Taranto: Green Road e acciaio
di Aldo Bonomi –
Taranto è oggi uno dei simboli emblematici della difficile fase che stiamo attraversando. Un modello economico, quello della grande fabbrica che dà lavoro a migliaia di persone si scontra con una nuova sensibilità, quella ambientale, ed entra in crisi. Le risposte sono tutte difficili, ma vanno cercate e perseguite in tutti i modi. Da qui passa la possibilità di costruire un futuro che recuperi la misura dell’uomo, con un capitalismo che finalmente incorpori il senso del limite.
Condivido il ragionare di Alessando Laterza, vicepresidente di Confindustria incaricato per il mezzogiorno, che sul Sole 24 Ore del 19 agosto ci ricorda che «l’emergenza ambientale della più grande acciaieria di Europa va affrontata nel contesto di un’area vasta che ricomprenda l’apparato industriale». Mi son detto subito, vagli a parlare di area vasta a chi vive la prossimità del quartiere Tamburi dove si accumulano le polveri pesanti dell’Ilva. Ti prende l’imbarazzo di colui che scrive, senza viverlo, del dilemma del prigioniero di una città, di un territorio, che la storia industriale del nostro paese pone di fronte alla scelta drammatica tra lavoro, salute, questione sociale. Prima di inoltrarsi nelle colline ioniche che circondano Taranto, di guardare il mare oltre le ciminiere, di ragionare del porto, dell’università e del museo della Magna Grecia citati da Laterza come volani possibili di una smart city che verrà, dico all’amico Alessandro: è opportuno riconoscere e riconoscersi nella ovvia costatazione che se avessimo tutti guardato ben prima all’area vasta e visitato il museo della Magna Grecia, probabilmente a nessuno sarebbe venuto in mente di collocare e di volere l’Italsider come una città nella città nel golfo di Taranto. Così procedeva il rullo compressore del fordismo nel 900, in simbiosi tra fabbrica e lavoro, Stato imprenditore e classe operaia, non solo al sud. Basti citare Porto Marghera a Venezia, la Eternit a Casale Monferrato sino all’Icmesa a Seveso. Che avrebbero dovuto insegnare almeno a mitigare l’impatto della città fabbrica senza arrivare all’oggi in cui da simbiotici, fabbrica lavoro e città, sono diventati sincretici. Ho fatto questa premessa, proprio perché condivido la proposta eterotopica di un progetto territoriale di area vasta che ricomprenda l’apparato industriale dell’Ilva in funzione in base all’AIA (Autorizzazione Integrata Ambientale) del ministero dell’Ambiente. Quella del ministro Clini è l’unica proposta sensata che eviti il “suicidio” dato nel dilemma del prigioniero. Purché non nasconda sotto le polveri dell’Ilva controllata e risanata e in produzione alcune riflessioni che il caso Taranto comunque pone. Che ne è e cosa ne sarà del nostro apparato industriale fordista? Visto che quello Torinese pare sempre più americano e che nella vicina Pomigliano è stata sospesa la produzione per 15 giorni, non vorrei che venisse a morire a sud lasciandoci con il cerino in mano dell’Ilva. A sud ove è più urgente che altrove porre il tema di uno sviluppo compatibile tra hard economy e soft economy. Avendo chiaro che l’economia dei servizi o il turismo non produrranno mai i grandi numeri del fordismo. Sull’asse Napoli-Taranto oltre all’Ilva, a Melfi e a Pomigliano su cui riflettere, c’è il che ne sarà del risanamento e riuso di Bagnoli, dell’industria del petrolio in Basilicata con la sua raffineria a Taranto e, come non bastasse, il dibattito che si è già aperto sull’alta velocità in progettazione che collegherà Napoli e Bari. Penso che ci aspetti una stagione di mediazione e compatibilità tra hard e soft economy. Questo significa in primo luogo per imprese e sindacato confrontarsi in una dialettica che oltre agli interessi e alla coscienza di classe incorpori la coscienza di luogo. Se non vogliamo ritrovarci di fronte a comunità locali spaccate tra lavoro e salute, tra sostenitori del diritto al lavoro e dell’impresa e sostenitori dei giudici vissuti come ultima istanza possibile. Se vogliamo ragione di “Taranto smart area” questo significa ricollocare un ciclo compatibile dell’acciaio nella metamorfosi della green economy. Molto dipenderà dalla maturità sociale ed economica della coscienza di luogo dell’area vasta a cui fa riferimento Laterza. Dalla sua capacità, partendo da Martina Franca, da Grottaglie, di circondare di progetti possibili la città fabbrica e le sue ciminiere. Che si vedono dalle colline ioniche dove undici comuni che fanno da corona a Taranto, partendo da Crispiano, passando per Grottaglie arrivando al mare a Pulsano, nell’ambito di un Gal, Gruppo di Azione Locale con finanziamenti europei, lavorano alla costruzione di una Green Road. Collegando cento masserie, molte già attive altre da immettere nel ciclo di un agriturismo di eccellenza con ristorazione a chilometro zero e immerse in un tessuto agricolo robusto di produzione di uva da tavola, olio e vino di qualità. Alla masseria del Duca c’è pure la centrale a biomasse alimentata dai residui degli ulivi e della vite. Una Green Road che incorpora anche il microdistretto delle ceramiche di Grottaglie e si mette in mezzo tra la vivace Martina Franca e Taranto. Nell’area vasta si discute di energie alternative, di turismo e agricoltura di qualità portando sino alle soglie di Taranto un modello di sviluppo che in Puglia ha contaminato il Salento e non solo. Negli undici comuni ci sono 8.159 aziende agricole che, tra conduttori, familiari e mano d’opera, fanno più di 20mila addetti. Ci sono 1.126 imprese artigiane di cui 409 concentrate a Grottaglie. Numeri che cito non in alternativa ai 12mila dell’Ilva e ai 20mila del suo indotto, ma per ragionare assieme del progetto di Taranto smart area. Solo da una visione che tiene assieme la green road degli ulivi con la storia industriale di Taranto sarà possibile pensare a un futuro da smart city nella green economy che viene avanti. A volte dal dramma e dai conflitti laceranti può nascere la speranza. Di questi tempi ne abbiamo bisogno
Tratto da “Microcosmi”, Il Sole 24 Ore, 2 settembre 2012