Crisi economica e nuove povertà

di Elisa Badiali

L’espressione “nuove povertà” gode oggi di un’ampia diffusione. La crisi economica, la disoccupazione, la precarizzazione delle situazioni di lavoro e la contrazione dei consumi, hanno esposto, infatti, sempre più individui ad una condizione di vulnerabilità e povertà.

A rendere reale questa affermazione non sono solo le immagini delle manifestazioni, degli scontri e delle assemblee pubbliche che attraversano via via tutte le città del mondo, o le parole della gente che sempre meno riesce a mascherare un animo indignato, ma anche e soprattutto i dati presenti all’interno dei rapporti Istat che ci forniscono un’amara fotografia della situazione economica europea e italiana. E’ il rapporto sulla Povertà in Italia che mostra infatti una situazione generale peggiorata proprio a partire dal 2008. Ma se a un primo colpo d’occhio è l’11,1% delle famiglie definite relativamente povere ed il 5,2% di quelle povere in termini assoluti a fare più effetto, quello che mi ha particolarmente colpito analizzando i dati è il 7,6% di popolazione che nel viene definita come “quasi povera”1. Questa percentuale, infatti, mostra come la crisi della società salariale moderna, l’indebolimento delle regolazioni collettive e delle forme di protezione assicurate dalle politiche sociali, nonché la crisi dei legami sociali e familiari, abbiano finito per moltiplicare la vulnerabilità, allargando le fasce sociali soggette a rischio ed accrescendo l’ansia nei confronti del futuro. In particolare appare come si sia dilatata la zona di vulnerabilità fino a debordare anche su quella dell’integrazione, coinvolgendo persone che fino ad un determinato momento erano inserite all’interno di una stabile vita sociale e professionale, e che oggi si trovano invece a confrontarsi con situazioni di precarietà e disoccupazione. Come ha sostenuto anche Richard Sennet, agli albori della crisi economica che si sta rivelando la più grande solo dopo quella del 1929, il fallimento non è più una prospettiva normale solo per i poverissimi o per le persone afflitte da problemi, ma è diventato un evento familiare anche nelle vite della classe media2. Le esigenze di competitività e concorrenza e la riduzione delle possibilità di impiego che caratterizzano lo scenario sociale contemporaneo tendono, infatti, ad invalidare molte persone che dalla congiuntura sono condannate ad una precarietà permanente e a una insicurezza perpetua in assenza di un mercato del lavoro organizzato. L’esclusione sociale rischia quindi di diventare un processo che non coinvolge più solamente coloro che si collocano ai livelli più bassi della stratificazione sociale, ma anche persone che erano state fino a questo momento inserite nel circuito del lavoro e del consumo e che si trovano ora privi di supporti, di appartenenza e di legami sociali. “Ciò che era impossibile un tempo oggi può verificarsi con qualche probabilità: si può essere poveri pur con la casa ed il lavoro”3.

La crisi economica ha quindi permesso di mettere in luce il diffondersi di condizioni di “nuova povertà”, diverse da quella del passato poiché non più residuali e in qualche modo a-temporali. Gli individui, sempre meno appartenenti a fasce sociali dai confini chiaramente definiti, vivono all’interno di una situazione come di fluttuazione della struttura sociale: da una condizione di inserimento e stabilità possono trovarsi esposti al rischio della povertà in seguito ad eventi che rendono visibile la fragilità dei legami sociali. “All’interno di questa prospettiva la condizione di povertà viene a configurarsi non come un caso eccezionale, ma come l’estremità, il punto limite di un percorso biografico”4. Per studiare la povertà oggi occorre assumere perciò un approccio di analisi nuovo, capace di comprendere come, accanto alla tradizionale forma di povertà, si assista ora ad una crescente differenziazione della povertà stessa, condizione che spesso si manifesta con un processo di mobilità sociale discendente rispetto ad una posizione socio-economica precedente. I “nuovi poveri” non si configurano come più una classe sociale omogenea e riconosciuta, bensì come una massa dai contorni indefiniti, frammentata ed invisibile, che non dispone di una propria autorappresentazione e di una propria cultura.

