Crisi edilizia

E male comune

di Paolo Deganello –

Nella “Giornata della collera”, il 13 febbraio, la miriade di caschi gialli disposti in ordinate file, in piazza degli Affari, ai piedi della Borsa di Milano sembrava un’opera di Land Art. Cosi l’ANCE e altre associazioni imprenditoriali avevano “dimostrato” ai milanesi e poi grazie ai telegiornali all’Italia intera che “dall’inizio della crisi oltre 40 mila imprese chiuse e 360.000 posti di lavoro che arrivano a 550.000 se si considerano i settori collegati” erano i tristi numeri del settore edilizio in Italia.

Erano abituati questi nostri imprenditori fin dai tempi della ricostruzione, a realizzare enormi guadagni, e si parlava di speculazione edilizia, comprando terreni agricoli a basso prezzo, per ottenere poi la loro edificazione da amministratori compiacenti, rivendendo il costruito a prezzi via via crescenti e sempre piú esosi. 25 per cento è l’aumento del prezzo degli immobili tra il 2004 e il 2011, al netto dell’inflazione (”altraeconomia”, n.139). La collera degli imprenditori si rappresenta sempre con i posti di lavoro perduti e quei caschi gialli non dicono che ci sono 694 mila alloggi invenduti(dati Nomisma) a fronte di una domanda di edilizia sociale inevasa pari a 583 mila alloggi (dati federcasa). Si è voluto costruire cio che non serviva. Seimila operai sono stati messi oggi (20 febbraio) in cassa integrazione all’ILVA di Taranto. Quanti sono i caschi bianchi con cui ricoprire strade e piazze a Taranto da sommarsi alle cartelle cliniche dei molti afflitti da tumori nell’intorno dell’Ilva di Taranto? Si è prodotto acciaio a basso costo in cambio di tumori. Si butta sul tavolo della contrattazione i posti di lavoro perduti a Milano come a Taranto per rivendicare la “crescita”, quale crescita?, il ritorno ai lauti guadagni della speculazione, come sembra garantire Alemanno a Roma con i suoi 20 milioni di nuova cubatura edificabile?

Si chiede nella giornata della collera che venga riconosciuto che quei posti di lavoro persi sono un “male comune” a cui la collettivitá deve porrre rimedio, come sono un male comune che deve essere a carico della collettività il mostruoso inquinamento utile ai i lauti guadagni dei padroni dell’ILVA. Si inquinava e si costruivano quartieri, questi sì di edilizia economica e popolare ma fatti intorno ad uno dei piú inquinanti stabilimenti d’Italia, perché, si sa, chi non ha casa pur di averla puó anche rischiare qualche tumore. Il cinismo imprenditoriale legittimato dai posti di lavoro perduti è inaccettabile Perché non si mette sul tavolo della contrattazione che si doveva costruire altro da quello che si è costruito? Si è prodotta una merce inutile, nociva, che è solo spreco di risorse e di suolo e si doveva da tempo coinvolgere tutto il settore edilizio nel recupero e riqualificazione del gia costruito invece di continuare a sperare su un nuovo che non ha piú mercato. Perché si mettono sul tavolo della contrattazione solo dopo l’inevitabile intervento della magistratura i 6000 in cassa integrazione che quell’acciaio, certamente questo utile ma che poteva comunque essere prodotto senza produrre tumori? Non si puó pretendere che siano “un male comune” l’inquinamento al di fuori di ogni legge, da anni accompagnato da controlli compiacenti, e la cementificazione di un territorio, distruzione di abitabilitá e causa di altro inquinamento, che hanno trovato un’urbanistica, una politica e una cultura del progetto sempre compiacenti. Il Piano Strutturale di Firenze del 2009, esclude qualsiasi incremento di cubatura edificata in tutto il territorio comunale. Il Masterplan Strategico del Comune di Rimini “delinea un disegno organico ed altamente riqualificante della cittá, fondato sull’arresto del consumo di territorio”.

Il consiglio nazionale degli architetti ha dall’inizio dell’anno promosso il progetto R.I.U.S.O, un piano per la rigenerazione urbana e sostenibile che al nuovo antepone il recupero del già edificato e la sua bonifica per una abitabilitá sostenibile. Mi arriva, mentre scrivo, questa e-mail di Andrea Poggio di Legambiente: sta arrivando in questi giorni in libreria il libro Le città sostenibili: “…la sfida dello sviluppo sostenibile sarà vinta nelle città, dove ormai vive più del 50% dell’umanità. Vale per l’Italia, per l’Europa, come per il mondo. Perché è nelle città che stanno cambiando i consumi e gli stili di vita, … e si forma il mercato della nuova green economy. … E i governi capiscano che non si possono più buttare soldi in grandi opere e aiutino le 100 città d’Italia, i sindaci e le comunità locali a fare rete, darsi progetti, collaborare, diventare sostenibili ricostruendo e ristrutturando anziché consumare nuovo suolo”. Dobbiamo ben capire e progettare in concreto questa “green economy”; può essere l’ennesima furbata, ma è certo, lo dimostra anche il mercato, che quei 550.000 posti di lavoro si recuperano solo ristrutturando in maniera diffusa il già edificato, rendendolo piú sostenibile e smettendola di consumare nuovo suolo.