Considerazioni estive sulla primavera italiana

di Lapo Berti
Il vero significato di un evento è, non di rado, il contrario di quello che appare a prima vista. Generalmente, siamo portati a valutarlo sulla base delle opinioni correnti, nell’ambito di riferimento del contesto dato. Sono considerazioni che vengono in mente quando si guarda complessivamente alla sequenza di eventi sociali che ha caratterizzato questa “primavera italiana” a partire dalla grande manifestazione delle donne del 13 febbraio scorso e si tenta di coglierne la vera portata e il vero significato misurandoli sugli esiti prevedibili, sulla sfondo di tendenze in atto che sia eventualmente possibile individuare nel caotico divenire della società.

Per evitare il rischio di superficialità che sempre accompagna i tentativi di comprendere, nel loro insieme, fenomeni complessi e variegati, è bene avvertire subito che anche la “primavera italiana” è il risultato composito di spinte e intenzioni anche molti diverse e rappresenta il precipitato di comportamenti che hanno le motivazioni e le finalità più diverse, talora, forse, addirittura conflittuali.

La prima osservazione che viene da fare è, forse, anche la più pacifica. Si è trattato di movimenti che scaturiscono da un’insoddisfazione diffusa e radicata rispetto ai modi con cui il sistema della politica nel suo complesso, incluso, quindi, il variegato campo delle opposizioni, hanno tentato di interpretare le esigenze che si sono manifestate nella società e di darvi una risposta. L’offerta politica tradizionale, in tutte le sue componenti, non fa più presa e, soprattutto, non offre più prospettive credibili a chi è in attesa di risposte. Sullo sfondo aleggiano un disagio e una delusione profondi alimentati da un periodo troppo lungo di aspettative inevase. La profondità e l’estensione del disagio sono segnalate dalla passione, anche un po’ naïve, con cui ampi strati di popolazione, prevalentemente giovanile, ma non solo, si sono mossi alla riconquista di un ruolo, nel tentativo di riappropriarsi della loro capacità di decidere e di contare.

La seconda osservazione è già meno scontata e risulterà sgradita a qualche palato. Al di là della passione che ha soffiato nelle vele dei movimenti referendari, trainando con sé la riscoperta di valori e ideali collettivi che sembravano confinati in angoli remoti e poco significativi dello scenario sociale, si legge abbastanza chiaramente la ricomparsa perentoria e travolgente dell’interesse personale. La grande partecipazione al voto e la plebiscitaria affermazione della volontà abrogatoria è figlia di una generale preoccupazione di veder invaso o comunque toccato il backyard, il giardino privato, in cui i più pensano di vivere o vorrebbero vivere. Il nucleare ha rappresentato il versante alto di questa preoccupazione, mosso da una paura quasi esistenziale di fronte allo scatenamento perverso di una natura che anche l’uomo del XXI secolo non è in grado di controllare pienamente. Il risultato relativo alla prospettiva della cosiddetta “privatizzazione” dell’acqua è quello che rivela il versante più gretto della grande mobilitazione referendaria. Dietro, insieme alle nobili motivazioni di coloro che hanno scomodato anche il ricordo della francescana “sorella acqua”, vi è il timore di vedersi chiamati direttamente, tramite l’aumento delle tariffe, a contribuire a un risanamento della rete idrica che comunque andrà fatto e finanziato. Più sotto, in uno strato della psiche collettiva ancora più profondo, si scorge l’antico sentimento italico alla ricerca perenne del santo protettore e, in mancanza d’altro, dello stato “che si fa carico” dei problemi di tutti, come se poi non fossero tutti a doverne pagare il costo, con la speranza sottintesa e altrettanto genuinamente italica che, così facendo, magari saranno gli altri a sostenere il costo maggiore. Considerato in questa ottica, il risultato referendario rivela la stabilità di un atteggiamento culturale e antropologico che alberga probabilmente negli strati profondi dell’inconscio collettivo e spinge gran parte della popolazione, specialmente meno attrezzata culturalmente, a rifugiarsi nella ricerca di protezione piuttosto che nell’assunzione diretta di responsabilità e di affidamento nella propria capacità di fare. E’ un atteggiamento premoderno, che ha a lungo alimentato le grandi culture popolari del nostro paese, ricevendone in cambio sostegno e nuova linfa, e che genera oggi il variegato fronte del grande rifiuto opposto alla modernizzazione globale e alla sfida della competizione sui mercati.