L’espressione “nuove povertà” può essere riferita allora ad una condizione di vulnerabilità, intesa come senso di insicurezza ed instabilità, in cui si ritrova il soggetto con un percorso individuale incrinato dalla precarietà e fragilità, tanto a livello lavorativo quanto nelle relazioni sociali. In quest’ottica risulta fondamentale considerare che la dimensione economica non è la discriminante essenziale, ma al contrario che la povertà è strettamente legata ad una complessità di fattori che contribuiscono ad estendere la fascia di vulnerabilità ed il forte senso di insoddisfazione ed incertezza fra gli individui che la compongono. La comparsa di approcci maggiormente attenti alla eterogeneità e alla variabilità interna della condizione di povertà ha fatto emergere che il principale difetto della concezione alla base del sistema di Welfare è stato, ed è, quello di farne una questione macro, rimuovendo ogni considerazione relazionale, in particolare il ruolo della famiglia e delle reti di solidarietà. Le analisi che privilegiavano una lettura dei fatti macro-sociali per lo studio della povertà, sono state via via sostituite, dopo la teoria proposta da Amartya K. Sen, da un approccio sempre più attento al tenore di vita e alle reti relazionali dell’individuo e alle sue capacità di trasformare le risorse in capacità di vita. Il raggiungimento o meno di determinati standard di vita dipende, infatti, anche da quelle che A.K. Sen identifica come le capacitazioni di ogni individuo, ossia quelle capacità di cui una persona dispone per attivare o meno determinate funzioni. Il concetto di capacità è perciò strettamente connesso a quello di funzionamento: esso rappresenta, infatti, le varie combinazioni di funzionamenti che la persona può acquisire durante il corso della vita, e quindi quelle libertà che possono essere identificate come libertà positive, ossia che specificano che cosa una persona può o non può fare, oppure che cosa può o non può essere6. Tale prospettiva mette bene in luce come, per riflettere sui processi di impoverimento, occorra tenere conto non solo dei redditi o dei consumi degli individui, bensì anche e soprattutto delle capacità che gli individui necessitano per mantenere condizioni di vita adeguate.

La crisi socio-economica, infatti, ha reso evidente come le libertà e le capacità promesse dal modello liberalista, non riescano a compensare l’altra faccia della stessa medaglia, ossia il dovere da parte degli individui di prendere da soli le decisioni. Nell’epoca dell’individualizzazione, della riflessività e del rischio gli individui si trovano nella condizione di doversi sempre più assumere la responsabilità della propria vita, di immaginarsi e costruirsi quelle che Beck identifica come vere e proprie “biografie fai da te“, frutto di decisioni prese dal singolo senza l’ombrello protettivo della religione e di quei sistemi forti di appartenenza che davano ricette comportamentali e linee di pensiero forti e ben confezionate. Queste indicazioni che erano da una parte costrittive per l’individuo, erano però dall’altra anche fonte di rassicurazione, nella misura in cui proponevano un mondo dato e non discutibile, vissuto e percepito come giusto e immutabile, quasi naturale, al cui interno il soggetto trovava il suo posto. Se l’individualismo, quindi, da una parte conferisce a un numero crescente di uomini e donne una libertà senza precedenti di sperimentare, dall’altra, assegna anche il compito di tener testa alle sue conseguenze. Questo parodosso alla base della società contemporanea è, secondo il sociologo Robert Castel, espressione di un individualismo di tipo negativo, basato cioè su una sottrazione dai legami con le collettività ed ottenuto tramite una privazione piuttosto che un’emancipazione. Gli individui oggi devono dimostrare di essere in grado di calcolare le possibilità positive e quelle negative dietro ogni loro azione, e quotidianamente devono saper scegliere tra un range idefinito di possibili corsi d’azione.

