Basta con i superpremi ai top manager

Addomesticare il capitalismo

di Lapo Berti –

Qualcosa si muove. Dopo che per anni abbiamo assistito attoniti a supermanager remunerati con stipendi e premi esorbitanti, anche quando erano responsabili di disastri economici, si comincia a correre ai ripari. Prima la Svizzera, poi l’Unione Europea, infine la Germania, stanno tentando di introdurre tetti alle retribuzioni e ai premi che possono essere erogati al top management di imprese industriali e banche e, addirittura, come in Svizzera, di eliminare la possibilità che siano i manager stessi a stabilire l’entità dei loro guadagni. Sono passi ancora timidi, ma il problema è sul tappeto. Se vuole sopravvivere, il capitalismo deve riformarsi

50 milioni di euro di buonuscita per il numero uno di Novartis: basta!

Il 3 marzo gli svizzeri hanno approvato con il 67,9% dei voti – e un sì di tutti i cantoni, evento assai raro – l’Iniziativa Minder, il referendum di iniziativa popolare “contro le remunerazioni abusive” dei top manager. L’intento è quello di consentire agli azionisti delle imprese quotate in borsa una maggiore influenza sulle retribuzioni dei membri dei consigli di amministrazione, evitando retribuzioni spropositate e abusive. Il Governo di Berna ha un anno di tempo per inserire, nella costituzione svizzera, la nuova normativa, così come è uscita dalle urne. In sostanza saranno vietati i cosiddetti “paracaduti dorati” per i manager in partenza, i premi di benvenuto per i nuovi arrivati, nonché le indennità di intermediazione, erogate, in caso di acquisto di un’azienda, da parte della concorrenza. Tutto ciò diventa proibito, con il rischio di una condanna a tre anni di carcere, per chi viola la legge.

La UE sta discutendo una norma simile limitata al settore bancario. Lo scorso 5 marzo la riunione del Consiglio dell’Ecofin non è riuscita a vararla in via definitiva per l’opposizione della Gran Bretagna, ma da Bruxelles assicurano che il progetto andrà avanti. Il compromesso raggiunto tra la presidenza del Consiglio europeo e il Parlamento prevede che le gratifiche ai super manager bancari non possano superare lo stipendio annuo o che, in via eccezionale, possano raggiungere il doppio, ma solo con una delibera esplicita degli azionisti. Il voto del Parlamento europeo dovrebbe arrivare intorno alla metà di aprile. I britannici sono impegnati in un furioso pressing per ammorbidire le norme, ma il Parlamento europeo sembra determinato a non modificarle sostanzialmente. Le nuove regole dovrebbero entrare in vigore con il 1° gennaio 2014.

Nel frattempo, anche la Germania di Angela Merkel sta studiando la possibilità di introdurre per legge un tetto alle retribuzioni dei top manager sul modello della Svizzera. Sarà un tema caldo della prossima campagna elettorale. Qualcosa, infine, si fa anche in Italia, anche se siamo semplicemente al livello della moral suasion portata avanti dalla Banca d’Italia che, con una comunicazione del 2 marzo scorso, esorta le banche, specialmente quelle più deboli dal lato patrimoniale, a contenere i livelli delle remunerazioni e, soprattutto, a tagliare i premi ai top manager.

Insomma, il vento di una crescente insofferenza nei confronti delle retribuzioni e dei premi esorbitanti accordati ai top manager si fa sentire un po’ dappertutto. All’origine di questi interventi c’è la convizione, ampiamente diffusa e condivisa, che le remunerazioni elevate incoraggiano i banchieri ad assumersi rischi eccessivi a spese del futuro a lungo termine delle loro attività, come sarebbe avvenuto con la crisi finanziaria del 2008. C’è, inoltre, la volontà di evitare che i contirbuenti siano ancora costretti a pagare per i salvataggi delle banche. Una prima mossa in questa direzione l’ha compiuta Obama nel 2009, proponendo un tetto di 500.000 dollari alla retribuzione dei manager appartenenti a istituzioni finanziarie che erano state salvate con i soldi dei cittadini e chiarendo che questo era solo il primo passo.

Gli svizzeri contro le “remunerazioni abusive”

L’iniziativa svizzera è particolarmente importante e significativa per almeno due ragioni. In primo luogo, si tratta di un’iniziativa popolare, che si è mossa contro il parere del Consiglio federale e avendo contro praticamente tutte le rappresentanze del mondo imprenditoriale. Fra i partiti, solo i socialisti, i verdi e i cristiano-sociali hanno dato il loro appoggio all’iniziativa. In secondo luogo, l’iniziativa, è bene sottolinearlo, si propone di porre un limite generale alla retribuzioni dei top manager, non solo ai premi e alle gratifiche, com’è nel caso dell’iniziativa comunitaria. Il punto chiave, infatti, è che dovrebbe essere l’assemblea generale dei soci Il significato di questa iniziativa popolare e il suo successo, dunque, sono indicativi di un cambiamento di clima che potrebbe avere rilevanti conseguenze sugli scenari politici dei prossimi anni qualora si estendesse fino a coinvolgere altri paesi. Appare chiaro che anni di scandali che, in tutto il mondo, hanno coinvolto i vertici delle grandi imprese e, soprattutto nel mondo bancario e finanziario, accompagnandosi non di rado a disastrosi risultati di gestione che sono stati fatti pagara, invariabilmente, ai cittadini e ai dipendenti, hanno creato un clima sociale di grande attenzione e di forte avversione nei confronti di queste degenerazioni del capitalismo. Dei movimenti Occupy che qualche tempo fa riempivano le piazze di mezzo mondo non si sente più parlare, ma, evidentemente, i sentimenti e le opinioni da cui essi prendevano le mosse hanno messo radici profonde nelle società del mondo capitalistico.

