Visioni surreali: lavoro, cultura e condizione della donna nell’Italia di oggi

Bart Herreman

I messaggi dei politici, i riassunti dei giornali, le testimonianze degli interessati raccontano com’è il reddito di cittadinanza e consegnano al pubblico visioni surreali. Forse le visioni aiutano a sperare, non aiutano ad affrontare la realtà. Se poi sono surreali, ci conducono addirittura fuori dalla realtà.

Che cosa ci raccontano i potenti della comunicazione? Che se per il momento sei povero e senza un’occupazione remunerata, avrai un po’ di denaro (un testimone asserisce però che con la tessera elettronica non può pagare le bollette), tanto per sopravvivere, e poi sarai preso per mano da un navigator (figura professionale inesistente, un’altra visione surreale) che ti concederà l’onore e l’onere di un posto di lavoro, generosamente concesso dalla macchina dello Stato, calato dall’alto come la manna biblica. E tutto si rimetterà in moto, lavoro, reddito, benessere.
Ha tutta l’aria di una visione surreale. Il lavoro non è cosa gentilmente concessa. Il lavoro si inventa, si crea grazie a investimenti produttivi nella manifattura, nei servizi, nasce grazie alla competenza, all’operosità, alla fantasia di singoli o di gruppi che capiscono e penetrano nel fantasmagorico mondo della domanda e dell’offerta del mercato. Così stanno le cose nel mondo civile da oltre duecento anni. Il lavoro non può essere, fino a prova contraria, un gentile dono del navigator.
A meno che non si accetti la visione non surreale ma perniciosa di uno Stato che moltiplica la burocrazia, gli enti locali, gli uffici pubblici zeppi di carta in moduli, schede, regolamenti che confondono, intralciano e si smentiscono tra loro (dicono che questa moltiplicazione rappresenti una delle cause che impediscono la ricostruzione delle zone terremotata dell’Italia centrale). In questa visione appare surreale la distanza dalla vita vera, dalla realtà sopportata e patita da milioni di persone. Meglio rivolgere lo sguardo alla vita vera, se considerata attraverso i numeri prima di tutto e subito dopo dall’osservazione di quanto siano impoveriti gli italiani. Impoveriti nel senso più ampio, non soltanto nel portafoglio.
Tanto per fare pochi esempi: siamo in una stretta demografica, nel 2018 il numero di figli per donna è di circa 1,32 e cresce a 32 anni l’età media del primo parto, mentre vent’anni fa la media era di 30. Anche in questo caso la visione surreale consegna una soluzione che non è soltanto surreale ma del tutto inefficace, come dimostra l’esperienza del passato: paghiamo un pugno di euro alle famiglie che producono figli e tutto andrà a posto. Alzi la mano chi è disposto a procreare per cento o mille euro, per uno sconto sui pannolini? Non più di quanti, dal 1927 in poi, quando Benito Mussolini sosteneva la sua politica demografica per avere più carne da cannone, si sono procreati in Italia. Allora la politica demografica a suon di contante non aveva dato i risultati sperati, e perché mai dovrebbe darli nel Ventunesimo secolo?
La crescita demografica in Italia si è materializzata, viceversa, quando aleggiava la speranza di un miglioramento delle condizioni di vita, cioè nel dopoguerra e negli anni del miracolo economico, quando si vedeva in funzione l’ascensore sociale, quando il resto del mondo civile dava concreti segni di apertura economica e culturale. E quando le donne lavoravano in numero crescente. Qui si arriva a un altro tra gli impoverimenti della società italiana contemporanea: il 51 per cento delle donne in età di lavoro non ha un’occupazione né un reddito, un dato che colloca l’Italia al penultimo posto nella classifica europea e al posto numero 118 nella classifica di 142 paesi del mondo.
La questione del lavoro femminile in Italia è trattata non in maniera surreale ma in maniera arcaica, come se una lavoratrice costituisse un lusso per la società e non una risorsa, come se sopravvivesse l’angelo del focolare, modello di tutte le brave ragazze. In questo senso non ha aiutato il ventennio, che teneva le donne ben lontano dal lavoro con le sue leggi discriminatorie, non hanno aiutato gli appelli accorati e ripetuti del defunto papa Giovanni Paolo II a privilegiare il compito di moglie e madre, non ha aiutato l’articolo 37 della Costituzione che recita: «La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. Le condizioni di lavoro devono consentire l’adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione».