E’ in quest’epoca che, minacchiando quella che Anthony Giddens chiama la “sicurezza ontologica”6, si diffonde quindi il rischio come caratteristica alla base della società7. E, se da una parte il rischio ha rappresentato leva e motore di cambiamento, innovazione e progettazione dell’identità, dall’altra ha portato con sé una diffusa percezione di incertezza, di non essere al sicuro, una più diffusa sensibilità nei confronti dell’esclusione, che da problema degli altri, è tornato ad essere un problema anche nostro, nel senso che prima o poi potrebbe toccare anche a noi. Si potrebbe commentare che ogni gioco, ogni sfida, prevede vincitori e perdenti, e quindi un’assunzione del rischio. Ma quello che appare oggi è che, nel gioco della libertà, la differenza tra le due categorie tende ad essere sfumata, se non del tutto cancellata. Nella modernità liquida e del rischio, infatti, “chi ha perso si consola con la speranza di vincere la prossima volta, mentre la gioia del vincitore è offuscata dal presentimento della perdita. Per entrambi, la libertà significa che nulla è stabilito in modo permanente e che la ruota della fortuna può ancora girare. I capricci della sorte rendono incerta la condizione di entrambi. Ma l’incertezza è portatrice di messaggi differenti: ai perdenti dice che non tutto è ancora perduto, ai vincenti sussurra che ogni trionfo tende ad essere precario”8.

L’abisso crescente tra il diritto all’autoaffermazione e la capacità di controllare il contesto sociale che rende possibile o irrealistica tale autoaffermazione, diviene quindi una delle grandi contraddizioni della società contemporanea. E’ all’interno di questo nuovo scenario che si profila quindi una nuova tipologia di popolazione a rischio povertà, che potremo identificare come persone con deficit di riflessività, cioè scarsamente in grado di analizzare le risorse che permettono loro di sapersi muovere nell’incertezza, di sapere includere le difficoltà e gli eventi traumatici che si trovano ad affrontare (siano essi la deprivazione economica, la perdita del lavoro, un divorzio, la malattia) in una trama biografica che conservi la sua integrità. La capacità riflessiva per l’identità sembra rappresentare, infatti, quel bene fondamentale che permette agli individui di essere in condizione di conservare un lineare “andamento narrativo“. In quest’ottica, per lo studio delle “nuove povertà” in cui il soggetto riacquista un ruolo centrale, diviene necessario comprendere cosa consente ad un individuo di essere capace di scrivere il romanzo della sua vita in un’era in cui le trame, i personaggi ed i copioni tradizionali cessano di essere un punto di riferimento. Tutto questo significa, cioè, essere in grado di analizzare le strategie che i vari attori mettono o che potrebbero mettere in atto per fronteggiare il possibile rischio. Strategie che non devono necessariamente rispondere al modello idealtipico weberiano dell’agire razionale rispetto allo scopo tipico dell’homo oeconomicus, bensì che si riferiscono all’insieme di quei processi che possono permettere all’individuo di mantenere intatta la sua integrità biografica.

Occorre, quindi, orientare lo studio del fenomeno della vulnerabilità, non circoscrivendolo solo alla comprensione delle dinamiche generali che coinvolgono l’11,1% della popolazione che rientra all’interno della fascia dei poveri, ma anche verso un livello preventivo, per ricercare a monte cosa può generare la caduta, e nel medesimo tempo anche cosa può fermarla. Concentrarsi cioè su quelle situazioni che, verificatesi nell’arco della vita dell’individuo, possono essere con-causa del processo di impoverimento. Occorre, in quest’ottica, analizzare tutte le sfere che caratterizzano la vita degli individui e che possono essere ambiti di generazione del rischio: la sfera lavorativa, quella che riguarda la protezione del cittadino da parte dello Stato, la sfera dei rapporti sociali, familiari ed intimi.

