Il sogno europeo

Libertà americana e libertà europea

di Angelo Ariemma –

Il Sogno americano e il Sogno europeo sono, in sostanza, due idee diametralmente opposte di libertà e di sicurezza. Gli statunitensi definiscono per negazione il concetto di libertà, e quindi quello di sicurezza. Per gli americani, infatti, la libertà è da sempre associata all’autonomia. Per gli europei la libertà non consiste nell’autonomia ma nell’integrazione.

“Il Sogno americano e il Sogno europeo sono, in sostanza, due idee diametralmente opposte di libertà e di sicurezza. Gli statunitensi definiscono per negazione il concetto di libertà, e quindi quello di sicurezza. Per gli americani, infatti, la libertà è da sempre associata all’autonomia: se si è autonomi, non si dipende dagli altri e non si è esposti a eventi che non si possono controllare. Per essere autonomi si devono possedere beni: quanta più ricchezza si accumula, tanto più si è indipendenti dal resto del mondo. Si diventa liberi rendendosi autosufficienti e isolandosi dagli altri. La ricchezza porta l’esclusività. L’esclusività, la sicurezza.
Il nuovo Sogno europeo, invece, si fonda su un’idea del tutto diversa di libertà e di sicurezza. Per gli europei la libertà non consiste nell’autonomia ma nell’integrazione. Essere liberi significa avere accesso a una miriade di rapporti con gli altri: quanto più numerose sono le comunità a cui si ha la possibilità di accedere, tanto maggiori sono le opportunità e le scelte a disposizione per vivere una vita piena di senso. Dalle relazioni viene l’inclusività. Dall’inclusività, la sicurezza.
Il Sogno americano pone l’accento sulla crescita economica, sulla ricchezza personale e sull’indipendenza; il nuovo Sogno europeo concentra l’attenzione sullo sviluppo sostenibile, sulla qualità della vita e sull’interdipendenza. Il Sogno americano rende omaggio all’etica del lavoro; il Sogno europeo è più improntato al tempo libero e al”.

Con queste parole Jeremy Rifkin (1) solamente pochi anni fa poneva l’Europa al centro di una trasformazione che avrebbe dovuto coinvolgere, secondo il sociologo americano, il mondo intero. Cosa è successo? Perché ora in quel sogno europeo nessuno sembra più credere? E invece si ritorna ai populismi nazionali e regionali? Secondo noi perché la politica dei governi nazionali dell’Europa, dimentica del proprio modello, ha voluto imitare il modello americano, fondato negli anni di Reagan, ma che è imploso a causa della crisi economica, dovuta proprio a quel modello di deregulation dell’economia e di un liberismo sfrenato, che nulla ha a che vedere con il liberalismo classico, il quale mette comunque al centro della sua azione politica l’ente pubblico, come regolatore e ammortizzatore delle ingiustizie sociali, che il mercato lasciato a se stesso inevitabilmente provoca.

La risposta che dobbiamo e vogliamo dare è di riprenderci quel sogno, nato nel lontano 1941 in una piccola isola del Mediterraneo, con il Manifesto di Ventotene di Altiero Spinelli e Ernesto Rossi; concretizzatosi già con la nascita della Comunità del Carbone e dell’Acciaio nel 1952; sviluppatosi con le successive adesioni, fino ad arrivare al Trattato di Maastricht del 1992 che impianta la nascita della moneta unica, la quale finalmente vedrà la luce nel 2002, e proseguirà fino alla Convenzione per una Costituzione europea presieduta da Valery Giscard d’Estaing.

Purtroppo la mancata ratifica di quella Costituzione da parte della Francia e dell’Olanda ha segnato una grave battuta d’arresto in questo progetto di costruire una Unione europea sempre più coesa. Ma non dobbiamo arrenderci. Tante sono state, nei 60 anni di storia della Comunità, le impasse, i momenti di crisi o di arretramento, le sconfitte subite dai convinti assertori del federalismo europeo. Altiero Spinelli già ammoniva, in occasione della crisi petrolifera del 1974, “il fatto è che bisogna denunziare la contraddizione e la menzogna che c’è quando si vuole una politica comune col metodo della concertazione fra stati che restano sovrani. Questo è lo scoglio contro cui sta naufragando la Comunità e bisogna dirlo. Se le misure più urgenti devono essere oggi necessariamente frutto di concertazione fra paesi ancora sovrani, ciò è possibile solo se questi stati sono impegnati nei fatti e non con dichiarazioni, a costituire una vera unità politica dotata di un vero governo europeo”. (2)

