Decrescita, fuga verso il passato

di Giovanni Mazzetti

Il modello economico fondato sul perseguimento della crescita del reddito e della ricchezza a tutti i costi è giunto a una svolta. Non è chi non veda come debba essere profondamente riformato. Ma la soluzione non sta nel tornare indietro, bensì nell’uso alternativo delle risorse che abbiamo a disposizione. L’abbondanza felice dei nostri antenati, come la descrive Latouche, non esiste. E non ci sono limiti ai bisogni dell’uomo

Sarà capitato a molti di coloro che si sono presi o si prendono cura di parenti anziani di sentirli ripetere che i tempi in cui sono stati giovani erano «altri tempi». Poiché questa evocazione è, in genere, un segno del sopravvenire di una loro fragilità progettuale, sollecita nell’interlocutore soprattutto un sentimento di comprensione e di tenerezza. Il quadro è ben diverso se, invece di un’evocazione nostalgica di un passato ormai tramontato, ci troviamo di fronte ad un tentativo di riportarci effettivamente indietro a quei tempi, con l’affermazione di una reale superiorità della forma di vita dell’epoca e la sollecitazione ad agire sulla base delle sue regole. Non solo in questo caso non c’è alcuna tenerezza, ma è quasi inevitabile che si instauri una polemica.

1) Si può comprendere perché il quadro sia ben peggiore quando ci si trova di fronte ad una persona un(a) giovane saputello(a), che pontifica su come instaurare una situazione virtuosa. Non sto parlando di un evento eccezionale. Non c’è seminario universitario, iniziativa culturale o politica che non veda prima o poi sbucare dal mucchio i membri di una strana congrega, i quali ripetono ossessivamente e con forza che la soluzione dei nostri problemi sarebbe garantita dall’adesione a un progetto salvifico: quello della decrescita. E’ senz’altro comprensibile che, essendo immersi in una società nella quale sentono ripetere da anni che tutti dovremmo adoperarci per la crescita, e percependo la malafede di chi addita questo obiettivo, rovescino la prospettiva nel suo opposto. Ma, in contrasto con il tono con cui viene proferita, si tratta di una reazione di impotenza, analoga a quella degli anziani che rivanno col ricordo ai loro anni giovanili. E dunque è destinata a non incidere in alcun modo sulla dinamica in corso, nonostante il fervore col quale viene brandita. Non riprenderò qui le molte ingenuità con le quali ho dovuto ricorrentemente confrontarmi. Ma non posso ignorare una recente intervista di quello che viene considerato una sorta di guru del movimento, Serge Latouche, pubblicata da la Repubblica (Marino Niola L’utopia frugale 14/1/2012) per presentare il suo ultimo libro, perché a mio avviso testimonia che l’ingenuità non è appannaggio degli adepti più scalcinati. Sostiene, ad esempio, Latouche che la nostra non sarebbe una società dell’abbondanza dato che «l’unica società dell’abbondanza della storia umana sarebbe stata quella del paleolitico, perché allora gli uomini avevano pochi bisogni e potevano soddisfare tutte le loro necessità con solo due o tre ore di attività al giorno. Il resto del tempo era dedicato al gioco, alla festa e allo stare insieme». Questa operazione, che Latouche riprende dal Sahlins de “L’economia dell’età della pietra”, ha un nome: si chiama proiezione. Detta in termini elementari: fantastico di una condizione nella quale gli aspetti della vita che mi infastidiscono non ci siano e immagino che sia esistito un contesto nel quale essa fosse storicamente data, e abbia prodotto proprio gli effetti positivi che auspico. Se i nostri antenati, ben più poveri e ben più ignoranti di noi hanno vissuto questa Bengodi, perché mai le mie fantasie non dovrebbero essere praticabili oggi? Fourier, che chiamava la sua fantasia società armoniana invece che della decrescita felice, non si muoveva su un terreno molto diverso, ma ebbe almeno l’intelligenza di riconoscere che, in qualche modo, stava parlando di ciò che i suoi antenati avevano definito come il paradiso terrestre.

