Coronavirus: e se nulla cambia ?

La pandemia continua. E le tante frasi, divenute anche fastidiosi tormentoni in queste settimane (abbiamo masticato e ormai digerito “Andrà tutto bene”, “Ce la faremo”, “Siamo tutti sulla stessa barca”) finalmente cominciano a scolorirsi, come l’arcobaleno disegnato dai bambini, che dopo la pioggia preannuncia il sereno ma poi si dissolve, scomparendo dalla nostra vista meravigliata e compiaciuta. Ma il sole qui non si vede, perché “Andrà tutto bene” non basta disegnarlo.

Ora all’approssimarsi della cosiddetta “fase 2”, la fase di allentamento della chiusura totale, quella più critica, densa di incognite, in cui la prudenza dovrebbe essere massima, comincia a farsi largo prepotentemente un altro mantra “Nulla sarà come prima”, che ci ripetiamo più per illusoria speranza che per effettiva convinzione.

In realtà, non si vedono affatto i segni di un cambiamento, o almeno di quel cambiamento che dovrebbe mostrare quanto questa durissima lezione ci sia servita, ci abbia fatto comprendere con la violenza rivelatrice che portano con sé le tragedie, che è suonata la campanella dell’ultimo giro e dobbiamo invertire la rotta senza esitazione e in fretta per evitare l’autodistruzione.

Nulla di tutto questo, però, si vede all’orizzonte, dove ritornano ad affacciarsi i medesimi teatrini di una politica, ridotta a battibecco, a chiacchiericcio sterile, trasformata in una macchina per l’accaparramento di consensi, cavalcando il mutevole andamento di masse confuse, disorientate (come le disposizioni contenute nei Dpcm), disinformate o peggio male informate. Nulla a che fare con la politica alta, quella con la P maiuscola, di cui avremmo bisogno, ovvero l’arte di saper gestire la cosa pubblica per il bene comune, mostrando una direzione da seguire e un’orizzonte verso cui dirigersi, e immaginando, prospettando un nuovo paradigma sociale ed economico.

Perché è questo quello di cui avremmo bisogno – un nuovo modello di società, in cui il progresso e la crescita economica si concilino finalmente con il rispetto per l’ambiente, la tutela e la promozione della cultura e di ogni forma di bellezza artistica e naturale, in cui si arresti lo smantellamento dei diritti, ponendo nuovamente al centro dello sviluppo sociale l’uomo, ogni uomo e il rispetto della sua dignità. Niente, nessuna autocritica forte e propositiva, netta, ma uno scaricabarile di responsabilità tra Stato e Regioni, tra Regioni e Regioni, gli uni contro gli altri, mentre la gente ha perso il lavoro o sta per perderlo, ha fame e le diseguaglianze economiche e la povertà crescono. Il virus ha portato a galla tutta la miseria umana di cui era popolato il sottobosco della nostra società: l’affarismo economico senza scrupoli, la sistematica distruzione del welfare, l’indifferente ed egoistica cancellazione (anche volontaria) dei più deboli, l’amplissima diffusione del lavoro nero, su cui poggia il nostro sistema economico, spesso per foraggiare i pochi ricchi e benestanti o consentire a piccoli e medi imprenditori di non essere strozzati da una tassazione eccessiva e non equa.

Assistiamo, invece, ai comportamenti disorientati e disorientanti di una politica, che appare, al momento, priva di qualsiasi straccio di visione di sviluppo di una società nuova, priva di coraggio e creatività, ricattata e assediata da organizzazioni e gruppi economici, sociali e, persino religiosi, che reclamano una restaurazione, un ritorno allo status quo, che rischia di farci ripiombare in una seconda ondata pandemica o, in ogni caso, predisporci a prossime catastrofi globalizzate che la distruzione progressiva degli ecosistemi comporteranno.