Europa: avanti piano

Il progetto comunitario, oltre al tetto alle gratifiche dei supermanager, prevede anche un regime di rigorosa trasparenza con qualche concessione per attenuare gli effetti della più severa stretta sulle retribuzioni dallo scoppio della crisi finanziaria nel 2008.

L’iniziativa ha subito provocato un coro di vibrate proteste in Gran Bretagna da parte delle forze, come i tories, più direttamente legate agli interessi della City of London e del mondo bancario e finanziario, anche se non mancano correnti di opinione che guardano con favore a norme che taglino le unghie ai banchieri. Molti elettori, anche tory, vedono ormai nel meccanismo delle gratifiche un modo per appropriarsi dei guadagni e scaricare sugli altri le eventuali perdite. Gli ambienti della City parlano con preoccupazione di un attacco proditorio all’industria più preziosa del paese, dietro cui vedono la gelosia di Francia e Germania per il primato della City come centro finanziario mondiale. Boris Johnson, sindaco di Londra, afferma che “questa è la misurai più illusoria da quando Diocleziano tentò di fissare i prezzi per tutte le drogherie dell’impero romano”. Cameron corre ai ripari e proclama che starà bene attento a che la nuova regolamentazione in gestazione a Bruxelles non metta in alcun modo in discussione quel primato. Il Financial Times, più realisticamente, ha pubblicato un’ipotetica lettera a un superbanchiere in cui gli si comunica una variazione contrattuale e gli si spiega come i vincoli posti dalla nuova regolamentazione bancaria comunitaria possono essere tranquillamente aggirati, in modo che “non ci sia alcuna differenza materiale, in termini economici, fra il vecchio e il nuovo contratto”.

Riformare il capitalismo, addomesticare la finanza

Qualunque siano gli esiti dell’iniziativa elvetica e di quella comunitaria, ormai il problema è posto e, almeno per un po’, nessuna agenda politica potrà fare a meno di prenderlo in considerazione. Il capitalismo, questo capitalismo che ci ha portato agli esiti disastrosi della crisi finanziaria globale, precipitandoci in una recessione che per molti paesi continua a essere un incubo, ha bisogno urgente di riforme profonde, che lo riportino in linea con le esigenza e il modus operandi di una società democratica. E la prima è quella di domare una finanza globale che opera in larga misura al di fuori di qualunque giurisdizione ed è, quindi, nella condizione di accumulare ricchezza e di deciderne l’impiego senza dover rispettare nessuna norma, nessun vincolo, senza rispondere a nessuno, se non alle logiche di un’oligarchia globale che si è venuta formando nella seconda metà del secolo scorso al riparo degli occhi indiscreti della trasparenza democratica.

Non è un problema di facile la soluzione. Per più di un secolo, a partire dall’approvazione della prima legge antitrust negli Stati Uniti, nel 1890, si è cercato di porre un argine agli eccessi del potere economico attraverso il controllo affidato ad agenzie indipendenti. I risultati non sono stati entusiasmanti. Certo, non hanno risolto il problema, anche se, forse, sono riusciti ad arginarlo. Ma oggi il problema è riesploso in tutto la sua virulenza. Una finanza lasciata a se stessa si è resa responsabile di disuguaglianze economiche e, quindi, sociali, che mai si erano viste e che pongono seri problemi di tenuta della coesione sociale e di legittimazione della democrazia. L’esistenza di un potere economico, specialmente finanziario, organizzato in forma oligarchica a livello globale rende dubbia l’autonomia dei governi, anche di grandi paesi, come gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, che si trovano per lo più a subire la pressione dei “mercati” finanziari (leggi: di pochi, ristrettissimi centri decisionali). Tutto questo avviene, in assenza di regole e di sanzioni, al di fuori di qualsiasi giurisdizione.

La fissazione di tetti alle retribuzioni dei top manager non risolve il problema, ma serve a porlo. Serve ad attrarre l’attenzione pubblica su temi che appaiono lontani e rarefatti, ma condizionano la nostra realtà quotidiana e determinano l’ambito delle nostre scelte. I livelli di disuguaglianza economica che un capitalismo finanziario privo di regola sta generando sono ormai intollerabili dal punto di vista sociale. Lo stanno diventando anche da quello politico per i divari di potere che stanno producendo. Finché nelle agende dei partiti occidentali che si pretendono riformatori non entrerà un intervento normativo, anche di rango costituzionale, che riporti il potere economico nell’alveo di un sistema dei poteri fondato sulla loro separazione e il loro bilanciamento, la democrazia resterà sospesa e continuerà a pendere il rischio di una sua estinzione sostanziale, ancorché coperta da riti ormai puramente formali come le elezioni politiche e la dialettica parlamentare.