La schiavitù non è finita

Che la schiavitù non sia finita nel nostro Paese ce lo racconta il libro di Sara Manisera “Racconti di schiavitù e lotta nelle campagne”, pubblicato da Aut Aut Edizioni nel mese di settembre 2019.  E’ la storia di un viaggio che inizia d’estate e si conclude a primavera, un viaggio nelle campagne della nostra penisola a contatto con uomini e donne resistenti. Un viaggio che parla di diritti negati e di sfruttamento di uomini e natura, ma anche di iniziative coraggiose e silenziose che provano a coniugare tutela dell’ambiente e dignità degli uomini, di lavoratori. Un viaggio pieno di verità scomode nella nostra società “civile” tra ipocrisie, indifferenza, razzismo, omologazione e impegno sociale e civile, individuale e collettivo. Un viaggio che vuole condurci oltre la superficialità con cui si parla di “migrazione” e di “migranti”, di uomini e donne che vengono da lontano. LIB21 ha organizzato un incontro con l’autrice per la presentazione del libro che si svolgerà a Roma il 13 gennaio 2020 alle ore 18.30 presso la Libreria L’Altracittà in Via Pavia 106.
Ho conosciuto Sara Manisera, partecipando ad un incontro presso la Comunità di Romena nella fascinosa terra del Casentino. Sara era stata invitata a raccontare la sua esperienza e il suo impegno di giornalista freelance, che raccoglie testimonianze e storie di vita reale, difficili, anche andando in zone di guerra.
Di lei mi ha colpito subìto la luce che emanavano i suoi occhi azzurri, accesi, appassionati, consapevoli, non privi di un velo di malinconia, tipico di chi vive una realtà difficile e tocca con rispetto quella degli altri. E’ quello sguardo più di tutto che mi ha spinto a leggere il libro che aveva appena pubblicato. Filtrato da quello sguardo e dalla sua sensibilità, “Racconti di schiavitù…” è un viaggio in una realtà che è sotto i nostri occhi, ma che si preferisce non guardare e non raccontare per quella che è. Sara guarda la realtà delle nostre campagne e degli immigrati che le popolano (” Tutto ciò che di agricolo mettiamo sulla tavola è prodotto da mani straniere“) senza pregiudizi e la racconta in maniera semplice e diretta, prestando il suo sguardo e la sua penna a ciò che si presenta dinanzi ai suoi occhi e accogliendo le parole che ascolta dai diretti interessati. La verità non ha bisogno di altro, basta descriverla.
I braccianti agricoli immigrati parlano delle loro storie personali, della loro quotidianità, delle loro condizioni miserevoli e umilianti, ma usano spesso parole di dignità e di speranza, parlano di sé, dei loro sogni spezzati, come farebbe qualsiasi essere umano. La razza umana è una, una soltanto e nelle loro parole risuonano speranze antiche e nuove, comuni a tutte le epoche e a tutte le latitudini. Parlano di sé, ma in realtà parlano molto anche di noi, di come eravamo, di come e di cosa siamo diventati.
Nel libro c’è il tentativo di rintracciare una memoria smarrita, percorrendo un viaggio a ritroso, dal presente al passato. Attraverso un viaggio scandito dall’alternarsi delle stagioni – dall’estate alla primavera – Sara attraversa baracche e container, agrumeti e latifondi, borghi e città, da Nord a Sud, dalla Puglia al Piemonte, dalla Sicilia alla Calabria, nei momenti del raccolto di mele, pomodori, agrumi. Incontra uomini e donne che lavorano, che lottano per vivere, che subiscono lo sfruttamento economico, l’azzeramento dei propri diritti, l’impossibilità di disporre di un alloggio dignitoso,  di una sicurezza minima di trasporto, di orari di lavoro accettabili, di tutte quelle forme di tutela minima per le quali in decenni passati ci si è lungamente battuti proprio nelle medesime campagne.
Nell’introduzione Sara stessa dichiara l’intento del libro, che non vuole essere né un’inchiesta, né un romanzo, ma una “raccolta di storie di vita reale… di un mondo che realmente esiste”. E’ una narrazione diversa, è semplice e autentica perché proviene direttamente da coloro che questa realtà la vivono. Nulla viene interpretato, manipolato, trasformato. Sara vuole anche ridare un peso alle parole usate, perchè le parole hanno un peso. Non vuole utilizzare la parola “migranti”, ma “lavoratori”, perché nel suo viaggio ha potuto cogliere che dietro quel generico  e anonimo “migranti” si celano storie, sacrifici, lotte per cercare un lavoro, migliorare la propria vita o garantire ai propri figli un futuro migliore, come qualunque essere umano, padre o madre, farebbe. Perciò ogni storia è diversa da un’altra, perchè ogni persona è diversa da un’altra. C’è chi fugge dalla guerra, dalla carestia, dalla siccità, chi si allontana per motivi religiosi o politici, chi vuole studiare, chi vuole viaggiare. Ciò che accomuna queste storie è sempre lo sfruttamento del lavoro, non la miseria, ma la disumanità, determinata da un sistema agroalimentare, che trasforma in merce il bene più prezioso – il cibo – e posiziona il profitto prima del rispetto dell’uomo e dell’ambiente.
