Rifiuti organici, agricoltura e futuro

di Salvatore Aprea

Occorre una visione economica che punti a gettare le fondamenta per uno sviluppo futuro stabile. In quest’ottica, si possono risolvere problemi e al tempo stesso ricavare risorse anche nei campi più impensati come i rifiuti

Rifiuti organici, agricoltura e futuro

Ormai tutti gli argomenti di discussione politico-economici finiscono per sfociare, ad ogni livello, in uno solo: come fronteggiare la crisi economica con dei tagli di bilancio rapidi e incisivi come la spada maneggiata da Zorro. Seppur necessari, questi interventi da soli appaiono, però, la spia di una visione economica “retro”, che non punta a gettare le fondamenta per uno sviluppo futuro stabile. In altri termini, non si vedono tracce di “pensiero laterale” – come lo definì lo psicologo maltese Edward De Bono –, ovvero la capacità di risolvere problemi logici indirettamente, osservandoli da diverse angolazioni. In quest’ottica, ad esempio, si possono risolvere problemi e al tempo stesso ricavare risorse anche nei campi più impensati come i rifiuti.

Residui organici: da rifiuto a risorsa

Già negli anni ’70 nei programmi della CEE i rifiuti dovevano diventare una quota residuale dei flussi fra i tre comparti strategici per lo sviluppo: alimentazione, energia, materiali. Le linee-guida per la protezione ambientale dai rifiuti in ambito comunitario, diventarono:

– produrre rifiuti minori e meno dannosi;

– programmare a scala territoriale i cicli di trattamento;

– recuperare dai rifiuti materiali ed energia.

L’obiettivo di lungo periodo era (ed è ancora) contenere l’estrazione di materie prime, energeticamente costose, che durante la trasformazione in merci possono produrre rifiuti tossici e pericolosi. Il problema del reintegro della sostanza organica dei terreni agrari, progressivamente impoveriti in numerose regioni italiane (dall’Agro Sarnese-Nocerino al comprensorio di Pescia, dal territorio padano – assoggettato alla monocoltura del mais – fino al Ragusano), rappresenta l’occasione per cogliere con una fava due pennuti: smaltire i rifiuti organici e limitare l’uso di materie prime.

L’agricoltura ad elevato tasso tecnologico deve fare fronte, per gran parte delle principali colture, a robusti costi energetici. Una delle principali voci di spesa per le colture erbacee a scopo alimentare (escluse quelle foraggere leguminose), oltre alle lavorazioni del terreno e all’irrigazione, è l’uso dei concimi di sintesi o inorganici che, per il loro apporto di azoto, hanno un costo energetico di produzione di circa una tonnellata di petrolio per tonnellata di ammoniaca prodotta. La corsa al rincaro del prezzo dei concimi e il rallentamento nella crescita dei loro consumi, recentemente emersi in diversi Paesi occidentali, sono una logica conseguenza. I residui organici urbani e agricoli rappresentano una risorsa da valorizzare poiché possono in parte sostituire i fertilizzanti, contribuendo al contenimento dei dispendi energetici e della pressione inquinante, al contempo reintegrando la dotazione organica dei terreni. A tal proposito, concentriamo l’attenzione sui rifiuti solidi urbani (RSU) e quelli industriali (RI).

La produzione italiana pro-capite di RSU è pari a circa 1 Kg/giorno, composta per poco più del 50% da sostanze organiche (putrescibile + lignocellulosica). Teoricamente, dai RSU italiani si potrebbero estrarre ogni anno, al termine di adeguati processi fermentativi di igienizzazione e maturazione, 5 – 6 milioni di tonnellate di ammendante organico (per ammendante s’intende qualsiasi sostanza – naturale o sintetica, minerale od organica – capace di migliorare le proprietà chimiche, fisiche, biologiche e meccaniche di un terreno).

Più difficile è valutare il potenziale recuperabile dai fanghi di risulta di impianti di depurazione di acque usate civili. In teoria, si potrebbero ricavare circa 1,4 milioni di tonnellate di sostanza secca. In realtà, ogni valutazione è impraticabile perché:

– la precarietà della rete fognaria non consente quasi mai la classificazione di “civile” al liquame in essa conferito;

– nonostante recenti progressi (studi IRSA-CNR), non è possibile indicare numero, caratteristiche tecniche ed efficienza gestionale degli impianti di depurazione in Italia;

– poco sappiamo del contenuto virale dei fanghi: non più del 2% delle strutture sanitarie nostrane tratta adeguatamente gli scarichi dei propri reparti per malattie infettive.