Per l’analisi delle “nuove povertà” diviene fondamentale quindi prendere in considerazione, non più solo la definizione di povertà assoluta (intesa come mancanza di risorse per consumare un certo insieme di beni e servizi per soddisfare le necessità essenziali) e quella di povertà relazionale (basata su un confronto relativo tra i diversi gruppi componenti la società), ma anche quella che Ardigò chiamava la “povertà simbolica” o anche “povertà soggettiva” (che considera il grado di soddisfazione dei soggetti nei confronti della salute, della casa, del tempo libero), nonché quella di “povertà umana“, intesa come mancanza di beni essenziali e di particolari capacità e abilità per soddisfare i bisogni ritenuti fondamentali. Sia la povertà assoluta che la povertà relativa sono identificabili, infatti, come concetti unidimensionali, in quanto definiti rispetto ad un’unica variabile, che può essere tanto il reddito quanto la spesa per i consumi. Entrambe le categorie hanno inoltre la caratteristica di ridurre il mondo sociale solamente entro due categorie, quella dei benestanti e quella dei poveri, perdendo di vista le molteplici forme di vulnerabilità che costituiscono in realtà gli stati intermedi tra il benessere e la povertà e che possono aver origine da particolari accadimenti del corso della vita, come ad esempio la perdita di un lavoro, la dissoluzione del legame familiare o il peggioramento delle condizioni di salute.

Per tentare di fermare l’aumento dei processi di impoverimento che stanno travolgendo quote sempre più ampie di popolazione, occorre oltrepassare allora la mera preoccupazione legata alle differenze di reddito, caratterizzante il criterio della soglia e della costruzione stessa degli indici di misurazione della povertà, per riuscire a prendere in considerazione anche gli aspetti relazionali dell’esclusione sociale e la qualità relazionale dei nuovi bisogni. Le “nuove povertà”, infatti, sono un fenomeno cumulativo e multidimensionale, in cui convivono diversi livelli di bisogni: i bisogni primari, relativi alla disponibilità di beni materiali di sopravvivenza; quelli secondari, la cui soddisfazione implica la responsabilità delle istituzioni (salute, igiene, assistenza, scuola, etc.); i bisogni relazionali, relativi alla caduta dei legami comunitari ed alla mancanza di rapporti interpersonali sul piano dell’affettività. Il livello di reddito e di consumo restano quindi caratteristiche essenziali della povertà, ma non la esauriscono più. Le nuove condizioni di vulnerabilità sono quindi anche trans-materiali, poiché si collocano contemporaneamente all’interno ed all’esterno della sfera materiale e si proiettano verso la sfera immateriale dei comportamenti sociali.

Una visione che intende superare la definizione di povertà esclusivamente in termini di deprivazione economica, dovrebbe indurre a pensare perciò alla coesione sociale, intesa come ricostruzione dei legami a partire dalle istituzioni economiche, culturali, politiche e civili, come una parte importante di azione al superamento e alla risposta al problema delle nuove povertà. Occorrerebbe cioè mettere in atto vere e proprie strategie e azioni per aumentare l’intensità di capitale sociale19, in modo tale da allentare quella spirale negativa che incide sulla crescita dei processi di impoverimento.

Elisa Badiali è Dottoranda in Sociologia, collabora con il Centro Studi Avanzati sul Consumo e la Comunicazione Ces.co.com dell’Alma Mater Studiorum – Università di Bologna

1) Istat, La povertà in Italia, 2012
2) Sennet, L’uomo flessibile. Le conseguenze del nuovo capitalismo sulla vita personale, Feltrinelli, Milano 2007
3) G. Pieretti, Per una cultura dell’essenzialità, Franco Angeli, Milano 2009, p. 188
4) M. Bergamaschi, Ambiente urbano e circuito della sopravvivenza, Franco Angeli, Milano 2007, p. 27
5) A. Sen, La disugualianza. Un riesame critico, Il Mulino, Bologna 1992
6) A. Giddens, Le conseguenze della modernità, Il Mulino, Bologna 1994, p. 96
7) U. Beck, La società globale del rischio, Asterios Editore, Trieste 2001
8) Z. Bauman, La società dell’incertezza, Il Mulino, Bologna 1999, p. 11
9) Putnam, Capitale sociale e individualismo. Crisi e rinascita della cultura civica in America, Bologna, Il Mulino 2004