Sono parole che denunziano alla perfezione l’attuale stato di crisi dell’Unione. Vano è stato anche il suo progetto di Costituzione europea, pur approvato dal Parlamento europeo nel 1984, che così lo stesso Spinelli sintetizza davanti a quel Parlamento: “Il nostro progetto fa della Commissione un vero esecutivo politico, mantiene un ruolo legislativo e di bilancio per il Consiglio dell’Unione, ma lo definisce e lo limita, dà al Parlamento un vero potere legislativo e di bilancio, che esso divide con il Consiglio dell’Unione. Il nostro progetto riconosce l’esistenza di una sfera di problemi che saranno trattati dal Consiglio europeo con il metodo della cooperazione. Ma, da un lato, esso vieta al metodo intergovernativo di invadere il campo dell’azione comune e, da un altro lato, apre una porta che rende possibile il passaggio dalla cooperazione all’azione comune”. La strada era tracciata, per arrivare a un vero stato federale. Purtroppo, i governi nazionali si sono limitati a partorire quel “topolino”, come Spinelli lo definiva, dell’Atto unico.

Comunque si è andati avanti. Ora però questo metodo intergovernativo mostra tutti i suoi limiti. Di fronte a un mondo ormai globalizzato, dove si affacciano nuovi popoli e nuove forze economiche, la dimensione dello stato nazionale non può reggere il confronto. Perché gli USA, che hanno un debito pubblico altrettanto grande, non sono attaccati dalla speculazione? Perché la loro moneta, la loro economia, il loro bilancio, è uno.

Non possiamo tornare indietro, non dobbiamo ascoltare queste sirene che rimpiangono la lira. Ascoltiamo invece l’art.11 della nostra Costituzione: “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo”. Ascoltiamo le parole del nostro Presidente Giorgio Napolitano, pronunciate davanti al Parlamento francese il 21 novembre 2012: “Noi tutti sappiamo che la scelta dell’integrazione si impose negli anni ’50 alle leadership più lungimiranti dell’Europa occidentale come necessità politica per chiudere col passato, con i distruttivi antagonismi nazionali della prima metà del ‘900, per riconciliare nella libertà e nella pace innanzitutto Francia e Germania. Ma oggi – Signor Presidente, Signori Deputati – procedere decisamente verso una più stretta integrazione economica e politica, è divenuto un imperativo cui non si può sfuggire se si vuole riaffermare, in termini nuovi, il ruolo e l’avvenire del nostro Continente in un mondo profondamente cambiato dal processo di globalizzazione e dallo spostarsi lontano dall’Europa del baricentro dello sviluppo mondiale e delle relazioni internazionali. Nessuno anche tra i più popolosi, ricchi e forti Stati dell’Unione può da solo scongiurare il rischio del declino e dell’irrilevanza.
Ci deve unire il senso nuovo della nostra missione comune : far vivere, come europei, di fronte a una globalizzazione sregolata che potrebbe sommergerci, la nostra identità, il nostro esempio di integrazione e unità, il nostro modello di sviluppo, in definitiva l’insopprimibile peculiarità del nostro apporto allo sviluppo della civiltà mondiale. Mettere insieme le forze dell’Europa finalmente riunificatasi nella democrazia è essenziale anche per poter concorrere a determinare la dinamica e le regole della globalizzazione”. Ascoltiamo le parole di Zygmunt Bauman, citate da Napolitano in quello stesso discorso: “La casa europea offre una sorta di tetto comune a tradizioni, valori, differenze molteplici. Ogni singolo Paese è molto più a rischio di perdere la sua identità specifica, se si espone senza protezione, senza lo scudo europeo, alle pressioni globali”.

