Finanziamento dei partiti
di Arrigo Cajumi –
L’autore è Arrigo Cajumi (1899-1955), giornalista e scrittore un tempo assai apprezzato oggi pressoché dimenticato, liberale di sinistra, avverso a ogni forma di populismo e, naturalmente, al fascismo, attento osservatore e critico delle cose italiane. L’articolo che qui riproduciamo fu pubblicato su La Stampa del 24 maggio 1950. Sono passati, dunque, esattamente 64 anni dalla sua uscita, in pratica l’intera vita della nostra repubblica. Fa un certo effetto pensare che un male che saremmo inclini ad attribuire alle degenerazioni della politica degli ultimi decenni ci accompagna, in realtà, fin dalle origini, al punto che dobbiamo considerarlo endemico, connaturato, alla nostra costituzione materiale. Forse, dobbiamo riconsiderare in profondità la nostra storia
Un problema che fino al 1915 appariva di modesta importanza e facilmente risolvibile; che durante il ventennio nero ebbe aspetti del tutto particolari, si è posto dal 1945 in modo assai grave e comincia a pesare notevolmente sulla nostra fragile democrazia.
Il finanziamento dei partiti politici si riduceva, nel primo decennio del Novecento, a trovare i fondi per pagare le spese elettorali, e vi sopperivano, per il principi pale partito di massa, -cioè il socialista, in gran parte le quote di tesseramento; per gli altri, i contributi volontari dei simpatizzanti e magari degli aspiranti candidati al Parlamento. Venuto il fascismo, non vi fu certo bisogno di pagare le spese delle elezioni, bensì di finanziare i gerarchi e le istituzioni del P.N.F., di costruire le case del fascio, di mantenere giornali passivi: nacquero così contributi forzosi più o meno mascherati, vendite di onorificenze e di titoli nobiliari, sovvenzioni poste a carico di agenzie di pubblicità, tutta una serie insomma di pressioni a sfondò intimidatorio e talvolta ricattatorio, su cui, anche causa la fucilazione veronese, quale «traditore», del segretario amministrativo del P.N.F., non si è mai fatta e non si ha molta premura di fare la luce. Ma non del passato desideriamo oggi occuparci, bensì del presente e dell’avvenire.
È indubbio che un partito politico efficiente e quindi numeroso ha bisogno di locali, uffici, mezzi di trasporto, deve spendere largamente per manifesti, viaggi, cerimonie oratorie, deve alimentare impiegati, propagandisti, giornali. Ed è abbastanza noto, che di giornali di partito commercialmente attivi, non ne esistono. Di qui la spontanea domanda: — Chi paga? —. Ora, le quote di tesseramento, ossia il finanziamento normale e direi, anzi legittimo, non coprono sicuramente le spese di gestione. A volere essere ottimisti, esse rappresentano una base, un punto di partenza, o poco più. Si sono stampate recentemente notizie vaghe e talora romanzesche circa finanziamenti stranieri effettuati per vie diverse; però, se anche questi ci sono, costituiscono un elemento del bilancio dei vari partiti, non certo la «voce» principale. E allora? Bisogna cercare la chiave, considerando gli interessi difesi dai singoli partiti. Intendiamoci.
È normale, anche in Paesi di antica democrazia e tradizione politica come l’Inghilterra, che determinati interessi appoggino, più o meno apertamente, le correnti ideologiche, le quali si estrinsecano sotto forma di partiti. È chiaro che, se un produttore, finanziere, commerciante, ha vantaggio che in Parlamento e al Governo si segua, tanto per fare un esempio qualsiasi, una politica economica di tipo liberistico, sosterrà mediante gli opportuni finanziamenti, quei partiti che tale politica prendono impegno di seguire. Se invece ai predetti conviene una politica di tipo autarchico, nazionalizzatore, dirigistico, essi utilizzeranno le formazioni politiche che si battono per ottenerla, mantenerla, o ripristinarla. Questi finanziamenti diretti, più o meno palesi, paiono difendibili, sempre che sia consentito, in regime di libera stampa, denunciarli e criticarli davanti alla pubblica opinione. La cosa si fa molto più delicata quando ì partiti politici che applicano o propugnano determinati indirizzi, vanno al Governo. Parlo soprattutto di indirizzi di natura economica poiché è il caso più frequente e più importante. Difficile infatti che ci siano finanziatori per una campagna a favore del divorzio, sebbene, per stare alla cronaca, sembra che se ne siano trovati contro il progetto di legge per la abolizione delle cosiddette «case chiuse».