Quanto ai rifiuti industriali (RI), i pochi dati disponibili evidenziano una loro generale incompatibilità con il suolo come ricettore finale. Indagini ulteriori potrebbe, forse, meritare il comparto alimentare (2,4 milioni di tonnellate di residui solidi/anno; circa 1 milione di tonnellate di fanghi/anno), anche se l’abbondante ricorso ad additivazioni nel ciclo produttivo ne sconsiglia l’uso.

Anche nel settore urbano si potrebbero ottenere risultati importanti, attraverso la raccolta differenziata. Si pensi, ad esempio, ai residui dei mercati ortofrutticoli, che per città come Firenze rappresentano fino al 20% dei RSU raccolti e se separati dal resto dei RSU porrebbero le basi per un ottimo compost per migliorare la qualità dei terreni. Peraltro, le analisi dei compost prodotti attualmente nel Paese mostrano che le concentrazioni di metalli pesanti non superano mai il 50% dei limiti OMS e potrebbero ridursi a non più del 15% di tali limiti se si abolisse la folle pratica di riunire ai rifiuti domestici il raccolto dello spazzamento stradale. Non mancano, infine, numerose altre opzioni di utilizzo, come la bonifica di siti contaminati e il verde urbano.

Considerazioni economiche e normative

Per superare le diffidenze degli agricoltori verso i materiali organici di recupero, retaggio di iniziative speculative di operatori senza scrupoli negli anni ’60 e ’70, devono essere introdotte tutele sul piano normativo e del costo del prodotto. L’attuale normativa non tiene conto dei criteri di qualità del prodotto, trascurando tutti i risultati di ricerche decennali, condotte nel nostro paese da équipes universitarie, che definiscono la qualità dell’ammendante organico in relazione al sistema “coltura + terreno”. Occorrerà, inoltre, prevedere la creazione di nuove imprese o il coinvolgimento di imprese del settore della fertilizzazione organica. Tali imprese potrebbero vedere la compartecipazione di agricoltori e organizzazioni professionali agricole, per accrescere il potere di controllo dell’utente finale. Sul piano dei costi, la collettività – che paga cifre ingenti per lo smaltimento dei propri rifiuti – dovrà in parte farsi carico del costo di trattamento, poiché l’agricoltura non può farsene carico totalmente. Sulla base di una proposta di alcuni anni or sono, la collettività potrebbe farsi carico della differenza tra il costo di trattamento della sostanza organica e il valore commerciale del letame bovino nella zona in esame.

Per mantenere accettabili livelli di fertilità naturale e qualità delle acque sotterranee, oggi si dovrebbe partire dai livelli locali. In concreto, potrebbe svilupparsi una procedura di pianificazione delle attività agricole (piani zonali di sviluppo), basata sul calcolo della sostanza organica asportata con le coltivazioni e la valutazione delle possibili fonti locali di materie organiche, agricole ed extra-agricole, recuperabili a scopo agronomico (“bilancio di sostanza organica”).

Il circuito virtuoso da attivare potrebbe essere cosi configurato: avveduti operatori agricoli + efficace apparato igienico sanitario di controllo + normativa competente + lungimirante industria produttrice dei fattori di produzione per l’agricoltura + pubblici amministratori innovativi.

Circolo virtuoso…

Dimenticavo un particolare in questo storia. L’analisi e le proposte che il lettore ha avuto la compiacenza di leggere fin qui, non sono l’ultimo grido degli ambientalisti, ma un estratto degli Atti della Conferenza internazionale sul compostaggio, tenutasi a Milano nel 1997. In altri termini, dopo tre lustri di studi, conferenze e norme disattese, è tutto ancora di attualità. Il lettore allora potrebbe chiedersi perché ho deciso di descrivere qualcosa che sembra destinato a rimanere sulla carta. La risposta è semplice. In primis perché il recupero dei rifiuti organici resta un’opportunità economica e ambientale che merita di essere raccontata. In secundis perché questa storia può rappresentare una delle innumerevoli metafore sull’incapacità italiana di costruire un diverso futuro per il paese. Non abbiamo bisogno di una classe dirigente di dispensatori di slogan e affabulatori vari. Cominciamo a pretendere, da cittadini, che chiunque voglia assumere cariche elettive descriva il suo “piano industriale” per dare concretezza ai propri obiettivi e non si limiti ad un elenco di desideri buono per diventare carta straccia. Smettiamola di dar credito ai soliti venditori di fumo e pretendiamo, in un certo senso, che sia rispettata la “Regola delle 5 W” tipica del giornalismo anglosassone: Who, What, When, Where, Why (Chi, Cosa, Quando, Dove, Perché). Un diverso avvenire del paese deve cominciare da qui.