Il lavoro autonomo nella crisi italiana Parte II

Il nodo del lavoro autonomo

di Sergio Bologna

Ancora il lavoro autonomo. Sotto forma di una lunga recensione al libro di Costanzo Ranci, di cui abbiamo già parlato, Sergio Bologna offre un nuovo e impegnato contributo di analisi per comprendere a fondo lo statuto sociale del lavoro autonomo e proporre una svolta nell’analisi delle classi sociali in Italia. Pubblichiamo è la seconda parte dell’intervento (vai alla prima parte)

Necessaria una svolta nell’analisi delle classi

La parte del volume finora presa in esame costituisce però una specie di ampia introduzione a quello che è il vero scopo, il vero obiettivo del lavoro: collocare il lavoro indipendente all’interno del ceto medio, definirne la posizione tra una classe (aggregato sociale che si può individuare con parametri oggettivi, come il livello di reddito, la ricchezza accumulata ecc.) e un ceto (aggregato sociale che si definisce per variabili culturali, mentalità, stili di vita, preferenze politiche ecc.). L’apparato statistico dell’Istat per valutare queste grandezze e queste variabili ovviamente non poteva essere sufficiente, si è fatto largo uso delle ricerche sui redditi delle famiglie della Banca d’Italia, di ricerche di Eurostat e di altre fonti internazionali. Senza entrare nel merito delle questioni relative alle fonti statistiche, vediamo subito i risultati di queste analisi. Per quanto riguarda i livelli di reddito vengono prese in considerazione anche figure del lavoro dipendente e la conclusione è che il grado di dispersione delle fasce di reddito lungo una scala che va da redditi molto elevati a redditi che non possono essere iscritti in quelli di un ceto medio, è molto più accentuato nel lavoro indipendente che in quello subordinato. In particolare questo vale per i professionisti e per i collaboratori (sono stati esclusi qui i coadiuvanti familiari, i soci di cooperativa e i lavoratori agricoli). Questa realtà di forte polarizzazione dei redditi induce i ricercatori a proporre ancora un’altra classificazione di profili del lavoro indipendente, sempre nell’ottica di una sua collocazione o meno all’interno del ceto medio: il lavoro manageriale e professionale, il lavoro qualificato e il lavoro non qualificato – quest’ultimo da collocarsi in uno strato sociale, che sta potenzialmente al di sotto del ceto medio e al di sotto della piccola borghesia. Ma qui casca l’asino. Questa suddivisione, mutuata come al solito dal lavoro dipendente (dirigenti, impiegati, operai qualificati, operai comuni), non regge di fronte all’analisi più puntuale dei redditi delle singole categorie e all’interno delle stesse categorie (si pensi al gran numero di avvocati iscritti all’Ordine che non sono in grado di versare i contributi alla loro cassa previdenziale a causa dei loro miseri redditi, si pensi ai redditi di tanti collaboratori a Partita Iva). Ciò che emerge in maniera evidente da un’analisi minimamente accurata della condizione del lavoro indipendente in Italia è che l’equazione “lavoro qualificato di soggetti altamente scolarizzati – redditi elevati” non funziona per niente ed è questa la specificità della formazione e della dissoluzione del ceto medio oggi, non solo in Italia. I sociologi potranno esercitarsi nelle loro belle classificazioni quanto vogliono e qui si danno esempi in continuazione, tra “classe superiore”, “professionisti e tecnici”, “classe inferiore” e via dicendo. Ma il punto, se si vuole parlare di ceto medio, di piccola borghesia e di nuovo proletariato (quello che alcuni chiamano il Quinto Stato) è che occorre liberarsi una volta per tutte dall’ordine gerarchico del lavoro dipendente, occorre soprattutto – quanto dev’essere duro per un accademico – ammettere che l’equazione “alto livello di istruzione – reddito elevato” non regge più e non regge sicuramente per la fase decisiva della vita in cui una persona imposta una famiglia e una carriera. Di fronte a questo dato di fatto, che rappresenta una svolta epocale, le pur interessanti osservazioni sulla soddisfazione del lavoro, sulla percezione dell’instabilità, sulle motivazioni e persino sui consumi (con dati fermi al 2006) o sugli orientamenti politici, appaiono come argomenti di secondaria importanza. Si rendono conto i ricercatori di questa svolta e della sua rilevanza? Sì, in diversi passaggi, per esempio, tanto per citarne uno, a pag. 158, quando segnalano che la difficoltà da parte delle imprese ad assorbire forza lavoro qualificata determina “una crescita esponenziale di persone che, una volta laureate hanno optato per la (libera?) professione quasi come una scelta obbligata in assenza di valide alternative di lavoro alle dipendenze”. Se avessero potuto disporre dei dati dell’Osservatorio sulle Partite Iva del Ministero delle Finanze, resi disponibili da pochi mesi, avrebbero potuto avere conferma di questa ipotesi nel fatto che le Partite Iva aperte nel gennaio 2012 per attività professionali, tecniche e artistiche hanno superato quelle per attività commerciali e che la fascia d’età in cui si concentra il maggior numero di aperture è quella più giovane, con un balzo del 25% rispetto al gennaio 2011, mentre tutte le altre fasce di età sono in regressione.