La terza osservazione riguarda più direttamente la sfera della politica. Se quanto abbiamo appena osservato è vero, non si può fare a meno di considerare che questo è il risultato di una politica gregaria, che da molto tempo ha rinunciato a contribuire attivamente alla formazione di un progetto e di una cultura in cui si potessero riconoscere le masse popolari interessate ad affrontare e controllare i processi di innovazione che l’evoluzione del contesto mondiale propone e, spesso, impone. E’ prevalsa una politica autoreferenziale, interessata prevalentemente, se non unicamente, alla conservazione del potere e dei privilegi di coloro che compongono il ceto politico, la “casta”, come spesso si preferisce chiamarla senza tuttavia cogliere tutte le drammatiche implicazioni del suo predominio. Si è pensato, in questo senso, che fare politica significasse cercare costantemente di essere in sintonia, magari anche solo sul piano della comunicazione e non su quello delle realizzazioni, con quello che i sondaggi dicono degli umori della gente. La politica, tutta, ha rinunciato a quella missione che, nel mondo delle moderne democrazie, ne giustifica e legittima l’esistenza: il farsi tramite di progetti attraverso i quali la comunità si riconosce, progredisce e continuamente rigenera la propria coesione.

Pur nella sua schematicità, questo appunto non sarebbe completo se non si dedicasse un’ultima considerazione a quello che veramente c’è di nuovo nella “primavera italiana”: il ruolo delle comunità elettroniche e dei loro variegati strumenti. La grandiosa mobilitazione spontanea che si è verificata non sarebbe stata possibile senza la comunicazione informale e per ciò stesso, sembrerebbe, affidabile e riconosciuta che viaggia attraverso i tanti canali della rete, a cominciare dai network più diffusi, che spesso e volentieri vengono usati solo per diffondere stupidaggini inutili, ma che sono suscettibili di diventare potentissimi e velocissimi strumenti di una comunicazione immediata, che veicola contenuti e obiettivi alla velocità della luce e spiazza le pachidermiche forme di organizzazione della politica tradizionale. Per l’Italia si tratta di un fenomeno nuovo che potrebbe aprire qualche spiraglio di luce nel plumbeo mondo della partitocrazia. Certo, si tratta, in ogni caso, di forme di protagonismo “debole” di strati della popolazione che, per quanto ampi, non saranno in grado di quotarsi sul mercato della politica. Gli strumenti della rete consentono, fin troppo agevolmente, un’identificazione elementare dei soggetti e una loro solidarietà transeunte sulla base di parole d’ordine e obiettivi semplici, addirittura elementari. Manca, a oggi, la possibilità di elaborare dal basso, tramite gli strumenti della rete, prospettive più complesse, in grado di condizionare in profondità il modo di essere dei partiti e, al limite, di sostituirli.

Riassumendo, la “primavera italiana” rappresenta un passaggio complesso e contraddittorio nell’evoluzione della società italiana, cui appare inappropriato attribuire il nome di “svolta” se con questo termine si intende l’avvio di una fase politico-sociale interamente nuova o, addirittura, un cambio di sistema. Verrebbe da dire che si sono viste all’opera, con una richiesta abbastanza perentoria di protagonismo, forze sociali che esprimono energie vergini che però, spesso, rischiano di rifluire o rifluiscono in canali politici obsoleti, facendosi riconoscere e riconoscendosi in ideologie che, da tempo, si sottraggono alla prova dei fatti. Vecchio e nuovo convivono in un pericoloso amalgama che può ridare fiato a posizioni politiche storicamente sconfitte e incapaci di esprimere un progetto innovatore. In questo caso, gli spazi che la “primavera italiana” sembra aver aperto e conquistato si chiuderebbero rapidamente, mettendo il sigillo a qualsiasi speranza di rinnovamento delle classi dirigenti determinato dal ricambio generazionale e dall’ascesa di nuovi operatori politici. Non si può, dunque, cantare vittoria e si è costretti a rimanere sospesi fra un vecchio (fatto di tante cose) che non regge più e un nuovo (fatto di non si sa che cosa) che non c’è ancora.