Il vero viaggio è l’imprevisto, il regalo della vita che non ti aspetti.

Pierluigi Musarò intervista Vinicio Capossela

Lunga l’attesa, la giornata si fa calda, la notte è stata lunga. Da settimane ormai si vocifera in città l’arrivo dell’ospite d’onore del Festival. Notizia confermata pochi giorni prima, e subito riportata dai giornali locali. Vinicio Capossela approda a IT.A.CÀ, domenica 2 giugno alle 12, per inoltrare gli astanti nei meandri della crisi greca e delle sue ancestrali tradizioni musicali…  a patto che lo si vada a prendere a Cremona, dove la sera prima ha tenuto un concerto in compagnia di altri artisti cretesi.

La missione è dura, ma non impossibile. L’eccitazione si alterna alla stanchezza: il festival è al suo nono giorno, un viaggio lungo e intenso. Ma si parte, con Caronte al volante, molliamo gli ormeggi della barchetta di cartone in piazza Re Enzo a Bologna e ci dirigiamo in piazza del Duomo a Cremona. Da un medioevo ad un altro, con in mezzo la notte alcolica trascorsa insonne grazie all’ospitalità estrema nella cascina padana di amici ritrovati.

Finalmente giunti a Bologna, all’altezza del mezzogiorno infuocato dalla festa della Repubblica, non so dire se il nostro ospite è più vicino all’avventuriero Ulisse o allo sventurato Polifemo. Glielo chiederò dopo. Per ora mi basta aver superato indenne Scilla e Cariddi.

A pedali su due ruote raggiungiamo la scena dell’incontro, piazza Re Enzo appunto, dove la folla attende da ore sulle note della musica de La Van Guardia.

Tre, due, uno, ciak. Entriamo in scena, Vinicio, la greca Vasiliki e il sottoscritto, emozionati per la possibilità di animare il setting ad hoc allestito dai creativi del Festival (Loparco, Vicolo Paglia Corta e Gramigna).

Dopo 8 lunghe e intense giornate di festival, con eventi e tappe che hanno animato l’intera regione, ci aspetta il momento della degna chiusura, in compagnia di un cantore, marinaio e poeta che ha deciso di lasciarsi sedurre dal canto delle sirene di IT.A.CÀ. Vinicio Capossela, il gigante e il mago che da anni ci emoziona con i testi e le melodie delle sue canzoni, approda a IT.A.CÀ per dialogare sul suo ultimo libro, Tefteri, che affronta il viaggio come esercizio di ribellione e di identità, un libro scritto in italiano ma sentito in greco, per debito nei confronti di una Grecia, che è la Grecia di Omero, delle cattedrali, dei templi. La Grecia delle sommosse e delle rivoluzioni. La Grecia della crisi che ha donato al mondo oltre alla civiltà anche una delle più straordinarie musiche urbane del mondo: il rebetiko. Vinicio, cos’e’ il rebetiko?

E’ una riflessione non solo sulla Grecia ma sull’uomo e sul periodo che stiamo vivendo. Tefteri è un libro scritto in greco, per debito nei confronti della Grecia, che ha donato al mondo oltre alla civiltà anche una delle più straordinarie musiche urbane del mondo: il rebetiko, appunto. Rebetiko è esercizio di ribellione e di identità, per tenere in esercizio il mangas che è in noi, quella parte di noi che ci ricorda che siamo originali: che abbiamo un origine, che siamo uomini. Il viaggio alla scoperta del rebetiko è stato per me un viaggio nel viaggio, come fu il viaggio verso Itaca. Bellissima la poesia di Kavafis, che vorrei leggervi adesso, con Vasiliki che la recita in greco e io traduco in italiano, seguendo il testo ovviamente:

Quando ti metterai in viaggio per Itaca
devi augurarti che la strada sia lunga
fertile in avventure e in esperienze.
I Lestrigoni e i Ciclopi
o la furia di Nettuno non temere,
non sarà questo il genere d’incontri
se il pensiero resta alto e il sentimento
fermo guida il tuo spirito e il tuo corpo.

IT.A.CÀ ritorna. Siamo al Festival del turismo responsabile, alla sua quinta edizione, e il festival parte proprio dall’idea di Itaca, come isola irraggiungibile, metafora del cammino che è la vita, un’esperienza dove si possa trovare la sfida, il rischio. Ma il festival è anche IT.A.CÀ, che in dialetto bolognese significa sei a casa?, perché il viaggio responsabile parte da casa e arriva a casa, una qualsiasi casa, una qualsiasi Itaca da raggiungere, dove più che la meta conta il percorso e il modo in cui ci si mette in cammino. In una delle tue canzoni scrivi “Itaca ha dato il viaggio. L’hai avuta dentro, ma non ci troverai nessuno”. Una domanda di rito che rivolgiamo ai tanti ospiti che attraversano questo festival: qual è la tua Itaca?