Un altro elemento interessante riguarda lo squilibrio tra redditi e prestigio sociale, tipica trappola ideologica del lavoro indipendente, dove l’alta considerazione di sé in presenza di redditi miserabili non trova riscontro nel lavoro subordinato. Quindi la “svolta epocale” è percepita, forse avrebbe potuto essere messa maggiormente in risalto, ma è importante che sia stata registrata e che induca i ricercatori a questa conclusione: “adottare una prospettiva di ‘ceto’ rispetto al lavoro indipendente appare un’operazione più complessa e difficoltosa di quanto avvenga con il lavoro alla dipendenze” (p. 186), in particolare – aggiungono – per le forti differenziazioni interne al lavoro indipendente tra microimprenditori e lavoratori in proprio da un lato e lavoro indipendente professionale e tecnico dall’altro. La parte consistente della ricerca dedicata a questo secondo segmento è quella che a noi di ACTA interessa di più. Vediamola pertanto in dettaglio.

Il lavoro professionale

Ad esso è dedicato il sesto capitolo, ma in realtà nel volume c’è molto di più, sparso nei capitoli precedenti e successivi, in particolare al paragrafo “Vecchi e nuovi professionisti: in crescita con problemi” del secondo capitolo, alle pp. 116-133 del capitolo terzo, al paragrafo “Gli ordini e le associazioni professionali di fronte al mercato” del capitolo ottavo, mentre tutto il capitolo quarto, come abbiamo visto, è attraversato da questa problematica. Il leitmotiv di questa consistente parte analitica è dato dalla presa d’atto che è in corso una profonda trasformazione interna nel lavoro cognitivo in generale e nelle singole professioni in particolare, una trasformazione che rende meno netti i confini tra il mondo delle professioni e quello delle collaborazioni, tra il mondo delle professioni e l’universo della microimpresa. Da questa presa d’atto discende il valore a nostro avviso più importante: l’aver rifiutato semplificazioni e generalizzazioni, non aver ceduto alla tentazione di risolvere la complessità con trovate lessicali tanto care al mondo dell’informazione (es. “il popolo delle Partite Iva”), l’aver esplicitato l’insufficienza di certi schemi analitici consolidati di fronte alla frammentazione e alla diversificazione della realtà, l’aver caratterizzato il passaggio in atto come momento di transizione dove tutto può essere messo in questione, non per causa della crisi ma per ragioni strutturali proprie dell’ultimo ventennio, acuite e messe in evidenza dalla crisi. Da questa ricerca il mondo delle professioni non esce con una nuova maschera appiccicata sul volto ma come una realtà sulla quale è indispensabile continuare a fare ricerca, secondo sentieri che qui sono tracciati egregiamente.

La parte più convincente a nostro avviso è la breve inchiesta su due figure professionali, una – l’architetto – appartenente agli Ordini e l’altra – il consulente di direzione aziendale – appartenente alle professioni non regolamentate. Si tratta di 44 interviste, equamente suddivise, con persone in attività. Per chi, come noi di ACTA, appartiene a questo mondo, le informazioni e le considerazioni tratte dai ricercatori non dicono nulla di nuovo, possiamo solo testimoniare che essi hanno colto esattamente la realtà quando mettono in risalto, per gli architetti, a) la specificità del caso italiano che vede un numero di architetti per abitante che non ha paragoni in Europa, b) la scarsa protezione offerta dagli Ordini nei confronti del mercato, c) la concorrenza di professioni affini cui sono riconosciute dalla regolazione italiana prerogative proprie del ruolo dell’architetto, d) la scarsa autonomia e la limitata possibilità di estrinsecare la propria natura artistica di moltissimi giovani architetti che lavorano alla dipendenze di grossi studi professionali dopo il praticantato, e) la percezione di un sistema privato di tutele riservato solo a determinate figure, f) la trasmissione della professione di padre in figlio nel 40% degli esercenti l’attività. Sfiorata, ma a nostro avviso di grande importanza oggi, non solo tra gli architetti, la questione delle gare degli enti pubblici impostate sulla regola del massimo ribasso.

Molto diversa la condizione del consulente di direzione. Il campione prescelto secondo la tecnica del snowball (detta in volgare “catena di sant’Antonio”) ha portato a intervistare il tipico consulente che si è messo in proprio dopo un’esperienza di management o di quadro intermedio presso un’azienda pubblica o privata. Insofferente di interventi di regolazione, poco fiducioso sia nel welfare state che nella previdenza privata, portato su questo terreno a strategie individuali di risparmio/investimento previdenziale, il consulente di management dipende molto meno dell’architetto da appalti pubblici, accetta l’anarchia del mercato e cerca di trasformarla in opportunità, ha una visione della professione, dell’etica professionale, dell’aggiornamento professionale, delle credenziali, del tutto svincolata da organismi di controllo come gli Ordini e semmai affidata al brand della società per cui lavora, in un mercato fortemente polarizzato, dominato da alcune multinazionali che si spartiscono il mercato “ricco” delle grandi imprese, delle banche, delle Amministrazioni Pubbliche e lasciano le briciole alla miriade di piccoli studi professionali o di professionisti individuali.

