Se la crisi distrugge la voglia di fare impresa

di Aldo Bonomi

Le incertezze e, anche, l’impotenza della politica, sia a livello nazionale che europeo non solo ritardano e, magari, ostacolano, l’uscita dalla crisi, ma rischiana addirittura di aggravarla. La mancanza di prospettive, di certezze, più ancora della mancanza di credito, alla fine può uccidere quello che è l’ingrediente primo e necessario della ripresa economica: la voglia di fare impresa. Senza un qualche aiuto il mondo fragile, ma decisivo della piccola impresa può subire danni irreparabili

Sono giorni in cui ci si sente come “color che stan sospesi”. I miei microcosmi sono lì, appesi ai rami di un albero, il capitalismo di territorio italico, che qualcuno sta incoscientemente tagliando. Stanno tagliando l’albero dove siamo seduti, le cui radici sono pure scosse dal terremoto. Un colpo d’ascia arriva dall’inoperosa politica della Cancelliera Merkel, che par avere perso il senso del tragico della storia europea, rinserrata in uno spazio economico ove ogni nord cerca un suo sud in quella sequenza tutta mediterranea che va dalla Grecia al Portogallo, alla Spagna, all’Italia. L’altro colpo lo ha assestato il ritardo governativo che ha fatto apparire per lungo tempo il fantasma delle misure per la crescita. Costringendo il ministro Passera a intervenire all’assemblea di Confindustria, a quella della Cna e della Confartigianato, sino al Forum dell’Economia di Trento, raccontando quanto sono gli italiani in sofferenza più che ad indicare il da farsi. Finalmente il fantasma si è materializzato sulla scena con alcune misure che mi paiono importanti per le piccole imprese del capitalismo di territorio.

Intanto dall’albero scosso delle imprese non sono pochi i rami rinsecchiti precipitati a terra. Al 31 dicembre 2011 era composto da più di 6 milioni di imprese. Nel primo trimestre 2012 il saldo tra natalità e mortalità è stato di -26mila unità. Quasi il triplo rispetto al primo trimestre 2011, quando erano mancate all’appello “solo” 9600 imprese. Cadono a terra le imprese individuali, diminuite in tre mesi di 30mila unità (-10.000 al sud, -15000 tra gli artigiani). E già mi immagino i commenti di alcuni soloni della scienza triste pronti a dire che è la selezione del mercato. Non tenendo conto che quell’antropologica e diffusa tendenza all’intraprendere, fatta di un impasto di individualismo proprietario che si fa progetto di vita, è l’humus di imprese molecolari che alimentano filiere territoriali senza le quali si inaridiscono i vantaggi competitivi delle medie imprese e di intere piattaforme territoriali del made in Italy. Siamo in presenza di segni incontrovertibili delle difficoltà di un lungo ciclo di sviluppo, che può diventare un declino diffuso della voglia del fare impresa in Italia, se non se ne colgono e supportano gli elementi di metamorfosi, di profonda trasformazione dei modi e delle forme del produrre per competere che coinvolge trasversalmente territori, settori, filiere. Continuando nella metafora dell’albero del capitalismo italiano, in cima ci sono le fronde floride delle cosiddette avanguardie agenti, un’esigua minoranza di imprese che sono riuscite a consolidarsi sui mercati che presidiano e, anche nella crisi, a crearsene di nuovi. Sono realtà più propense a guardare il cielo che le loro radici. Hanno costruito una rete di relazioni e partnership internazionali e hanno allentato il legame con i loro territori di origine. Nel giro di un anno la quota di subfornitori nazionali delle medie imprese italiane è scesa dal 49% al 38% circa, mentre i subfornitori stranieri crescono oltre il 20 per cento. Sotto troviamo i germogli del nuovo ceto imprenditoriale che fa nuova impresa che, sfrondato dai tanti numeri di quelle che dentro la crisi chiamiamo “imprese di necessità”, ci fanno capire cosa rimane della voglia di fare impresa. L’ultimo rapporto Unioncamere ci dice che il 43% di questi nuovi imprenditori è in uscita dal lavoro dipendente, il 25,7% erano operai o apprendisti, il 17,9% impiegati o quadri, solo il 5,7% era studente. Assomigliano agli imprenditori “mediocri” del secondo dopoguerra, con la differenza che quelli partendo dai sottoscala, miravano ad accrescere reddito e stato sociale e a diventare piccola borghesia emergente. Oggi, in piena recessione, la scelta di aprire una partita IVA mi sembra più l’ultima istanza per evitare l’uscita dal ciclo. È un ciclo sempre più terziario. Tra le imprese aperte da giovani, il 15,7% opera nel campo delle “altre attività di servizio”, il 14,9% nel settore turistico e della ristorazione, mentre la manifattura si ferma al 7,6%, (percentuale molto simile a quella dell’agricoltura 7,4%). Cresce anche il settore delle cooperative +1000 unità nel primo trimestre del 2012. E mi meraviglia che nel dibattito sulla riforma del mercato del lavoro nessuno abbia pensato a questo strumento antico e iperattuale per combattere il precariato e la disoccupazione giovanile. In mezzo c’è tutto il resto dell’albero. Una zona grigia che rappresenta la maggioranza del capitalismo molecolare in cui si prova a sopravvivere e si sperimenta. Sono imprese che solo cinque anni fa non avrebbero messo in dubbio la loro sopravvivenza. Da quattro anni navigano a vista, con ordini che raramente superano l’orizzonte dei tre mesi e una magazzino che si è via via ridotto nel corso della crisi. È il ceto medio dell’impresa che fu. Oggi sempre più ceto medio impoverito che impegna il proprio patrimonio personale per sperimentare, nel loro navigare a vista, strategie di innovazione di prodotto e di processo, cercando dove possibile di tagliare i costi. Deboli e rasenti al suolo ci sono quelle imprese che non hanno alcuna possibilità di competere nell’attuale contesto. Realtà della manifattura o della filiera edilizia subfornitrici di altre realtà imprenditoriali sovente in regime di mono-committenza. Dipendono dalle banche che non concedono loro credito, temono lo Stato esattore e una domanda interna sempre più depressa. Sono anche loro depressi. Sono quelli per cui la fine di un progetto di vita può diventare traumatica. Soffrono quella che chiamiamo “la solitudine dei piccoli”. È un racconto che interroga se tra l’ipotesi di attraversamento della crisi mettiamo in agenda quella di una metamorfosi che ci permetta di uscirne, rimanendo il secondo paese manifatturiero d’Europa. Allora, se la risposta è sì, quell’albero è la nostra Tennessee Valley, cui dare acqua alle radici piuttosto che abbatterlo.

Tratto da “Microcosmi” Il Sole 24 Ore 17 giugno 2012