Ascoltiamo le parole di Pier Virgilio Dastoli, Presidente del CIME (Consiglio Italiano del Movimento Europeo), che taglia tutte le speciose critiche al Nobel per la pace assegnato all’UE: “L’attribuzione di tale premio nel 2012, mentre i governi dei paesi membri continuano a balbettare incapaci di trovare una soluzione adeguata alla crisi che rischia di travolgere il progetto europeo da cinque anni, deve essere spiegata alle opinioni pubbliche nazionali sottolineando:
Che il progetto di unificazione del continente a partire dalla CECA nel 1950 è stato concepito e realizzato dagli ispiratori di questo progetto (i cattolici Adenauer, Schuman e De Gasperi, il socialista Spaak, il laico Monnet ed il federalista Spinelli) per mettere fine alle guerre fra i popoli europei e che questo obiettivo è ormai definitivamente compiuto. La realizzazione di questo obiettivo deve essere spiegata soprattutto ai giovani per i quali le relazioni fra i paesi ed i popoli del continente rappresentano un dato acquisito. Dobbiamo ricordare anche ai giovani che l’Unione Europea è l’unica organizzazione del mondo che abbia gettato alla ortiche il principio “rex est imperator in regno suo” inventato da Filippo Il Bello più di otto secoli fa e che è stato alle origini di ogni guerra giustificata dalla difesa degli interessi nazionali. In questo modo oggi l’Unione rappresenta il modello più avanzato di integrazione continentale esistente e quindi può servire di esempio per la stabilizzazione anche delle altre regioni del pianeta.
Le Comunità europee prima e l’Unione europea poi si battono da anni contro la pena di morte e la lotta contro la guerra e per la pace è lo strumento essenziale per impedire che uomini uccidano altri uomini.
Pace e democrazia rappresentano due facce della stessa medaglia e l’Unione europea rappresenta – pur con molte ombre, con inaccettabili ritardi e con tante debolezze – l’organizzazione europea che più si batte per l’affermazione della democrazia nel mondo.
Il Movimento Europeo in Italia saluta dunque con soddisfazione questo ritardato premio indicando il suo significato di valore aggiunto della costruzione europea ma sottolineando anche che esso deve servire da stimolo alle istituzioni europee affinché sia realizzata rapidamente una politica estera e della sicurezza capace di costruire e mantenere la pace nel mondo e che si avvii rapidamente un processo che porti ad un sistema fondato su una vera democrazia sovranazionale”.

Infine di discorso, per attivare una discussione che sia proficua alle nostre prospettive politico-culturali, vogliamo richiamare l’attenzione sul recente libro di Ulrich Beck (3), che proprio questi temi affronta in tre saggi di densa pregnanza. Il sociologo tedesco parte dall’attuale crisi, non solo economica, ma di cultura, che vede un pericoloso riaffacciarsi di populismi, nazionalismi e razzismi, che ci illudevamo fossero un vieto retaggio del passato. Ma per affrontarli bisogna essere chiari nel dire che la politica neoliberista e la deregulation economica sono state scelte dei governi, non una inderogabile necessità; quindi ora si può e si deve cambiare politica, proprio nella direzione di un’Europa più forte, più solidale e più unita: “oggi è la salvezza dell’Unione europea e del suo strumento economico principale, l’euro, il grande compito strutturale dei nostri tempi, rispetto a cui si potrebbe mobilitare e polarizzare l’opinione pubblica negli spazi nazionali. Infatti la politica strutturale degli stati nazionali può rianimarsi soltanto assumendo una dimensione europea” (4). Si ritorna così a prospettare il sogno di Rifkin, anche da parte di Beck: “l’Europa è la risposta degli europei alla globalizzazione; essa è stata la loro via per riconquistare, in quanto comunità di nazioni, un potere d’azione politico sia al proprio interno sia verso l’esterno” (5). Il quale non si nasconde l’attuale deficit di democrazia, la distanza tra le istituzioni e i cittadini, l’incapacità di decidere a livello europeo, per il sostanziale principio di unanimità che ancora vige; ma, proprio per questo, non propone un guardarsi indietro, bensì un salto in avanti: “il mio modello di un’Europa cosmopolitica presuppone sicuramente un minimo di universalismo e di uguaglianza ma, a differenza del modello di un’Europa universalistica, pone al centro l’immaginazione dialogica, ossia il riconoscimento della voce dell’altro escluso e il continuo riferimento a essa” (6). Ecco che si ritorna a parole che hanno fondato la modernità: il cosmopolitismo illuminista, il concetto di limite della propria libertà di fronte alla libertà dell’altro, così chiaramente espressa nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789, l’immaginazione, come quella che sappia superare lo status quo, per vedere oltre il proprio naso, oltre il proprio particulare, e sappia accogliere l’altro e le sue istanze. Questa è la sfida che oggi si presenta a noi tutti, governanti e cittadini, per convogliare le nostre energie verso quel cosmopolitismo, quell’apertura alle altre lingue, alle altre culture, che l’Unione europea ha in parte realizzato, ma che ora deve portare a compimento, con una struttura istituzionale più completa, più forte, più democratica.

 

(1) Il sogno europeo, Milano, Mondadori, 2004, p.15

(2) Diario europeo 1970-1976, Bologna, Il Mulino, 1991

(3) La crisi dell’Europa, Bologna, Il Mulino, 2012

(4) Ibidem, p. 74

(5) Ibidem, p. 93

(6) Ibidem, p. 113