La società di mezzo

FOTO DI REPERTORIO©LAPRESSE03-01-12 ItaliaParlamento, stipendi più alti d'Europa

Ascesa e declino dei corpi intermedi senza riforme

La crisi devastante della rappresentanza è, in primo luogo, crisi del sistema dei partiti ovvero di quegli organismi cui la democrazia rappresentativa ha affidato il compito difficile e delicato di raccogliere e di comporre gli interessi che vivono e configgono nella società. Ma è anche, e forse soprattutto, crisi di quei corpi intermedi dalle forme e funzioni le più variegate che della rappresentanza sono il motore, ma anche la linfa vitale, perché fanno in modo che la rappresentanza non sia formale, ma abbia radici e legami reali con i territori e con chi li abita e li vive. Senza una società di mezzo viva e vitale è molto difficile, se non improbabile, che una democrazia possa sopravvivere e che un paese sia davvero in grado di governarsi. Uno stimolante intervento di Aldo Bonomi su questo tema cruciale

Oscilla veloce il pendolo che parte dalla storia locale e dal territorio. Vent’anni fa, nel fine secolo, era tutto dalla parte delle autonomie locali, istituzionali e di rappresentanza. Oggi, all’opposto, più che scandire il tempo di un equilibrio tra centro e periferia, sembra una lama che sorvola e taglia tutto ciò che sta in mezzo. Con una costante: la crisi della politica. Prima alla ricerca dell’isola non trovata del federalismo, oggi in cordate sparse per scalare il debito pubblico e la montagna incantata che porta a Bruxelles e a Francoforte. Poi ci si meraviglia del nascere dei neopopulismi. Il cui vero antidoto è pre-politico. Non sta nel scegliere con furore iconoclasta una delle due polarità: o Bruxelles e la Banca Europea o il localismo rancoroso. Ma nel difendere e ricostruire società di mezzo. Quello spazio intermedio che sta tra i flussi della crisi e della globalizzazione e i luoghi, tra la simultaneità delle reti e delle economie aperte e le prossimità dei processi territoriali, tra la dimensione liquida, per dirla con Bauman, della riforma del Titlo V, della riforma elettorale e dei cinguettii che sostituiscono lo spazio pubblico e ciò che resta sul territorio: lavoro, imprese, povertà e forme di convivenza.
So bene che così ragionando, ci si ritrova a difendere ciò che può apparire indifendibile, vecchio e superato. Dai piccoli comuni alle comunità montane, sino alle province e alle regioni, alle forze sociali con la loro crisi di rappresentanza dei lavori e dell’impresa danzano immobili nel concordare i vertici delle Camere di Commercio, spesso inoperose sui territori, sino a quelle reti nodali che sono le infrastrutture della logistica. Piaccia o non piaccia la questione di fondo è in primis se vogliamo o meno una società senza dimensione intermedia tra economia e politica, unite in alto, e la società in basso. Poi per tutti i soggetti della società di mezzo appare la sfida dell’autoriformarsi perché ce n’è bisogno, eccome c’è ne bisogno.
I piccoli comuni polvere sono luoghi di presidio territoriale contro l’abbandono, lo spaesamento. Nella contemporaneità anche un luogo di un nuovo abitare dei ritornanti alla montagna, all’agricoltura del margine. Certo non possono più sopravvivere senza mettere in comune servizi, rivitalizzando così quelle aree montane del paese che non sono più marginali, ma centrali. Penso alle Alpi e alla Convenzione delle Alpi Europee e all’Ape (Appennino Parco d’Europa). In questo scenario ha senso riparlare di comunità montane o comunità di valle come in Trentino.
Più delicato il tema che viene da lontano, dall’impianto napoleonico delle province, delle prefetture, ognuna con una sede della Banca d’Italia. Nessuna difesa di Napoleone ai tempi della globalizzazione. Ma il tema della dimensione meso dei territori si pone proprio perché nella globalizzazione si compete anche con piattaforme territoriali che per ciò che riguarda l’Italia sono frutto della condensa del capitalismo diffuso e dei distretti che sono andati ben otre il localismo. Un nuovo equlibrio tra contado e città andrà pur trovato nel rapporto non semplice tra le tante, troppe, istituzionalizzate aree metropolitane e il territorio. Va chiusa la forbice tra uno spazio di posizione regionale in grado di essere motore di smart land che interagisce con la smart city regionale e uno spazio di rappresentazione che porta Maroni a teorizzare la macroregione del Nord, la Serracchiani a guardare la macroregione danubiana, Spacca a quella Adriatica e via andando con il Sud del Sud vicino al default e passando per Roma Capitale, che non sta meglio.
In questo scenario si fa complicata anche la rappresentanza e la canalizzazione degli interessi del lavoro e dell’impresa. Anche le rappresentanze sono in metamorfosi, con le loro strutture organizzate nel Novecento per canne d’organo settoriali e fordiste su base provinciale e tavoli romani ove negoziano più che risorse, tagli. Delegittimati in basso da quelli che non ce la fanno più, che scelgono i forconi, non in grado di rappresentare il non ancora dei lavori, delle nuove professioni, dei makers e di imprese piccole e medie che, ancorate alle piattaforme territoriali, partono e tornano nella simultaneità dei flussi globali. Tendenze e dati che ben conoscono, perché sono un patrimonio di conoscenza che è alimentato dal sistema camerale grazie alle sonde territoriali che sono le Camere di Commercio. Che sarà il caso di non usare solo come micropotere locale ove negoziare a scadenza la presidenza, ma da rivitalizzare come spazio della democrazia economica. Se ha senso questa parola non sarebbe male pensare all’elezione diretta del Presidente dalla Camera di Commercio da parte degli associati. Sin questo senso proprio in relazione alle logiche territoriali delle piattaforme e delle aree vaste per competere anche le camere dovranno accorparsi in un nuovo disegno territoriale in grado di accompagnare i processi di internazionalizzazione, con reti adeguate.
Più che un microcosmo è un dolente cinguettio rivolto alla società di mezzo perché cambi, prima che la cambino dall’alto. Spero lo leggano anche Ermete Realacci, che su Europa del 9 gennaio, annunciando che sarà l’anno europeo della green economy, sostiene che «la nostra economia ha come retroterra un intreccio molto speciale tra identità dei territori, coesione sociale e sfide globali». Il ministro Del Rio che nel suo libro “Città delle persone. L’Emilia, l’Italia e una nuova idea di buongoverno” tratteggia chiaramente il valore e l’evoluzione delle comunità locali. E perché no, anche Renzi, che nel suo Job Act sostiene giustamente essere il lavoro non solo questione dei giuslavoristi, ma dei processi di sviluppo che partono dal territorio e dalle imprese. Concordo, il lavoro che verrà, viene dal territorio in cambiamento, non dal deserto.

Tratto da “Microcosmi”, Il Sole 24 Ore, 19 gennaio 2014