Comunque, il fascismo ci ha lasciato purtroppo quale triste eredità la «mentalità di partito », ossia la tendenza a governare od amministrare nell’interesse del partito, prima che in quello del Paese. Tale psicologia è stata favorita altresì dal sistema elettorale proporzionale, e dagli strascichi della esarchia del 1945. Il deputato, oggi, non è più il delegato dell’elettore, bensì la creatura del partito che l’ha scelto e fatto eleggere, per cui, salvo rare eccezioni, sente il richiamo del secondo più profondamente del primo. E allora, è sempre il partito il quale alla Camera e al Governo, impartisce ai gregari direttive che sovente sono veri e propri «ordini di scuderia», frase oltremodo espressiva. E giacché affluiscono al partito i contributi degli interessati a certi indirizzi e decisioni, si fa presto a comprenderne le conseguenze. Si aggiunga che ogni partito al Governo dispone di cariche, incarichi, Enti da gestire o da controllare con i propri uomini (e ciò accade correntemente negli Stati Uniti d’America, e non è prerogativa francese od italiana) e quindi è logico e naturale che costoro, dovendo al partito da cui provengono la nomina, dirigano od amministrino con i criteri loro imposti o suggeriti. La situazione può inoltre complicarsi nei casi dei Governi di coalizione per gli indispensabili compromessi ed equilibrismi.
Ciascuno vede come, partendo dal problema del finanziamento dei partiti, si arrivi molto lontano. Se infatti non esistesse la necessità di colmare il deficit di gestione dei singoli partiti, rimarrebbe in lizza soltanto la corrente ideologica, cioè quella che si chiama comunemente la dottrina del partito. Lo sbilancio della gestione invece, obbliga i partiti ad agire, almeno in certe deliberazioni, in conformità degli interessi che garantiscono il finanziamento dello scoperto. Molte lotte, maldicenze, scandali, nascono appunto da queste collusioni di interessi.
I rimedi possibili, possono essere di due specie. Portare a fondo la campagna, iniziata da Luigi Sturzo e da altri, contro l’attribuzione a parlamentari di cariche in Enti Pubblici, o in Società private che hanno rapporti di affari con gli stessi; rendere effettive quelle incompatibilità che la legge elettorale prevedeva, e che sono rimaste puramente sulla carta. Stabilire che le nomine avvenga no per competenza specifica, e non per designazione di partito. Regolamentare, con apposita legge, la costituzione, gestione e disciplina, dei partiti politici, in modo che essi diventino case di vetro anziché organismi piuttosto misteriosi. L’altra specie di rimedi è forse ancora più radicale, giacché conduce alla abolizione della proporzionale, e quindi alla fine della preponderanza delle segreterie e direzioni dei partiti, che concentrano in pratica la lotta politica nelle mani di poche diecine di persone, sovente irresponsabili e inafferrabili.
Si è parlato e si parla sempre di organizzare lo Stato moderno, di aggiornarne le istituzioni. Occorre partire dall’esame della principale novità politica sorta dopo la guerra 1914-’18, ossia dalla creazione dei partiti di massa, i quali alterano, per non dire sovvertono, il meccanismo politico, e assumendo la caratteristica di sette e formazioni di carattere religioso, facilmente tendono a travolgere le strutture e gli ordinamenti democratici a profitto di oligarchie manovrabili col denaro di pochi, e non disinteressati finanziatori.