Pubblicità, maleducazione, cattivo gusto

La pubblicità “maleducata”

di Marta Boneschi

La pubblicità non ha certo il dovere di educare, ma parla a tutti e per questo dovrebbe rispettare qualche regola di decenza. Ma le imprese, produttrici di beni e servizi, che hanno investito il loro denaro, sono affamate di pubblico, di un pubblico acritico e maleducato, di vogliosi consumatori. Siamo diventati davvero tutti vittime del desiderio irrefrenabile di possedere cose: scarpe, vestiti, profumi, automobili?

«Passami le mie scarpe, le mie Samsonite» ingiunge il marito alla moglie in un deplorevole spot televisivo, che da qualche mese sta martellando il pubblico. Lei gli passa la scatola, che le pare vuota, e invece è piena, contiene un paio di calzature super leggere. Se le super leggere fanno da protagoniste dello spot, non può sfuggire lo sfondo, cioè la scenetta coniugale. Qui, insieme al “mie”, ripetuto due volte, spicca il tono perentorio del coniuge, il quale ribadisce così la centralità del possesso maschile, qualunque sia l’oggetto del possesso.

Se tutto questo non basta a infastidire lo spettatore (la spettatrice) civilizzata, disturba anche l’assenza di due parole essenziali nell’amabilità di ogni rapporto tra le persone: “per favore” e “grazie”. Stupida moglie, obbedisce e corre con la scatola in mano, e non capisce che racchiude le scarpe ultima moda. Non merita neppure un pizzico di cortesia. Chi mai può desiderare far parte di una coppia tanto infelice?

Va bene, la pubblicità non ha il dovere di educare. Non è suo compito mostrare come la famiglia potrebbe essere la sede degli affetti, e non una caserma nella quale si impartiscono ordini, e agli ordini si deve obbedire. Purtroppo, però, la pubblicità parla a tutti, senza distinzione di età, censo o cultura. Proprio per questo dovrebbe segnare a se stessa qualche limite di decenza. Ma non lo fa, e non può farlo, a sentire gli addetti ai lavori: i produttori di beni e servizi, infatti, investono denaro, e perciò dettano le regole a chi confeziona manifesti, spot e slogan. La regola numero uno prescrive di rivolgersi al pubblico più ampio possibile, cioè soprattutto ai meno forniti di strumenti critici, ai meno inclini all’ironia, a chi viene così educato, o meglio male educato, alle relazioni umane e sociali.

Sembrano sciocchezze, ma la pubblicità è una componente molto importante della comunicazione pubblica e di massa, insieme all’informazione cosiddetta “indipendente” dei giornali, della radio, della televisione, di internet. Tutti questi “fornitori di informazioni” oggi rifilano un’immagine di noi stessi, come individui e come colletività, profondamente falsa, fuorviante e deprimente. Rispecchiano insomma le componenti più cieche e retrive della società italiana. Quelle componenti che puntano a non cambiare nulla, a tenere in soggezione e schiavitù chi non ha la sfacciataggine, il denaro e il potere.

La pubblicità ci dipinge come succubi del possesso materiale, golosi senza freno, giocatori d’azzardo compulsivi, vittime delle mode, stretti tra mamme possessive e amici invidiosi (c’è bisogno di aggiungere: mogli noiose, bambini incontrollabili, mariti prepotenti?). La pubblicità non mente del tutto: con ogni probabilità, milioni di maschi bramano le scarpe super leggere, milioni di donne sono ossessionate dall’assalto dei batteri, milioni di bambini pretendono la merendina. La pubblicità non mente, tuttavia non ha contradditorio, ed è un gran male.

Tutto questo sarebbe tollerabile in tempi normali. Diventa insopportabile nel 2012, perché abbiamo sotto gli occhi le conseguenze della disinvoltura etica e civile dell’ultimo ventennio (e forse sarebbe utile andare ancora più indietro con la memoria), e anche perché abbiamo bisogno di risorgere come collettività, di rincorrere il mondo moderno, aperto e libero.

