarsi, lo stato svende le sue attività privatizzandole – generando rendite per le società private – e scarica sull’intera economia l’impossibile pagamento del debito tagliando gli investimenti pubblici e le spese sociali. La questione ci riguarda da vicino visto che Roma ormai non pare più così lontana da Atene. Lo stato di salute dei nostri conti è sotto gli occhi di tutti, il debito italiano è enormemente superiore a quello che causò il default argentino e, come riportò Tito Livio duemila anni fa, “mentre a Roma si discute, Sagunto viene espugnata”. C’è chi sconsideratamente parla di privatizzare anche le quote pubbliche delle nostre società più appetibili: Finmeccanica, Eni, Enel…. In realtà le privatizzazioni possono dare un contributo, ma è fondamentale stabilire “cosa” privatizzare e “come” farlo. Le privatizzazioni immobiliari effettuate 10 anni fa diedero esiti economici infelici e la storia ci rammenta quanto sia importante per la crescita di un Paese disporre di operatori energetici dalle spalle larghe (Mattei docet….). Ora occorrono scelte politiche incisive per aggredire il debito pubblico: lotta (reale) all’evasione fiscale, sburocratizzazione del Paese (i bizantini al nostro confronto erano dei dilettanti…), sostegno alla crescita e taglio delle spese improduttive (della soppressione delle province ormai neanche si parla più). Il passato e il presente di altri Paesi dovrebbero insegnarci a non commettere l’errore di credere che politiche liberiste indiscriminate possano risanare l’economia. Sono improduttive per le casse pubbliche, ma tanto redditizie per coloro che sono capaci di dettare le regole del gioco: banche, squali della finanza e stati pronti a cogliere opportunità “coloniali”.