Manifesto per la soppressione dei partiti politici

di Lapo Berti –

“Nell’attesa, possiamo quanto meno sperare che le prossime consultazioni elettorali riportino in vigore un sistema di scrutinio che non sfavorisca più sistematicamente il candidato che si ponga come responsabile di fronte ai propri elettori, a vantaggio di chi non deve fare i conti con altri che il proprio partito”.

Anche se sembrano scritte nell’Italia di questi giorni, sono parole scritte più di sessant’anni fa e pubblicate, per la precisione, il 21 aprile 1950. Sono dovute alla penna del grande scrittore francese André Breton, che le pubblicò nella presentazione di uno scritto straordinario di Simone Weil, morta nell’agosto del 1943 a soli 34 anni: Note sur la suppression générale des parties politiques. Allora come oggi, il problema era di sapere se i partiti servono alla causa della democrazia o se sono, nella maggior parte dei casi, una delle cause della sua mortificazione. Naturalmente, i partiti che Simone Weil aveva di fronte erano diversi da quelli di oggi, come diverso era il contesto politico. Ma il problema era già quello di cui oggi viviamo l’ennesima metamorfosi, un problema che è nato con la Rivoluzione francese e non ci ha più lasciato: “Sul continente europeo, Il totalitarismo è il peccato originale dei partiti”.

Quest’affermazione racchiude il nucleo della riflessione che la Weil conduce sullo stato della politica in Francia negli anni agitati che portano alla seconda guerra mondiale.

Il partito politico, dice la Weil, è, in primo luogo, “una macchina per fabbricare passione collettiva”, intendendo con ciò “un impulso al crimine e alla menzogna” perché, mentre le passioni individuali finiscono con il neutralizzarsi reciprocamente, dando luogo a quella che Rousseau chiamava la volontà generale, nella passione collettiva gli impulsi negativi si rafforzano vicendevolmente all’ennesima potenza. In secondo luogo, è “un’organizzazione costruita per esercitare una pressione collettiva sul pensiero di ognuno degli esseri umani che ne fanno parte”. In terzo luogo, “l’unico fine di qualunque partito politico è la sua propria crescita, e questo senza alcun limite… Esattamente come se il partito fosse un animale all’ingrasso e l’Universo fosse stato creato per farlo ingrassare”. Da cui la sentenza finale: “I partiti sono organismi pubblicamente, ufficialmente costituiti in maniera tale da uccidere nelle anime il senso della verità e della giustizia”.

Sono parole dure, severe, che danno espressione radicale allo sgomento con cui, intorno al 1940, si guardava alla catastrofe della democrazia che i partiti non avevano saputo contrastare e, in alcuni casi, avevano contribuito a produrre, con particolare e drammatica evidenza in Francia. Il tragico destino che avrebbe divorato i partiti comunisti nel secondo dopoguerra era di là da venire, ma gli esempi di totalitarismo dei partiti, di sterilizzazione e asservimento delle coscienze, erano già abbastanza numerosi da sollevare interrogativi inquietanti. I partiti, così come li abbiamo conosciuti, sono davvero lo strumento supremo e necessario della democrazia oppure bisogna pensare a un’architettura istituzionale diversa, a organismi diversi, per consentire ai cittadini di esprimere liberamente e in maniera compiuta, e non semplicemente con il rito del voto elettorale il loro pensiero per concorrere alla formazione delle scelte collettive? Si può e si deve pensare a forme di democrazia diretta? In definitiva, si può fare a meno dei partiti?

La conclusione cui perviene la Weil è drastica, assoluta, senza possibilità di replica: “La soppressione dei partiti costituirebbe un bene quasi allo stato puro. È perfettamente legittima nel principio e non pare poter produrre, a livello pratico, che effetti positivi”. Oggi, dopo che la partitocrazia si è divorata la maggior parte dello spazio pubblico, in una misura forse sconosciuta alla Weil, e, soprattutto, ha colonizzato la mente e la volontà anche di coloro che non ne fanno parte o addirittura l’avversano, l’affermazione della Weil appare ingenua e utopistica, se non pericolosa, tanto forte è l’assuefazione alla presenza dei partiti. Eppure, in anni non lontani da quelli in cui furono formulate queste considerazioni, un altro personaggio controcorrente e dotato di una carica utopistica che non ha ancora esaurito i suoi effetti, vagheggiava una democrazia senza i partiti. Si chiamava Adriano Olivetti ed era mosso dall’idea, che in parte mise anche in pratica, di realizzare un sistema politico-sociale che fosse in grado di assoggettare le pulsioni del capitalismo alle esigenze delle persone e che, proprio per questo, voleva renderle protagoniste della vita sociale tramite la partecipazione diretta alle decisioni collettive, senza la mediazione di quegli organismi troppo opachi ed esposti alla corruzione che sono i partiti. Forse, di fronte all’ennesimo sfascio della democrazia prodotto dal regime dei partiti, dovremmo ispirarci a questi esempi per ritrovare il gusto e il coraggio di un pensiero radicale e anticonformista di cui oggi si sente particolarmente la mancanza.

Simone Weil, Manifesto per la soppressione dei partiti politici, Castelvecchi, Roma 2012.