Ci sono due modi per viaggiare: uno è girare per il mondo, l’altro è stare fermi, seduti a un tavolo con gli occhi umidi, ascoltando il magma che abbiamo dentro. Un’Odissea da tavolo. Itaca per me è proprio questa Odissea da tavolo. E poi Itaca mi riporta al ricordo di Lucio Dalla che a Itaca ha dedicato una canzone bellissima.

Rebetiko rimanda all’idea di ribelle, indisciplinato. In persiano, anticonformista. Oppure del contemplare, fantasticare, girovagare. Comunque, Rebetiko rimanda ad un modo di vita che non esiste più… metafora della questione greca oggi?

È la nostra civiltà moderna, il rudere, come scriveva Henry Miller, che fece un viaggio in Grecia nel 1939, mentre la guerra mondiale stava per distruggere l’Europa. Miller voleva fuggire l’Occidente, detestava gli Stati Uniti, da dove proveniva, e allora andò in Grecia, terra che gli rivelò qualcosa che assomigliava alla felicità. Da questo viaggio e dalle amicizie, dalle parole dette e ascoltate, nacque Il colosso di Marussi, un libro che Miller pubblicò nel 1941 e che non è un libro di viaggi: non è nemmeno un’opera sulla Grecia, ma una specie di divagazione, una libera esplosione di storie e immagini. Il rebetiko è una musica popolare di sradicati, che dice la verità senza lasciare fuori il dolore e il peccato, l’ho scoperto ai tavoli delle taverne greche. Il mio Tefteri è un viaggio da tavolo, perché il viaggio è ascoltare, e al tavolo di una taverna ti arriva la storia di un paese, parole e canzoni meravigliose, popolari, di grande forza anche se mormorate, profondamente politiche perché dicono cosa stia o non stia bene. Il rebetiko ti smaschera, per questo ai tavoli bisogna stare ancorati: la vita ti aggredisce. La verità è sempre nel tavolo!

Sulle note di questa musica urbana e struggente hai viaggiato e incontrato uomini e donne nelle taverne di Atene, Salonicco, Creta, raccontando una Grecia inedita, sofferente e fiera, che riscopre il rebetiko come musica della krisis.

Il libro inizia proprio con la parola Krisis, dal greco krino, separazione, dividere….

Crisi è un concetto adatto al rebetiko, che è musica nata da una separazione, e anche alla Grecia, da cui l’Europa si sta separando, nel disprezzo che sta alla base di ogni rifiuto. Di Grecia si sente molto parlare in termini che ricordano la tragedia, che proprio qui è stata inventata. Oggi sembra che la fede sia nella Banca, nei soldi.

In God we trust c’è scritto sul dollaro americano!

Infatti, e se penso a questo mi chiedo: oggi siamo quello che siamo in grado di donare o ciò che possediamo? Il credito degli uomini è anche il loro valore. Tragedia rimanda alla parola tragudi, canzone, e nella sua radice la parola tragos, capro. Tragodia, canto del capro. Capro espiatorio dei peccati dell’Europa è il paese che ne è la madre culturale. Europa, figlia di un re di Creta sedotta da Zeus. Tutto quello che viene dalla Grecia, fin dall’ antichità, ha un carattere universale. Ci parla dell’uomo, dell’anthropos. Ci dice dell’uomo, di cosa sta succedendo all’ uomo d’ Occidente in questo momento di “crisi”, di scelta, appunto. Queste sono alcune parole che ho incontrato e che vi restituisco, perchè le parole non sono dei sassi, che una volta lanciati rimangono lì, le parole sono come un’onda, circolano, fanno il giro del mondo e tornano indietro.

Crisi economica, il politeismo che animava l’Olimpo svuotato dal monoteismo della dittatura finanziaria, il crollo del sacro sotto la scure profana della troika, del neoliberismo come capitale che esalta il tempo dell’Utile, mette tutto in vendita e combatte con le armi finanziarie di distruzione di massa… oppure si tratta di una più profonda crisi morale, di coscienza, della decadenza di un mondo piccolo-borghese vittima dell’omologazione di massa, come già Pasolini denunciava negli anni ’60?

Crisi è il momento in cui si affronta l’ignoto, un momento di incertezza che provoca dolore ma che fa intravedere il cambiamento.Occorre una reattività molto forte alle cose, non solo in maniera distruttiva ma anche in modo creativo e costruttivo.

Giustamente richiami Pasolini, perché è vero, la crisi non è solo economica ma anche culturale , cambiamento dei valori, consumismo .. e allora cosa rimane di me?