Alla fonte della sfruttamento ci sono la Grande Distribuzione Organizzata e le multinazionali, che fissano regole e prezzi insostenibili a monte della catena agroalimentare, scaricando sull’anello più debole – i braccianti agricoli – la riduzione dei costi.
La necessità impellente dei soldi, le richieste del paese di origine, la precarietà di una vita appesa al permesso di soggiorno, ad un pezzo di carta espongono queste persone allo sfruttamento, che li porta a rischiare anche la vita sulle strade per raggiungere i luoghi di lavoro, nei campi, nelle industrie e nel Mar Mediterraneo.
A noi viene offerta la possibilità di pagare pochi euro una passata di pomodori senza nemmeno doverci chiedere chi ha pagato la differenza e senza preoccuparci della qualità del cibo di cui ci nutriamo. Il sistema capitalistico neoliberista, che punta a massimizzare i profitti e a ridurre i costi, ha ridato vita a nuove forme di schiavitù, che sfruttano l’uomo e l’ambiente, eliminando la varietà presente in natura, la stagionalità e la qualità dei prodotti della terra. Chi paga questa differenza di costi? Chi paga gli effetti di un sistema agroalimentare contro natura?
Sono queste persone che pagano la differenza dei costi, noi non lo sappiamo o meglio non vogliamo neanche saperlo. Lasciamo che questi lavoratori stranieri vivano rinchiusi in ghetti maleodoranti e disumani, in baraccopoli che uno Stato civile non dovrebbe ammettere, occupandosi direttamente del problema, visto che di queste persone abbiamo bisogno. Eppure, nonostante essi vivano e lavorino in Italia, non hanno il diritto di risiedervi. Per avere il permesso di soggiorno bisogna avere il lavoro e la residenza, ma per avere la residenza bisogna avere un alloggio. E quindi la residenza spesso è nella baraccopoli. ” L’obbligo di avere e la difficoltà di ottenere il permesso di soggiorno consegna centinaia di migliaia di esseri umani nelle mani sporche di sangue di traghettatori per terra e scafisti per mare”, così come consegna, una volta arrivati , “migliaia di clandestini nelle mani di datori di lavoro nero, di sfruttatori di prostituzione, di proprietari di immobili fatiscenti e insalubri“. Tutte queste persone hanno problemi con i documenti, con il rinnovo dei permessi, con le commissioni territoriali, che ritardano anche due o tre anni per concedere l’asilo politico o il permesso umanitario. Esseri umani abbandonati e totalmente indifesi. Questa è l’ipocrisia della politica di accoglienza italiana.
E così lasciamo, anche, che, per garantire la richiesta della Grande Distribuzione Organizzata, si faccia ricorso nelle campagne all’uso di sostanze, di trattamenti chimici, di concimi che incrementano le intolleranze alimentari, all’eliminazione della varietà dei prodotti agricoli. Sono l’ambiente e la nostra salute a risentirne, ma sembra che il problema non ci riguardi. Altra ipocrisia della nostra economia del benessere.
Per cambiare le cose è necessaria una battaglia culturale e politica per arginare le pratiche della Grande Distribuzione Organizzata e per convincere i cittadini a mangiare in modo consapevole. Chi domina il mercato sono le multinazionali, che nulla hanno a che vedere con i contadini, che conoscono la terra, la coltivano, la amano e la rispettano. Le multinazionali sono organizzazioni capitalistiche che mirano allo sfruttamento economico, al solo profitto. Ma come ci si può disintossicare dal consumismo e dall’omologazione collettiva, per ritornare alla qualità della vita e dei prodotti della natura? Sara riporta alcune riflessioni di chi in questa realtà vive e che prova a mettere in atto sistemi di “resilienza” e che vede la rottura del meccanismo dello sfruttamento e del condizionamento degli acquisti nella sostanziale modificazione dei consumi, che i cittadini insieme possono porre in essere.
Chi vive dentro un ghetto ha bisogno di risposte immediate, non può aspettare che i politici agiscano, cambiando le leggi:”Le persone devono mangiare, devono vivere”. Allo stesso tempo i cittadini dovrebbero capire che non possono attendersi un cambiamento dall’alto, ossia da coloro che hanno interesse a mantenere in piedi questo sistema economico, per modificare il sistema di produzione agroalimentare e gli effetti che questo produce sull’ambiente e sulla loro salute. La risposta può venire solo dal basso, dalle persone stesse, da un loro cambiamento culturale, da una loro presa di coscienza che anche ad essi conviene il rapporto diretto con il contadino per una migliore qualità della loro alimentazione e della loro vita. In questo modo si creerebbe una vera rivoluzione nei consumi, che restituirebbe dignità ai lavoratori e qualità alla produzione, rispettando l’ambiente e il valore di ciascuna vita umana.
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