La riforma del lavoro e i precari

La grande bagarre: art. 18 e il futuro del lavoro

di Rossella Aprea

Non so quanti abbiano chiaro quello che sta accadendo relativamente alla riforma del mercato del lavoro, su cui ci si scontra da mesi. Ovunque si discute, ai tavoli delle trattative tra parti sociali e governo, sui giornali, in televisione, con l’unica conclusione che ci si trova di fronte ad una bagarre poco edificante, e soprattutto inutile. Di tutta una riforma che dovrebbe dare ossigeno al Paese, ciò che ha rappresentato il punto di rottura per sindacati e governo è risultato l’art. 18. Ma il vero ostacolo a far riprendere quota all’economia del nostro Paese è veramente da ravvisare nell’abolizione di questo articolo?

IL TESTO DELLA RIFORMA

Diciamo subito di no. E questo lo sanno tutti: i sindacati, il governo, i lavoratori, gli imprenditori. E allora perché le parti in causa (governo e sindacati) giocano a braccio di ferro? A tal punto che nessuno dei due ha voluto e vuole mollare?

Questioni economiche o questioni di principio o di potere?

Sicuramente l’eliminazione dell’articolo 18 costituisce un’oggettiva perdita di diritti per i lavoratori, ed anche se si fosse voluto accettare il principio del licenziamento per motivi economici individuali, sarebbe stato possibile considerarlo solo a fronte di un sistema chiaro e trasparente di tutele, in grado di evitarne gli abusi. Mediazioni non sono state possibili. Per i sindacati l’imposizione dell’abolizione dell’articolo 18 rappresenta una svolta nei rapporti con il governo. E’ la fine dell’epoca della concertazione, un indebolimento delle proprie posizioni, e l’eliminazione dei veti che i sindacati riuscivano a porre per questioni di natura generale, pur essendo rappresentanti di una minoranza di lavoratori.

C’è da domandarsi: se non si può ammettere che i sindacati impongano delle posizioni perché non rappresentativi della globalità dei lavoratori, quale investitura popolare ha questo governo per imporre una propria decisione che avrà delle ripercussioni così pesanti sulla situazione economica e sociale di questo Paese e sulla sorte di tanti lavoratori? Questo spiega il rallentamento dell’iter della riforma, cioè la trasformazione da decreto legge in disegno di legge, che necessita dell’approvazione in Parlamento. La decisione del governo di tirar diritto senza i sindacati richiede un consenso che, se non è stato possibile ottenere dalle parti sociali, deve essere assicurato democraticamente dai rappresentati parlamentari. Si tratta, però, di un cambiamento che avrà delle conseguenze, rallentando il processo messo in atto per far riprendere quota all’economia italiana. Il decreto legge era certamente lo strumento migliore per velocizzare i tempi dell’applicazione. Così, invece, non se ne parlerà forse, che prima dell’estate. I tempi dell’iter parlamentare sono sempre piuttosto lunghi e tortuosi. Tutto dipenderà dalla misura del consenso in Parlamento al testo licenziato dalla Presidenza del Consiglio. Uno scontro, dunque, che si sposta dal tavolo della concertazione alle aule parlamentari in presenza di schieramenti politici in crisi all’interno e all’esterno, preoccupati unicamente di non intaccare il consenso popolare e tutti proiettati verso la prossima tornata elettorale.

Certo ben strano è l’atteggiamento di questo governo, che ha mostrato di non accettare veti dai sindacati, ribadendo con forza le proprie decisioni, minacciando anche di abbandonare il proprio incarico, se il Paese non fosse pronto ad accettare i cambiamenti che intende attuare. Una reazione lucidamente intransigente, che, però, appare incomprensibile, visto che altrettanta risolutezza non è stata mostrata in circostanze, se non più, quanto meno altrettanto decisive per sbloccare le rigidità, in cui versano da decenni la società e l’economia italiana. Mi riferisco a tutte le altre dure opposizioni con cui questo governo si è dovuto misurare dall’inizio del suo mandato e di fronte alle quali ha fatto passi indietro senza battere ciglio, o almeno senza adombrare alcuna possibilità di abbandono. Sto parlando della rivolta degli ordini professionali sulla questione delle liberalizzazioni, del rifiuto dei politici al paventato ridimensionamento delle loro prebende, della resistenza delle province all’ennesimo tentativo, fallito, di eliminarle per ridurre le spese di uno Stato dissipatore e inetto, ormai vicinissimo al default. Dunque, un governo forte con i deboli e debole con i forti? E’ l’immagine che sta emergendo, e questo non solo non conforta, ma fa suonare stonato ogni continuo riferimento all’equità, di cui questo governo si era dichiarato sin dall’inizio paladino.

