La scommessa della Green Economy

Le 3 T per un nuovo sviluppo: Terra, Territorio, Tenuta

di Aldo Bonomi

La Green economy può rappresentare la quarta stagione del capitalismo italiano? Vi si possono trovare le tracce di un capitalismo che incorpora nella produzione di merci e servizi il concetto del limite, aiutato da una green society orientata alla sobrietà che è altro dalla soluzione estrema e traumatica della decrescita? Sono questi alcuni degli interrogativi cruciali per comporre l’agenda di un cambiamento possibile

Ho sempre diffidato delle mode e delle retoriche affluenti. Se poi sono applicate alla scienza triste dell’economia mi è bastata quella della new economy. Con relativa bolla speculativa antesignana del botto della grande crisi. Adesso va di moda, come unica debole traccia di speranza, la green economy. Occorre, per evitare le sirene suadenti, organizzare il pessimismo. Che induce a pensare che green economy può anche essere il finanzcapitalismo (Gallino) che dopo i subprime dei mutui delle nostre case si mangia l’acqua, il grano, il riso, le foreste…

Solo dodici società controllano mille miliardi di dollari di materie prime, ciò che ci è indispensabile come bene comune. L’ottimismo della volontà ci porta a scomporre e ricomporre questa parola chiave che suona come un ossimoro: l’economia verde. Ci aiuta il rapporto annuale sulle geografie di Green Italy realizzato da Unioncamere e Symbola. La convinzione che in alternativa al finanzcapitalismo possono venire avanti tracce di un capitalismo che incorpora nella produzione di merci e servizi il concetto del limite, aiutato da una green society orientata alla sobrietà che è altro dalla soluzione estrema e traumatica della decrescita.

L’esempio di Terra Madre, celebrato a Torino in settimana, che ha le sue radici nelle Langhe del mondo dei vinti di Nuto Revelli e che, passando per Pollenzo e slow food di Carlo Petrini, ha alimentato una coscienza di luogo globale e reti lunghe di commercializzazione delle qualità italiane come EatItaly di Farinetti che arrivano sino a New York. Senza dimenticare che ad Alba e dai suoi noccioleti, senza passare per la borsa, decolla la più profittevole impresa italiana: la Ferrero. Inoltre vi è la costatazione che ormai nell’agenda balbettante della politica sovranazionale si procede per vertici sull’ambiente e si è posto il tema della food security, parola chiave anche del prossimo Expo di Milano: nutrire il pianeta. Dopo le 3T della new economy, Tecnologia-Talento-Tolleranza, appaiono le 3T della Terra come risorsa, del Territorio da ripensare e della Tenuta dell’ecosistema.

Scomponendo la green economy nella sua componente ecologica e del limite appaiono le mie 3T che parrebbero un ritorno ai fondamenti in opposizione alle 3T della classe creativa di Richard Florida. La questione è ragionare sul come la parola chiave economia saprà tenerle assieme. Il rapporto Green Italy sul territorio italiano è appunto questo. Vi si assume questo paradigma produttivo con una traccia che rinnova la qualità del made in Italy. Nella geografia dello sviluppo si parte dall’agricoltura, dal suo carattere multifunzionale come leva strategica del paese oltre che per garantire la produzione di cibo (food security), per ripensare il territorio, la tutela del paesaggio e della biodiversità, la stabilità idrogeologica e della comunità che viene dopo il mondo dei vinti. Poi però si entra e si attraversa l’Italia del capitalismo molecolare diffuso con le sue imprese leader sino a rivisitare il fordismo in mutazione dell’automotive e l’industria energetica e del riciclo. Andando per filiere: dal legno arredo che sempre più utilizza materie ecologiche e legno da foreste certificate al tessile calzaturiero che valorizza fibre tessili animali con progetti che coinvolgono i produttori locali, alla ceramica e alla concia ad alto impatto e ad alto consumo di acqua che in dieci anni si è ridotto del 23%, all’industria cartaria dove il 57,2% della carta prodotta nasce dal riciclo.

Si affronta anche l’edilizia, laboratorio dei nuovi materiali, che si sta progressivamente spostando dalla costruzione alla manutenzione ristrutturazione. Poi l’industria chimica con l’alta percentuale di imprese che negli ultimi tre anni hanno investito in tecnologia green. Con settori come la bioplastica con il caso della Novamont che ha contaminato big player come Eni. Sino ad arrivare al motore immobile del fordismo nel ciclo dell’auto. La filiera italiana, piattaforma che va oltre la Fiat alimentando i marchi tedeschi, va ben oltre il 43% delle aziende che hanno promosso investimenti nelle motorizzazioni ibride o elettriche sino alla produzione del pneumatico green da parte della Pirelli. Tracce di una geografia del possibile che fanno intravedere la quarta stagione del capitalismo italiano che recupera lo spirito di Adriano Olivetti basato sul rapporto tra impresa territorio e comunità, messo in mostra nel padiglione italiano di architettura alla Biennale di Venezia. Si comincia a rappresentarlo e raccontarlo come traccia di un futuro possibile. Perché, come sostiene Ermete Realacci animatore di Symbola, l’Italia deve fare l’Italia.

Realisticamente, al di là delle retoriche che pensano il mercato del lavoro e la produzione di ricchezza come fossero vasi comunicanti. Non è che nelle Langhe si recupera ciò che si perde con la Fiat a Torino. Il grande artigianato del gusto e del vino non colmerà mai i vuoi dell’industria che arranca. Dipenderà dall’intreccio che la green economy saprà produrre tra agricoltura, territorio e la ristrutturazione e l’innovazione del nostro sistema manifatturiero e dal come riusciremo a mantenerlo il secondo d’Europa. Dalle politiche e dalle strategie dei grandi gruppi dell’energia, delle reti e delle multiutilities che occupano ormai la punta alta della piramide del sistema capitalistico. Se guardo Green Italy dai miei microcosmi non posso che dire: proviamoci. Ripartiamo da noi, dai nostri distretti, dalle nostre piattaforme territoriali, dalla nostra terra.

Tratto da “Microcosmi”, Il Sole 24 Ore, 28 ottobre 2012.