Tanto per cominciare, è normale pensare che, per imitazione, qualsiasi spettatore si abitui a omettere le paroline di cortesia. Fiato sprecato, formule fuori moda, inutile imporle ai bambini, faticoso ricordare di pronunciarle all’indirizzo dei propri cari (o intrusi nel nostro cerchio di egoismo?). Il risultato sarà la maleducazione diffusa (non intendiamo le buone maniere, non si tratta di tornare al baciamano, ma semplicemente di corredare i rapporti umani di dolcezza e rispetto).

In secondo luogo, da scenette coniugali di questo tipo emerge un’immagine delle donne degna dei tempi più oscuri. Come se il Novecento fosse trascorso invano, con il progresso civile che ha finalmente concesso alle donne un’autonomia umana e personale, la pubblicità va a braccetto con il filosofo ottocentensco Antonio Rosmini, quando decretava che la donna dev’essere considerata «un’accessione, un compimento del marito, tutta consacrata a lui e dal suo nome dominata». O all’altrettanto cattolico Vincenzo Gioberti, il quale assegnava la donna al regno vegetale e l’uomo al regno animale; la prima passiva e senza vitalità, il secondo dotato di vitalità e iniziativa. Questi pensatori sono tuttora studiati nelle scuole superiori, e speriamo che le loro riflessioni siano presentate dagli insegnanti nel loro contesto, e non come universalmente validi. Lo speriamo vivamente, perché la Chiesa cattolica è alleata della pubblicità nel tenere congelata la società italiana a modelli precedenti il miracolo economico, radicati nel fascismo e disegnati nel lontano Ottocento.

Anche la Chiesa cattolica, come la pubblicità, si rivolge a milioni di fedeli, e non incontra che un fievole contradditorio, poche voci isolate e presto tacitate come “anticlericali” e “laiciste”. Eppure qualcosa appare strano. La Chiesa cattolica chiede ai contribuenti l’otto per mille con i suoi spot accattivanti (di nuovo la pubblicità, questa volta cosparsa di miele e bontà), dove si mostrano i benefattori pronti a soccorrere i diseredati, gli affamati, i malati, i deboli, i tossicodipendenti, i terremotati e molti altri. Ma la stessa Chiesa cattolica punisce i poveri e premia i ricchi quando impone ai legislatori italiani di stabilire che la fecondazione eterologa sia vietata, e gli embrioni fecondati non più di tre. La conseguenza è che i ricchi possono permettersi di accedere all’estero alle fecondazioni proibite, i poveri resteranno senza figli. Non c’è da meravigliarsi che le diserzioni dalla pratica religiosa siano particolarmente intense tra le quarantenni.

Ogni questione di comunicazione rispecchia la realtà. La nostra realtà è quella descritta da Nadia Urbinati in Liberi e uguali (Laterza, 175 pagine, 16 euro): «Questo individualismo possessivo e conformista, litigioso e docile, facilmente disposto a manipolare le norme e subire il dominio dispotico della logica consumistica, si interseca con l’immagine di una società priva di un centro di valori etici che fungano da forza di gravità (…), l’eguaglianza di cittadinanza ma anche di umanità; la solidarietà come amicizia tra i cittadini, ma anche come empatia tra esseri umani».

Occorre perciò ricostruire una rete di rapporti umani a partire da un “centro di valori etici” e sarebbe desiderabile che tutti i comunicatori di professione guardassero a quel centro, invece che al lontano Ottocento o alle ingiunzioni da caserma. O meglio, se proprio vogliamo ispirarci ai maestri dell’Ottocento, scegliamo Charles Fourier, di solito liquidato come “utopista”, e invece molto attento all’evoluzione dei rapporti umani: «I progressi sociali si misurano in ragione del progresso della donna verso la libertà».