La Grecia ha perduto i suoi piatti spaccati e le sue sigarette Santé. Ha perduto le lucciole, come diceva Pasolini del passaggio analogo avvenuto negli anni Sessanta in Italia.

Di certo, per l’Europa unita occorre tener conto delle differenze. Un popolo in cui le taverne sono aperte fino alle 3 di mattina, con gente che balla e canta, non può avere la stessa economia della Germania.

La Grecia sceglie, anche a livello istituzionale e politico, l’Italia no.

La crisi funziona come rinascita se siamo disposti alla catastrofe. Anche il rebetiko è musica nata da una catastrofe. Katastrofìs, così ancora oggi i greci chiamano la guerra greco-turca del 1922, la distruzione di Smirne e l’esodo dei greci di Asia Minore.

Rebetiko è scelta politica, è appartenenza. È un canto di sirena che riecheggia nei porti del mare nostrum. Per il rebetiko non si applaude ma si rompono piatti… ti è capitato di romperne davvero di piatti? O si tratta di metafore?

Nelle notti trascorse nelle taverne mi ha contagiato l’entusiasmo, fuori dalla tristezza della crisi. Entusiasmo significa essere fuori di sè. Nell’entusiasmo, anche spaccare i piatti è importante. E qualche piatto, in certe occasioni, si spacca anche con la testa!

Grecia terra di Oracoli: Cassandra, la profetessa inascoltata, Tiresia con i suoi poteri divinatori. Qualcuno dice che la Grecia è solo l’inizio, un esperimento per vedere cosa succede, come reagisce la gente. Tu scrivi che crisi è anche crisalide, trasformazione, metamorfosi, e che fa paura, paura dell’ignoto, del cambiamento verso la possibilità di essere migliori.

Parlando della Grecia citi Alba Dorata al 7 per cento, sottolineando che il fascismo è la decomposizione del capitalismo. Qualcuno a un certo punto, seduto al tavolo di una taverna, dice: “Purtroppo per fare una persona ci vogliono anni e tanto lavoro su se stessi. Per fare un fascista bastano cinque minuti di disinteresse”.

Insomma, il razzismo ha tanti difetti ma un grande pregio: si fa prestissimo a farlo!

Grecia come terra di approdo per tanti migranti. Un tempo vigeva questo corpus di leggi che imponevano l’ospitalità dello straniero. Che fine ha fatto la xenia? Possibile che oggi sia rimasta solo la xenofobia?

Sicuro, la Grecia può essere un esperimento sociale, ma non è vero che esiste solo la xenofobia. Atene è cambiata, il clima è diverso, soprattutto per quelli che vengono da fuori. Il fascismo si è affermato come un desiderio di ordine, contro i diktat dell’Europa, ed è facile prendersela con i più deboli. Però io ho trovato anche tanta ospitalità, persone aperte e accoglienti che hanno voglia di condividere.

Pagina dopo pagina, il tefteri è la trascrizione dei debiti e dei crediti che bisogna fare per «imparare il mestiere di campare». Il registro dei conti in rosso che tutti abbiamo con la vita e con la morte. Tu che debiti hai?

Oggi si parla tanto di debito. Il massimo debito di partenza è quello per il quale siamo venuti al mondo.

Nel Ballo di San Vito canti: “Questo è il male che mi porto da 30 anni addosso, fermo non so stare in nessun posto”. Dunque, partire è un po’ morire, rompere i legami con la casa, tagliare i ponti col padre; oppure arrivare è un po’ morire, perchè si perde l’alter ego avventuriero che solo il viaggio ci dona?

Tutte le due cose insieme. Morire è andare avanti, vivendo.

Viaggio deriva da viaticum, dal companatico, dalla bisaccia, ciò che ti serviva per sopravvivere in viaggio. Mettersi in viaggio ha a che fare con la sopravvivenza. Viaggiare ha a che fare con la morte e la vita. Diversi autori hanno immaginato il ritorno di Ulisse. Credo che il ritorno non ci sia. Ci sono solo momenti che ci servono per mettere insieme la nostra vita. Il viaggiatore solo è quello che arriva più lontano ma anche quello che ha strada da rifare.

A proposito della morte: Caronte, molto presente nelle canzoni di rebetiko, anche lui incarna la sofferenza. È la personificazione della morte. Noi traduciamo Caronte, ma è Charos, la morte in persona. Lo incontri come si incontra qualcuno per strada. Lo chiami per nome. Ci dormi insieme. Come accade all’ Odisseo di Kazantzakis: la morte va a riposare con lui, stanca del cammino e, viandante come lui, dormendo ha un incubo: sogna la vita. Una società si giudica nella sua autenticità dal modo in cui sceglie di affrontare la morte. E davanti a Charos siamo tutti uguali, siamo nudi… ton Charo… vghike o Charos Panaghia… Charos è traghettatore perché sta a un confine, quello tra esistere e non esistere. Il rebetiko, come ha detto Manolis Papos una volta, è anche questo: stare di qua o di là da un confine. Di qua o di là da un rigagnolo d’ acqua. Stare da un lato o da un altro di un quartiere. Di nuovo la parola kríno, da cui «crisi». Scegliere.

