Amare ciò che non ci piace per poterlo cambiare

Palermo non mi piaceva per questo ho imparato ad amarla, perché il vero amore consiste nell’amare quello che non ci piace, per poterlo cambiare, così raccontava la sua esperienza di magistrato a Palermo Paolo Borsellino. Nell’anniversario dell’assassinio del magistrato palermitano, che con Giovanni Falcone è riuscito a trasformare la lotta alla mafia da fittizia contrapposizione in reale possibilità di liberazione, di rinascita di una società civile, vogliamo dare spazio alla testimonianza di una vita discreta, fatta di impegno civile e morale, intensamente e consapevolmente vissuta sino alla fine.

Il segreto della felicità è la libertà. Il segreto della libertà è il coraggio” (Tucidide)

Troppo spesso e troppo spazio viene riconosciuto a uomini e donne che il tempo consegnerà all’oblio per la loro inconsistenza morale, per la loro miseria umana, per l’ingombrante e fastidioso vuoto delle loro esistenze rassegnate o omologate, impegnate a produrre solo devastanti effetti sulle vite degli altri, per la loro stupida insensatezza o per i loro mortiferi egoismi, capaci di generare malvagità gratuite.  Ci sono, invece, uomini e donne del presente come del passato, che senza clamore e con un senso profondo di discrezione, gettano nella vita di tutti semi di speranza, di libertà, di impegno civile e morale, di onestà, a cui il tempo ridarà vita. Uno di questi uomini è Paolo Borsellino.

Riportiamo alcuni passaggi della deposizione che Borsellino fornì dinanzi al Consiglio Superiore della Magistratura il 31 luglio 1988, non solo per ricordarne l’impegno e il sacrificio nell’anniversario del suo assassinio, ma soprattutto per lasciare che le sue parole possano ancora risuonare e risvegliare in noi quell’energia vitale a cui dare un senso e che lui aveva scelto, fino alla fine, di donare agli altri per contribuire a migliorarne la qualità della vita.

Le vite di questi uomini sono una ricchezza a cui non dobbiamo e non possiamo rinunciare per riuscire a “sentire” che, a dispetto di una realtà che non ci piace, ma che possiamo imparare ad amare, dobbiamo aver cura fondamentalmente solo de “l’impiego di questa [nostra] modestissima vita, di queste ore o di questi pochi giorni; e mettere sulla bilancia intima della storia il peso della [nostra] persuasione“. Questa è la testimonianza che ci ha lasciato Borsellino, come tanti altri uomini “persuasi” del valore della propria esistenza e del senso del proprio impegno senza attendersi alcun riconoscimento. Anzi…Il giudice fu, addirittura, minacciato di provvedimenti disciplinari da parte della sua stessa categoria e delle medesime istituzioni per cui si impegnava a causa delle dichiarazioni pubbliche da lui rilasciate in relazione all’inefficacia dell’azione di contrasto che lo Stato avrebbe dovuto svolgere contro la mafia. La sua deposizione è rimasta secretata per 24 anni, ed è stata resa pubblica nel libro “Paolo Borsellino Essendo Stato” di Ruggero Cappuccio, libro, che,  come dichiarò pubblicamente la moglie, Agnese Borsellino, ha contribuito a concretizzarne la resurrezione spirituale.

A partire dal 1980 sono stato uno dei primi giudici istruttori di Palermo ad occuparsi di indagini sulla criminalità mafiosa[…]Ucciso Chinnici subentrò nella direzione dell’Ufficio il dottor Antonino Caponnetto, il quale ci propose [al sottoscritto, a Giovanni Falcone e al dott. Giuseppe Di Lello] di occuparci insieme del poderoso procedimento, già istruito da Chinnici, allora chiamato “dei centosessantadue”, nucleo originario di quello che sarebbe poi divenuto il Maxiprocesso di Palermo.

Avevamo già da tempo verificato la possibilità di lavorare in stretto collegamento e non ci fu difficile continuare a farlo in vera e propria équipe o pool antimafia […] Il successivo espandersi delle dimensioni del Maxiprocesso rese necessario arricchire di altri elementi il gruppo originario […]. L’inserimento nel pool di ogni nuovo elemento è stata sempre oggetto di approfondita discussione e mediazione tra i componenti precedenti ed il consigliere istruttore in quanto il pool [è] […] un gruppo di giudici disposti a svolgere congiuntamente un’attività istruttoria, con metodi, finalità e ritmi la cui reciproca compatibilità è necessario venga preventivamente verificata […].