2) Il fatto è che le vicende reali sono molto più complesse di queste fantasie di fuga. Dire che gli esseri umani del paleolitico «avevano pochi bisogni», e che questa limitatezza svolgeva un ruolo positivo, equivale a sostenere che la loro animalità sia da considerare superiore all’umanità che è stata successivamente prodotta; che ci sarebbe stata più libertà nella vita del selvaggio che in quella dell’incivilito. Un’idea che, per il Marx dell’Ideologia tedesca può essere concepita solo se non si sa nulla né della vita del selvaggio né di quella dell’individuo civile, e ci si rappresenta la prima in modo favolistico. Altro che un «giocoso stare insieme»! La maggior parte dei reperti fossili dell’epoca ci parlano di morti traumatiche, dovute alle continue battaglie con coloro che non appartenevano al ristretto gruppo locale simbioticamente organizzato in tribù. Altro che «facile e completa soddisfazione dei propri bisogni»! Spesso la caccia implicava non solo giorni e giorni di inseguimento della preda, ma anche gravi incidenti agli stessi cacciatori, oltre ai riti totemici, per placare la paura dell’animale ucciso. Quasi sempre l’acqua era talmente scarsa da richiedere non solo un’immane fatica per procurarsela, ma anche continui scontri che gli altri gruppi che cercavano di monopolizzare le sorgenti e le riserve. Ecc., ecc. Certo, c’erano anche momenti in cui, come gli animali che riescono a saziarsi, i nostri antenati godevano di un rilassamento appagato. Ma sono stati quei pochi che non si acquietavano a questa limitata soddisfazione, e hanno coltivato il bisogno di una capacità superiore, che hanno creato le condizioni per lo sviluppo – spesso contraddittorio, ma non per questo meno vero – di quella facoltà che chiamiamo umanità.

3) A riprova del fatto che la proposta culturale della decrescita poggia anche su un’incomprensione delle condizioni di vita dell’uomo civile sta l’altra considerazione di Latouche. «La nostra», dice, «non può essere considerata una società di abbondanza perché è una società dei consumi. Per consumare si deve creare un’insoddisfazione permanente. E la pubblicità serve proprio a renderci scontenti di ciò che abbiamo per farci desiderare ciò che non abbiamo. La sua missione è farci sentire perennemente frustrati». Si noti il rovesciamento logico rispetto alla considerazione riferita agli esseri umani del paleolitico. Lì era l’eccesso di disponibilità di beni economici rispetto ai limitati bisogni che consentiva di definire la situazione come «di abbondanza». Ora un eccesso ben più rilevante del passato non dovrebbe essere considerato alla stessa maniera, solo perché qualcuno cerca di piegare l’espansione dei bisogni al di là del livello dato a suo vantaggio, spingendo affinché essi si trasformino in una domanda. Invece di trattare l’abbondanza come un fatto constatabile per via empirica, la si trasforma in uno stato mentale, in un rapporto soggettivo con l’ab-onda nella quale si concretizza l’eccedente. Qui il progetto della decrescita mostra chiaramente la sua natura regressiva. E’ fuori di dubbio che l’abbondanza non possa essere definita a prescindere dai bisogni, nel senso che questi esprimono lo sviluppo raggiunto dalla soggettività umana, mentre la disponibilità dei mezzi che consentono di soddisfare quei bisogni costituisce la misura della maggiore o minore ricchezza, che caratterizza la vita umana a quel livello. Ma ciò che distingue gli umani dagli animali e proprio il fatto che «la soddisfazione di un bisogno non si esaurisce in se stessa, ma piuttosto fa emergere altri bisogni»(Marx), questo perché, come afferma Marcuse, «l’essere dell’uomo è sempre più della sua esistenza». L’abbondanza alla quale si riferisce Latouche è l’abbondanza propria della vita animale che, proprio perché questi non ha bisogni al di là delle spinte pulsionali derivanti dal suo corredo biologico, è di volta in volta paga della sua stessa limitatezza. Elevare questa limitatezza a modello, invece di spingere affinché la ricchezza eccedente riesca ad andare incontro ai bisogni emersi, cioè a mediare uno sviluppo che poggia su una nuova base, comporta una mistificazione che, a mio avviso, non può essere condivisa.

Pubblicato su “il Manifesto”, 2 aprile 2012