Dunque, va bene lavorare, ve lo concediamo, suggerisce la visione non tanto surreale quanto arcaica, ma in subordine ai compiti tradizionalmente femminili. Dunque le donne sono bisognose di tutela più che di indipendenza, mentre la parità salariale rimane un sogno: se una donna vuole raggiungere il reddito di un collega, deve lavorare 59 giorni in più in un anno). Le giovani italiane studiano e si diplomano più dei giovani italiani senza la speranza di un miglioramento delle proprie condizioni di vita e di lavoro: una donna su quattro svolge un lavoro al di sotto delle sue capacità, solo 54 lavoratrici su cento hanno uno o più figli e una su dieci lotta per scongiurare la povertà. Oppure emigrano in paesi più civili, che occupano posti più alti nella classifica della partecipazione delle donne al lavoro. Manca inoltre una condivisione del lavoro di cura: nelle famiglie giovani con figli la madre lavora un’ora in più abbondante al giorno rispetto al padre.
C’è da meravigliarsi che una posizione così debole nella società, nella famiglia e accanto ai maschi produca violenza sulle poverette? O che una così modesta considerazione delle donne, fragili, indifese, produca la sottomissione che apre la strada alla prepotenza (di solito maschile)? Il cosiddetto femminicidio – che in realtà non è altro che privazione di una vita alla pari con gli altri tipi di assassinio – è figlio di una cultura precapitalista e preindustriale, dove la forza muscolare conta più dell’intelletto e della sensibilità.
Un altro aspetto della visione surreale che ci viene consegnata dai mezzi di comunicazione di massa – e che è largamente condivisa – riguarda il livello di istruzione della popolazione italiana, della cultura generale e diffusa. Per svolgere un lavoro non è sufficiente che lo decreti il navigator, occorrono cultura, preparazione, flessibilità, competenza, volontà e molto altro.
Tali dotazioni non sono particolarmente diffuse in Italia, dove tuttora il 5% è analfabeta, il 25% non ha altro titolo di studio se non la licenza elementare, il 20% non legge né libri né giornali, oltre il 40% non capisce un testo complesso. È provato che la nostra incapacità di utilizzare i fondi europei (oltre 60 miliardi) è dovuta all’incapacità di leggere i bandi, di rispondere ai requisiti, di agire in modo indipendente e competente dei funzionari (soprattutto quelli regionali).
L’Italia può vantare più che altro primati negativi, come quello che ci vede al penultimo posto nell’Unione europea (davanti alla Romania) per numero di laureati in rapporto alla popolazione in età di lavoro: il 16,3% (con le donne al 19%, i maschi al 14%). La media europea è del 27% e da noi soltanto poco più della metà dei laureati trova lavoro entro tre anni dalla laurea. Non è che la laurea garantisca la capacità di lavorare, di cavarsela, di risolvere i problemi, ma certo aiuta.
Nella Gran Bretagna coloniale i civil servants partivano per amministrare le colonie dopo aver chiuso nei bagagli i grandi testi classici, la poesia di Orazio, gli Annali di Tacito, la storia romana di Livio, i poemi omerici. Per fare che cosa? Per cavarsela, perché la conoscenza della cultura classica – come di altri saperi – aiuta a essere duttili, liberi e forti. E portavano questi loro libri anche per la consolazione dello spirito, che è buona compagna nelle avversità.
Quindi è probabile che noi italiani resteremo vittime di una visione surreale della società e della convivenza civile, vittime di una classe dirigente che continua a considerare un lusso la laurea, il lavoro (quello delle donne in particolare) e l’intelligenza, che continua a privilegiare la carità all’investimento produttivo, l’arte di arrangiarsi all’istruzione. Invece di profondere denaro nel potenziamento dei servizi alle famiglie, un fascio di banconote; invece di mettere milioni di euro nella qualità dell’istruzione, adagiarsi nelle prediche e nelle notizie via internet.
Oltre alla resistenza rocciosa dei vecchi pregiudizi su quale sia “il posto di una donna” (cioè tra le mura domestiche a coccolare i figli e il marito), su quale sia la famiglia “vera”, subiamo il bombardamento di falsità, un fenomeno mondiale. In 10 giorni del marzo 2019, in vista delle elezioni europee a marzo l’inglese Safeguard Cyber ha rilevato un traffico insolito di notizie distorte e commenti tendenziosi, 6700 messaggi, pervenuti a una gran parte della platea di 241 milioni di elettori europei ed è riuscita a identificare mezzo milione di punti di partenza in vari modi legati alla Russia. Nello stesso tempo si è scoperto che Google ha regalato 150 mila euro di pubblicità a un gruppo antiabortista americano, agevolando la diffusione di pregiudizi in una fase acuta della battaglia contro l’aborto regolamentato. Finché questi sono i manovratori del sapere delle masse, le visioni surreali regaleranno alle medesime masse soltanto un ulteriore impoverimento, nel portafoglio e nell’anima.