Quell’utopia che già è

Ripensando la mostra di Sant’Elia a Villa Olmo, Como

di Paolo Deganello –

Oltre Sant’Elia. Cento  anni  di  visioni urbane è la Mostra inaugurata a Villa Olmo a Como il 23 marzo 2013. Resterà aperta fino al 4 di luglio ed è la prima di una serie di mostre, a cura dello  storico dell’architettura Marco De Michelis. che la città di Como vuole dedicare alla Città Nuova Oggi. La mostra conclusiva accompagnerà l’Expo 2015 di Milano. La “Città Nuova” era il titolo  che Sant’Elia aveva dato al  suo progetto di utopia urbana, con cui inizia  la mostra e che con disegni, plastici, film, alcuni inediti, traccia la storia dell’Utopia urbana prodotta dall’architettura del Movimento Moderno fino alla visione del 2007-2011 della artista cinese Cao Fei, autrice col gruppo Vitamin Creative Space dell’ultima visione urbana della mostra. La città utopica del Movimento Moderno, da Sant’Elia ai Radical è comunque un insieme di visioni urbane tutte costruite su una smisurata fede nelle possibilità salvifiche della tecnologia e lo sono, seppur  parzialmente, anche i progetti Radical dell’inizio degli anni settanta. In particolare, la “Non stop city“ degli  Archizoom, città come insieme infinito di  contenitoriri infiniti senza finestre, artificialmente climatizzatizzati, è ancora una tecno-utopia, anche se piú che un’utopia è la  rappresentazione critica dell’allora stato presente. Con le quasi utopie dei due Gruppi Radical Fiorentini, si interrompe la storia delle utopie urbane del Moderno e le loro visioni e soprattutto quelle degli Archizoom rappresentano, al di fuori delle regole della  composizione architettonica, le contradizioni della società del benessere piú che la citta futuribile. Nei loro  contenitori infiniti mettono non certo gli arredi opulenti del Design  Moderno, ma gli oggetti della quotidianità comune, tutti estranei alle discipline del progetto  quali: tende e galline, motociclette giapponesi, asettici contenitori di elettrodomestici e corpi nudi e rappresentazioni teatrali, denunciando cosi implicitamente l’incapacità dell’architettura e del design che si insegna nelle facoltà di essere strumenti per la vita, al servizio dell’abitare.
Anche il Monumento  Continuo  del Superstudio, nel suo tentativo di ritornare alle forme archetipiche e simboliche dell’architettura, di fatto non produce piú utopie ma semmai “indaga sulla sopravvivenza della nozione stessa di architettura” (Marco De Michelis, Catalogo della mostra, pag.21). Ai Radical si contrapponeva  allora,  per lo meno in Italia, “La Tendenza”, un movimento tutto interno all’Architettura col dichiarato programma di una “rifondazione” disciplinare, guidata da Aldo Rossi e Giorgio Grassi, che ripartiva dall’Architettura Illuminista di Louis Boullé, cioè dall’architettura che sta prima del Movimento Moderno. Questa “tendenza”, diventata  egemone fin dalla fine degli anni settanta in tutte le facoltà di Architettura italiane,  allontanava la formazione dei nuovi progettisti dalle implicazioni sociali e politiche  del progetto, in nome di una rifondata  autonomia disciplinare dell’architettura e di tutte le discipline del progetto. Nel frattempo maturava la sfiducia nel progresso e via via cresceva la coscienza di una crisi che svuotava i giovani di ogni speranza di futuro e il progetto utopico perdeva senso dentro un progettare tutto impegnato nelle questioni concrete del “costruire adesso” che l’autonomia disciplinare pretendeva sempre di saper risolvere, lontana e indifferente o addirittura contro le istanze sociali e politiche. L’interruzione della ricerca utopica diventava inevitabile e questa mostra ha l’indubbio merito di riaprire una riflessione interrotta, fin dagli anni settanta, sulla ricerca  e il progetto utopico, ma a me sembra si possa dire che la città nuova non può più essere un disegno di Architettura e di Design. Da tempo mi sembra che i comportamenti di vita di gruppi di abitanti, le istante di molte associazioni, tutte motivate dalle rivendicazioni  concrete e specifiche di fatti ed eventi utili a una  migliore qualità della vita e dell’abitare, siano molto più innovativi e proiettati su un futuro auspicabile di quanto stancamente ripropongono le spettacolari architetture degli archistar e dei designerstar del tempo presente. E la città dell’artista cinese Cao Frei, del 2007-11, ben rappresenta col  suo collage di monumeti architettonici ormai senza vita e contesto, firmati dai grandi dell’architettura, l’incapacità di produrre città abitabile ma al massimo degli septtacolari  plastici urbani da mettere in un isola in mezzo al mare. È proprio a partire dal bisogno di abitabilità urbana che si rivendica sempre più una nuova mobilità che liberi la città dall’inquinamento  e a questo rifiuto della mobilità del Moderno si somma il rifiuto di ulteriori cementificazioni in difesa dei territori agricoli. Allora la richiesta di quel nuovo rapporto città-campagna, promosso e praticato dai G.A.S che è una vera e propria riinvenzione della merce, della sua produzione e distribuzione, che il design della merce si rifiuta di acquisire, consolida  sempre più  quella convinzione che le discipline del progetto non riescono a rappresentare le nuove istanze che vengono dal basso, e che solo la riqualificazione e l’aggiornamento in chiave ecologica del gia edificato e prodotto è l’unica prospettiva capace di farci sperare una nuova qualità dell’abitare. “La citta nuova oggi”, è l’utopia che gia è e che le discipline del progetto non vogliono vedere, è la riqualificazione, aggiornata ad  un  futuro ecologico, della città gia costruita.