La riforma dell’articolo 18, secondo quanto sostenuto dal governo, dovrebbe rendere più facile il licenziamento per le imprese, ma nella sostanza non elimina l’incertezza dell’esito di questa decisione. La rende possibile per motivi economici, ma a tal punto farraginosa e complicata che i veri beneficiari di tale decisione non sarebbero né gli imprenditori, né i lavoratori, ma gli avvocati e i giudici incaricati di trattare e dirimere la complessa questione. Sappiamo, infatti, quanto sia lento e macchinoso il sistema giudiziario nel nostro Paese. Tito Boeri, economista presso l’Università Bocconi, è convinto della scarsa efficacia di questa decisione. La nuova norma prevede licenziamenti economici individuali senza possibilità di reintegro a meno che il lavoratore non riuscisse a dimostrare in sede giudiziaria che tale provvedimento sia stato assunto per motivi discriminatori o disciplinari, per i quali sussiste ancora il diritto al reintegro. La possibilità di dimostrare la distinzione, in particolar modo, fra licenziamento economico e disciplinare risulterebbe, comunque, estremamente difficile, attribuendo un enorme potere discrezionale ai giudici. L’incertezza dell’esito del procedimento e la sua inevitabile lunga durata renderebbero non conveniente per l’impresa procedere in tal senso.

Alla luce di queste considerazioni, la posizione irremovibile del governo sull’abolizione dell’articolo 18 appare sempre più incomprensibile. Questa decisione non gioverebbe alle imprese, soprattutto alle medio-piccole, alle quali non converrebbe certo imbarcarsi in un contenzioso dispendioso e dall’esito incerto. Non incoraggerebbe, dunque, gli investitori, soprattutto stranieri a venire in Italia o a restarvici. Michael Braun, corrispondente del quotidiano berlinese Die Tageszeitung e della radio pubblica tedesca sull’Internazionale, sostiene che è assai improbabile che da aprile ci sarà la fila degli investitori stranieri in Italia. Le infrastrutture, il costo dell’energia, la farraginosità dell’amministrazione pubblica, la presenza delle mafie: sono questi i maggiori ostacoli, di sicuro non l’articolo 18.

Dunque cui prodest? A chi giova eliminarlo?

A un potere politico ed economico miope che vede nella riduzione del costo del lavoro, l’unico vero problema, che ostacola la ripresa economica. Si sostiene l’assoluta necessità di una flessibilità, che è già estremamente ampia in questo Paese, per alcuni anche eccessiva, vista la varietà dei contratti esistenti (46 tipologie) e l’impossibilità, da anni, per un milione di persone di trovare un’occupazione dignitosa e continuativa (non parliamo di stabilità).

L’unica ulteriore flessibilità verso la quale si vorrebbe tendere sembra sia quella di precarizzare anche il lavoro di chi oggi è stabile, a fronte, però, di nulla. Perché il problema del costo del lavoro non è la causa principale, che oggi disincentiva le imprese a proseguire la propria attività o a investire, ma piuttosto un sistema Italia su cui bisognerebbe intervenire ampiamente e in cui la pressione fiscale, la corruzione, l’eccessiva burocratizzazione, la lentezza e farraginosità giudiziaria, la mancanza di adeguate infrastrutture, il controllo e l’influenza della criminalità organizzata su tutto il territorio nazionale, i mostruosi ritardi nei pagamenti da parte delle istituzioni pubbliche a fronte di servizi e consegne ricevute, un sistema bancario che non garantisce più la circolazione di liquidità, scoraggiano gli imprenditori sia italiani che stranieri a investire e/o a proseguire la loro attività.

Che si tocchi pure l’articolo 18, ma dopo aver inciso sul sistema per modificarlo. Si cominci, dunque, ad affrontare il problema a monte e non a valle. In tutti questi mesi non si è assistito che a interventi rivolti a chiedere sacrifici alle categorie più deboli, e nessuna azione decisa nei confronti di chi potrebbe dare di più e ha difeso con forza i propri privilegi. Non si chieda disponibilità ad accettare ulteriori sacrifici e perdita di diritti senza riuscire a guadagnarsi credibilità e fiducia sull’equità dei propri interventi e un’accorta valutazione delle conseguenze che questi potrebbero determinare.