Ritornare alla vita di prima, ma come? A una vita meno segregata di quella attuale, per molti solo apparentemente. Se questi 2 mesi di limitazione non ci hanno permesso di capire che un cambiamento è necessario, allora siamo davvero senza speranza. Vuol dire che lo shock non è stato sufficiente, ma soprattutto che siamo assurdamente adattabili, siamo estremamente fragili, ridotti al livello di consumatori decerebrati, non sapendo più qual è la nostra identità. Dovremmo cominciare a rivendicare il nostro diritto di essere chiamati CITTADINI e non consumatori, perché il primo cambiamento bisogna attuarlo e pretenderlo nel linguaggio, che è un segno, che spesso precede e prepara quello sociale.

Come ci insegna la storia i cambiamenti si conquistano e si raggiungono solo con la forza della determinazione, con una profonda convinzione che difficilmente potrebbe essere maturata in due mesi e spesso, con la forza della disperazione.

Non vedo alcuna visione politica nelle azioni che saranno necessarie, né una maggiore responsabilizzazione da parte dei nostri politici, che, appena le cifre dei decessi e dei contagiati hanno cominciato a ridimensionarsi stanno rimettendo in scena un’inconcludente gazzara. Non vedo una nuova determinazione e volontà di costruzione, né una convinzione sulle misure da assumere.

La situazione cambierà, purtroppo, ma in senso peggiorativo. Questo è evidente. Le piccole e medie realtà industriali, artigianali, commerciali, specialmente quelle a conduzione familiare, rischiano l’estinzione, mentre le grandi companies, specialmente quelle digitali o che si avvalgono di sistemi digitali, conosceranno una nuova ed ulteriore espansione. La caduta dei consumi e la grave crisi economica  che si prospetta accresceranno i livelli di povertà, il tasso di disoccupazione, le disparità sociali ed economiche. Di fronte a questo scenario ci sarebbe bisogno di più Stato, di uno Stato che sia in grado di tutelare gli interessi di tutti i cittadini, in particolare per redistribuire la ricchezza e rendere migliori le condizioni di coloro che non hanno tutele e/o di coloro che le perderanno, di coloro che sono più fragili per condizioni di salute o mentali, per le categorie di lavoratori “essenziali”, non riconosciuti e non adeguatamente stipendiati, per garantire livelli d sicurezza degni di un paese civile, per assicurare in tutti gli ambiti, pari opportunità, per investire fortemente nella scuola, garantendo a tutti il diritto allo studio e alla conoscenza. Insomma abbiamo bisogno di uno Stato che non ceda al privato settori strategici dell’economia e i servizi pubblici e sociali fondamentali per i lavoratori e per tutti i cittadini, quali istruzione, sanità,  comunicazione, trasporti, protezione sociale, etc..

La logica esclusiva del profitto senza contrappesi, che non ci si può attendere da un imprenditore privato, se non in casi eccezionali, non può più appartenere alle nostre società. Bisogna lavorare non solo per “sanare” o “salvare”, ma piuttosto e in primis per “riconoscere”. Nel momento in cui si riconosce qualcuno, una categoria di individui, se ne comprendono i bisogni e i problemi e ci si interroga sul modo in cui averne cura. Ogni categoria sociale ed economica ha il diritto di vedere rappresentati i propri bisogni e di farsi “riconoscere”, ossia di essere oggetto di attenzione e cura da parte della società, dello Stato come sua massima forma di organizzazione.

I lavoratori e i cittadini, dunque, dovranno tenere alta la guardia non solo nei confronti del virus, ma anche delle decisioni che verranno assunte dal Governo e dal Parlamento. Se la classe politica non intende proporre uno nuovo paradigma sociale ed economico, dovranno essere i cittadini, i lavoratori, i piccoli e medi imprenditori del Nord, del Centro e del Sud ad inaugurare una nuova stagione di impegno politico unitario per determinare quel cambiamento che ci sottragga alla morsa distruttiva dell’attuale sistema capitalistico ultraliberista.