Successivamente al trasferimento a Firenze del dottor Caponnetto ed all’insediamento del nuovo consigliere istruttore dottor Antonino Meli, cominciarono a giungermi […] segnali estremamente inquietanti circa la sorte del pool antimafia a Palermo, e precisamente: la titolarità dell’indagine già affidata dal dottor Caponnetto alla sua partenza a Giovanni Falcone, era stata assunta dal dottor Meli, il quale, pur essendo persona sicuramente dotata di grandissime capacità, non avrebbe potuto in pochi mesi impadronirsi del contenuto dell’enorme materiale processuale, che il precedente titolare dottor Antonino Caponnetto conosceva invece, come il dottor Falcone, foglio per foglio; nominale inserimento nel pool antimafia di nuovi giudici, senza adottare le cautele ed i criteri precedentemente descritti; assegnazione di procedimenti concernenti la criminalità mafiosa o suoi rilevanti specifici episodi a magistrati estranei al pool antimafia e serie difficoltà da parte dei giudici del pool di acquisir financo copia degli atti, con il rischio di perdere definitivamente la visione complessiva del fenomeno e del suo evolversi; assegnazione ai magistrati del pool antimafia di numerosi procedimento non concernenti la criminalità mafiosa; adozione di provvedimenti, anche di rilevante effetto; senza preventiva intesa; adozione di programmi concernenti la futura struttura ed attività del gruppo senza preventiva consultazione dei giudici del pool.

Come ho detto, le fonti delle mie conoscenze sono gli stessi giudici del pool, che mi hanno più volte esternato il loro profondo disagio e la conseguente preoccupazione di una impossibilità, anche nell’immediato futuro, di continuare in tali condizioni a lavorare proficuamente […] Ecco perchè […] ho senza esitazione parlato di segnali di smobilitazione del pool antimafia […] Anni di massacrante lavoro sono appena sufficienti a percepire i complessi meccanismi della criminalità mafiosa e le corrispondenti complesse esigenze delle indagini su di essa. I miei interventi per canali non istituzionali […] hanno avuto soltanto la finalità di contribuire affinché venga percepita la inderogabile esigenza, in materia di indagini sulla criminalità mafiosa, di avvalersi appieno della preziosissima esperienza di chi, pur tra enormi difficoltà ed indubbi errori, ha sperimentato metodi di lavoro ed acquisito conoscenze, non alterabili o discernibili senza irreparabili danni per la società.

[…] O parliamo per enigmi, per allusioni, e diciamo che c’è una caduta di tensione, che manca la volontà politica, e la gente non capisce bene cosa significa oppure, se questi problemi li dobbiamo affrontare concretamente, dobbiamo citare fatti e mettere il coltello nella piaga e dire: c’è un organismo centrale nelle indagini antimafia che in questo momento non funziona più. […] Il problema della lotta, o comunque delle indagini sulla criminalità mafiosa, io lo sento profondamente, l’ho sentito, sono stato disposto ad affrontare sacrifici, non vedo perché l’opinione pubblica non debba essere interessata a questo problema; anzi, è pericoloso quando l’opinione pubblica non viene interessata a questo problema. E’ grave, con riferimento alle indagine sulla criminalità mafiosa, che l’opinione pubblicate se ne disinteressi o le sopporti così, come se si trattasse di assistere ad una lotta tra giudici e mafiosi, visto che non è una lotta tra giudici e mafiosi, né tra poliziotti e mafiosi, ma è un problema che interessa tutti.

[…] A Palermo probabilmente c’è molta più polizia di quanta non ce ne fosse prima, però il problema non è di mandare quattrocento persone, che poi stanno a presidiare soprattutto l’aula bunker o fare le scorte ai magistrati o a fare le ancor più numerose scorte ai politici o ai ministri. Il problema è mandare un’intelligence, cioè gente che sappia fare il poliziotto, e che lo faccia con serenità e con impegno, questo ho inteso dire quando ho parlato di polizia che sostanzialmente a Palermo non dà frutti. […]

Io non intendo assolutamente sovraccaricare nulla, ho sempre ispirato la mia condotta alla volontà di sdrammatizzare tutti i problemi, ma le condizioni obiettive sono queste: noi ci troviamo bloccati da fatti che, presi uno per uno, sembrano delle miserie, ma presi globalmente bloccano tutto. Ci trastulliamo con vicende che non meriterebbero nessuna attenzione, mentre sui nostri problemi non riusciamo a concentrarci. C’è un senso di scoraggiamento da parte dei colleghi, e c’è soprattutto la mancanza obiettiva di aiuto da parte loro, perchè distolti nell’ordinario […] Giorno dopo giorno c’è un problema […] tutta una serie di colpi di spillo, che ti mette in condizione di non muoverti“.

Nelle parole di Borsellino vi è l’espressione profonda della solitudine del suo lavoro, dell’immobilismo e dell’ostruzionismo che accerchiato lui e gli altri magistrati del pool antimafia, ma è anche l’espressione della forza morale che ne ha guidato l’esistenza, l’esistenza di un uomo che potremmo ben definire, come avrebbe detto Aldo Capitini, “un persuaso”. E all’estremo sacrificio del “persuaso” Capitini consegnava le sue speranze di una palingenesi sociale “Nell’apertura dell’anima si realizza il contatto e la fusione con una società infinita, e si può ben morire soli sulla croce. Chi ha la forza di essere solo, ha anche la forza di sentire la comunione degli altri molto più profondamente (…) Ogni cosa umana è sorta sulla prima pietra di un’anima” (2).

 

(1) e (2) A. Capitini, Elementi di un’esperienza religiosa, Bari 1937