La flessibilità in uscita avrebbe dovuto essere accompagnata da una maggiore facilità in entrata. Invece, l’unica modalità prevista per favorire l’ingresso nel mondo del lavoro è il contratto di apprendistato di 6 mesi, trasformabile in contratto a tempo indeterminato. Ma questo contratto offre poche protezioni perché può essere interrotto in qualunque momento senza alcun indennizzo, oltre ad interessare solo i giovani fino a 29 anni, pur sapendo che oggi più del 50 per cento dei lavoratori precari ha più di 35 anni.

Per questi ultimi cosa resta? Continuare con le 46 forme contrattuali come oggi senza tutele?

Purtroppo, sembra proprio così. I precari di oggi continuano a essere i grandi assenti.

In questa bagarre con dure prese di posizioni assunte da varie parti, c’è da farsi, a mio avviso, soprattutto, una domanda e cioè se questa riforma, almeno nel suo impianto generale, abbia tenuto conto della realtà verso la quale ci stiamo incamminando, provando a guardare in prospettiva e tentando di attivare anche processi di più lungo periodo. A noi sembra insoddisfacente già a far fronte alle esigenze attuali. Vista in prospettiva, cioè alla luce delle sfide e degli sviluppi socio-economici, che ci attendono nei prossimi anni, appare completamente inadeguata, lasciandoci totalmente impreparati ad affrontare il mondo che verrà.

Un mondo che fra meno di 10 anni, nel 2020, vedrà aumentare la popolazione di un miliardo; il Pil procapite di 7mila dollari, con una riduzione del 15 per cento del potere di acquisto in Occidente; e che vedrà emergere accanto ai Bric (Brasile, Russia, India e Cina) i Civets (Colombia, Indonesia, Vietnam, Egitto, Turchia e sud Africa) e dove l’informatica, l’ingegneria genetica e le nanotecnologie rappresenteranno le tecnologie dominanti.

Insomma, lo scenario cambierà radicalmente e bisognerà sapersi adattare. Ma bisognerebbe pensarci subito. Ora. Il mondo del lavoro, nello specifico, vedrà con ogni probabilità proprio una riduzione del lavoro dipendente. I lavori esecutivi saranno sempre più assorbiti dalle macchine, trasferiti in Paesi emergenti o affidati a immigrati. Gli occupati in attività creative (il 33 per cento) rappresenteranno la parte centrale del mercato più garantita e meglio retribuita. Nel futuro non si parlerà più di lavoro ma di lavori, la popolazione italiana sarà più multinazionale, multilingue e multiculturale. Queste sono alcune delle considerazioni esposte dal sociologo del lavoro Domenico De Masi durante il convegno “HR 2020. Storie e prospettive”, svoltosi nel mese di gennaio a Catania presso il Parco Scientifico e Tecnologico della Sicilia. De Masi non ha dubbi: «Le nuove generazioni dovranno investire nella cultura e negli studi umanistici: un telefono cellulare deve essere sì costruito, ma soprattutto riempito di contenuti. La tecnologia è nulla se manca il sapere».

In un Paese che si appresta a riformare il mercato del lavoro, tener presente questi sviluppi, sarebbe quanto mai necessario.

Osservato da questo angolo visuale, questo disegno di legge appare fuori dalla realtà, così come l’accanimento di tutti i soggetti coinvolti sull’articolo 18 che si configura come una sterile questione di lana caprina. Forse, pensare a favorire lo sviluppo della cultura, della creatività, delle intelligenze, a promuovere l’innovazione e la ricerca, senza la quale anche le imprese non avranno futuro, a cercare soluzioni di partenariato pubblico-privato per gestire la miniera d’oro, su cui il nostro Paese siede da anni e che stiamo lasciando lentamente e colpevolmente morire – cioè il nostro patrimonio artistico e paesaggistico – sarebbe largamente più produttivo di una riforma, che sembra solo un leggero maquillage ad un viso invecchiato e irrigidito dagli anni. Dimenticare il futuro che ci aspetta e il ruolo che le generazioni, che oggi hanno tra i 20 e i 40 anni, potranno giocare per l’avvenire di questo Paese, irrigidendosi sull’articolo 18, questo sì che è un errore decisamente imperdonabile per un governo che vuole aiutare un Paese ad averlo davvero un futuro.