Tra Ulisse e Polifemo, da che parte stai?

L’ombra di Ulisse mi ha avvolto fin dall’infanzia nella mia storia e nella sua geografia.

Il male del ritorno. Ulisse e Polifemo erano entrambi soli. Polifemo era talmente solo che aveva un occhio solo. Forse sto dalla parte di Polifemo, l’incivile, che non conosceva le regole della civiltà.

Leggendo il tuo libro ho ripensato a Tiziano Terzani. Terzani aveva accumulato tante anticaglie e oggetti lungo i suoi viaggi in Asia, ma gli ultimi anni, nel suo ritiro verso l’ultimo viaggio (“un viaggio involontario, non previsto, per il quale non avevo carte geografiche, per il quale non mi ero in alcun modo preparato, ma che di tutti i viaggi fatti fino ad allora era il più impegnativo, il più intenso”), portò con sé in India solo una teiera, un leggio e un cuscino. Terzani distingueva tra uomini archivio (quelli che raccolgono tutto e collezionano cimeli del viaggio) e uomini mongolfiera, che viaggiano con bagagli leggeri. Tu sei più archivio o mongolfiera?

Il peso più grande è viaggiare con sè stessi, spesso è un peso “insostenibile”. Bisogna ricordare che se il viaggiatore solo è quello che arriva più lontano, è anche quello che ha più strada da fare per tornare indietro. Per questo bisogna affidarsi alla strada, al cammino. Il vero viaggio è quello che ti viene regalato dalla vita, l’imprevisto, che ti permette di conoscere qualcosa di te. Il vero regalo del viaggio sono le persone che decidono di regalarci quello che sono. Come la poesia di Kavafis, ma anche come la storia che racconta di un padre che dice alla figlia: Buttati dentro su tutto, basta che sai quando e come uscirne. E non tornare a casa se non sai bere, mangiare, amare: se non hai fatto questo e hai fatto tutto il resto, per me hai fallito.

Fatti non foste a viver come bruti,
Ma per seguire virtute e canoscenza
Considerate la vostra semenza,
Nostos nostos, perdere il ritorno

Nostos, nostalgico, chi brama il ricordo di un’epoca passata. A proposito di parole nomadiche che fanno peripli incredibili, Paolo Rumiz ricorda la parola saudade, che viene da sev dah, che significa bile, la secrezione del fegato, il vero centro delle emozioni secondo gli antichi. “Mio fegato” si diceva in India alla persona amata, non “mio cuore”. Sev dah, da cui saudade, arriva dagli ebrei sefarditi in Andalusia, che poi furono scacciati da Isabella la Cattolica e se la portano dietro fino a Sarajevo. La narrazione è figlia del cammino? Che rapporto c’è tra cammino scrittura?

L’etimologia delle parole è importante, si scopre il vero significato. Parole nomadi, come gli uomini. Pensa ai greci di Asia Minore. Il milione e mezzo di profughi che, dopo il trattato di Losanna, si riversarono, senza possedere più nulla, in una madrepatria per niente felice di accoglierli. Con loro portarono una musica e usanze d’altrove, si ammassarono in quartieri suburbani che cambiarono la fisionomia sociale della “Parigi del Mediterraneo orientale”, come Atene veniva definita negli anni Venti, e come la voleva la politica di occidentalizzazione culturale del giovane stato greco. Le parole e il viaggio. In viaggio si scopre il tempo del sacro, che è il tempo dell’inizio, quello che viene dopo il Chaos. Il viaggio è il rito con cui celebriamo il mondo e il sacro lo cogliamo nel cammino, nei segni del cielo e della terra, nelle apparizioni del giorno, delle piante, delle pietre. Poi con la scrittura si rinnova il viaggio, lo si rivive.

Nella conversazione le parole si assottigliano, nel ricordo le frasi si confondono. Vinicio conclude con “Il vero viaggio è l’imprevisto, il regalo della vita che non ti aspetti”. Mentre noi, ringraziando gli astanti, concludiamo questo nostro  viaggio da marinai in bottiglia augurandoci che Itaca o IT.A.CÀ ci possa regalare un’altra volta il viaggio.

Pierluigi Musarò è Direttore artistico di IT.A.CÁ migranti e viaggiatori: Festival del Turismo Responsabile