E’ corretta anche l’osservazione conclusiva di questa breve analisi: il mondo della libere professioni – ordinistiche o non – sta scoprendo sempre di più il valore molteplice del network, sia per la penetrazione sul mercato che per la protezione sociale, sia per l’accrescimento professionale che per la compensazione tra piena autonomia individuale e vincoli organizzativi. Lo stereotipo del freelance solo contro tutti appartiene ormai alla cattiva letteratura.

Considerazioni di carattere più generale erano state fatte nel paragrafo indicato del capitolo secondo, dove si parla di “svolta epocale” negli Anni 90 quando irrompe nel mercato la nuova generazione di professionisti del lavoro cognitivo, frutto dell’esternalizzazione delle competenze o dei nuovi servizi alla persona. “Se l’espansione delle cosiddette ‘nuove professioni’ ha rappresentato un punto di discontinuità rispetto al lavoro indipendente tradizionale, a ciò non è tuttavia seguita un’innovazione altrettanto chiara nei meccanismi di funzionamento del mercato” (p.90). Perché? L’esternalizzazione delle competenze da parte delle imprese sarebbe stata fatta secondo una logica di variabilizzazione dei costi, con l’intento di mantenere sostanzialmente un personale di alta qualificazione alle dipendenze in un rapporto di committenza con soggetti a Partita Iva, prova ne sia che, secondo una fonte Eurostat, “la quota di professionisti ad elevata qualificazione nel campo scientifico e tecnologico sarebbe in Italia del 12,4% rispetto a una media europea del 18,1%”. L’esternalizzazione cioè non avrebbe creato un mercato competitivo su servizi ad elevato grado di conoscenza ed avrebbe portato ad una situazione di offerta di bassa qualità, con una forte frammentazione interna e polarizzazione tra servizi mediocri e servizi di standard internazionale.1 Giudizio in parte condivisibile, sul quale sarebbero necessarie evidenze empiriche e statistiche più approfondite, ma che andrebbe forse integrato con l’osservazione che la domanda espressa dal mondo delle imprese e dal mondo dei servizi in Italia è di bassa qualità. E’ l’intero sistema che “vola basso” e sempre più si è orientato verso le posizioni di rendita, l’immobiliare e la finanza. Dall’altro lato, quelli che possono venir definiti servizi di livello internazionale forniti dalle filiali italiane delle multinazionali della consulenza, molto spesso sono soluzioni standard a pacchetto integrato laddove il mercato italiano così particolare richiede soluzioni personalizzate. Sicché l’offerta del piccolo studio professionale specializzato su un settore o su un territorio può risultare in definitiva di migliore qualità di quella della grande multinazionale. Non è facile nel settore dei servizi professionali definire la qualità del servizio con parametri oggettivi, questo è un forte ostacolo all’analisi. Infine, bisogna pur dirlo se parliamo di “economia della conoscenza” e di consulenza al management, l’Università italiana – che fornisce una quota non irrilevante di servizi consulenziali – non è stata proprio il più brillante esempio di gestione della qualità. Lascia perplessi invece la seconda osservazione di carattere generale, che viene proposta nel secondo capitolo e cioè che “nel nostro paese non è mai decollata una vera e propria cultura professionale, un ‘professionalismo’ per come questo termine è inteso nella cultura anglosassone” (p. 93). Qui si tratta evidentemente di una lettura assai diversa della sociologia delle professioni da quella che abbiamo fatto nel capitolo Da gentiluomini a mercenari del nostro libro “Vita da freelance”2, dove il professionalismo viene definito né più né meno che un’ideologia di status, costitutiva dell’identità borghese. Quindi è un elemento deteriore della mentalità del professionista, è una sua sindrome elitaria, che lo porta a distinguersi dalla figura di “lavoratore della conoscenza”, e tanto più insensata quanto più fragile diventa la sua condizione economica nel mercato. Ma proprio per questo costituiva di una coscienza, di una cultura di ceto. Professional non è l’equivalente di professionista. Senza dubbio nel mondo anglosassone si è ragionato sul rapporto tra competenze e mercato assai più di quanto si è fatto nell’Italia degli Anni Novanta (ci si è chiesti anche se il business è una professione, tanto per dire). Da noi ci si dovrebbe chiedere piuttosto se le competenze e le credenziali hanno ancora un valore – non solo nell’universo delle professioni ma in generale – o se sono schiacciate da un sistema di clientelismi e di consorterie che uccide ogni merito. (segue)