Riformare il capitalismo si può?

Sì, ma la ricetta socialdemocratica non funziona

di Lapo Berti –

È riformabile il capitalismo, questo capitalismo? Ovvero: esistono, sono identificabili forze sociali, energie politiche, capaci di esercitare un contrappeso, in modo che si possa giungere a un nuovo compromesso fra capitalismo e democrazia come quello che ha reso possibili i “trenta gloriosi” anni del dopoguerra? Vai alla replica di Biasco

È questo l’interrogativo pesante che si staglia sullo sfondo dell’ampia analisi e delle dense riflessioni che Salvatore Biasco (*) ci offre in questo agile libretto, nato da un ciclo di conversazioni pubbliche. Esso fa tutt’uno con il tentativo di ridare linfa alla prospettiva socialdemocratica europea, ponendola in grado di esprimere un programma di riforma del capitalismo e, quindi, di uscita credibile dalla crisi.

Biasco fa bene a riaffermare che “il rapporto tra democrazia e capitalismo si è dimostrato inscindibile” ovvero che la democrazia liberale, così come si è sviluppata storicamente in Occidente non può andare disgiunta dal mercato e dalla proprietà privata, in altre parole dal capitalismo (p. 11). Questo è infatti lo scenario che abbiamo davanti. E fa ancora meglio a ricordare che tale rapporto ha sempre avuto natura conflittuale. Perché qui sta il punto, lo hic Rhodus hic salta!, di qualunque programma riformatore, che Biasco vuole socialdemocratico, ma che non cambierebbe anche se lo si privasse della connotazione socialista. La sfida resta quella di trovare, di volta in volta, i modi per rendere quel rapporto non distruttivo, ma produttivo di benessere sociale. Biasco è convinto che l’unico modo di vincere questa sfida sia di mettere in campo un programma socialdemocratico imperniato che riconsegni alla politica il primato che gli spetta. È questo il principale punto di dissenso, su cui tornerò.

Biasco non si sottrae; anzi, dopo aver sviluppato un’analisi concisa, ma non superficiale, di quello che è successo nel trentennio dominato dal liberalismo economico, s’impegna nella definizione dei capisaldi di una riforma che, riportando la politica al comando, riesca contemporaneamente a riportare il capitalismo nell’alveo di un regime democratico.

Dico subito che nell’analisi, dalla quale comunque scaturisce un quadro piuttosto convincente di quello che è successo nell’ultimo trentennio sotto la spinta dei processi di globalizzazione, manca un anello che ritengo decisivo. Manca l’analisi e la spiegazione del perché il “compromesso socialdemocratico” o keynesiano, come lo si voglia chiamare, alla fine non sia risultato sostenibile e sia letteralmente franato sotto i colpi della stagflazione e di fronte all’attacco scatenato congiuntamente dal reaganismo e dal thatcherismo. La comprensione di quel passaggio, a mio avviso, è necessaria per individuare correttamente la via d’uscita dalla crisi attuale e non limitarsi a ripercorrere “sentieri interrotti”, che portano in un vicolo cieco. Biasco sembra ritenere che nel corso del novecento si sia combattuta anche una guerra ideologica che ha visto vincenti gli esponenti del capitalismo globale i quali, attraverso il controllo dei mezzi di comunicazione e dei centri di produzione culturale, hanno imposto il “pensiero unico” dell’ideologia liberista.

Non ho dubbi sul fatto che l’affermazione dell’individualismo mascalzone, come lo chiamo io, sia stata anche il frutto di una guerra ideologica combattuta con grande dispendio di energie economiche e intellettuali da parte dell’oligarchia finanziaria globale. Ma sono anche convinto che le forze politiche e intellettuali che avevano dato vita al “compromesso socialdemocratico” non sono state in grado e ancora dimostrano di non essere in grado di costruire un’egemonia culturale alternativa. E questo dovrebbe essere uno dei principali punti di discussione nel tentativo di costruire un campo riformatore capace di vincere e di esercitare un’attrazione egemonica. Il secondo punto principale essendo quello di identificare un possibile aggregato di forze economiche e sociali che dovrebbe essere sospinto dai propri interessi a condividere una simile prospettiva e a sostenerla con la propria adesione politica.

L’esaurimento del “compromesso socialdemocratico” non può essere spiegato solo come il frutto di una sconfitta dello schieramento progressista determinata dalla capacità del fronte avversario di costruire ed esercitare un’egemonia culturale fondata sul discorso liberista. E nemmeno con la sconfitta del lavoro dipendente fordista da parte della grande impresa capitalistica. A me sembra evidente che uno dei fattori che ha determinato quell’esaurimento è la mancata elaborazione di anticorpi istituzionali che frenassero l’espansione dello stato pur mantenendo una rigorosa supervisione dei mercati. Questo ha progressivamente eroso l’equilibrio del “compromesso socialdemocratico” e alla fine l’ha fatto saltare.
Si può essere invece d’accordo con Biasco sul fatto che il trentennio dell’individualismo mascalzone si è sviluppato in maniera incontrastata perché le forze interessate a imbrigliare le dinamiche capitalistiche sono state incapaci di fare fino in fondo i conti con la realtà del capitalismo globale animata dall’ideologia del liberalismo economico. Ma questo non, come pensa Biasco, perché la sinistra socialista ha preso la via subalterna del compromesso blairiano, ma perché non è stata capace di pensare un nuovo “compromesso” che non poteva più essere socialdemocratico, ma doveva far proprie ed elaborare le istanze espresse dai movimenti del 99% ovvero doveva fare i conti con i movimenti e con le pulsioni che animano una società “liquida” (Bauman).

Il libro di Biasco è, senza ombra di dubbio, il contributo più rilevante che sia comparso in Italia sulla possibilità e necessità di ricostruire una prospettiva politica socialdemocratica, che nel nostro paese, va detto, non c’è mai stata. L’autore è perfettamente consapevole del fatto che la socialdemocrazia è figlia di una stagione politica caratterizzata da una composizione sociale che è da tempo scomparsa. Ma non ritiene che, per questo, si debba considerare esaurita la funzione che l’agenda socialdemocratica ha storicamente svolto. Anzi, il punto di partenza del libro è, prima di tutto, una critica aspra, severa, senza sconti, dell’incapacità del PD e, più in generale, della sinistra europea di elaborare una prospettiva socialdemocratica che rappresenti un’alternativa compiuta e credibile alle politiche messe in campo dal liberismo. Il PD, come tutta la sinistra europea, è accusato di aver ceduto le armi nella battaglia per l’egemonia culturale e di essersi piegato all’invasione del pensiero unico neoliberale, limitandosi a coniugarlo qua e là con i residui valoriali della tradizione socialdemocratica, come ha fatto, nel peggiore dei modi, secondo Biasco, il laburismo di Blair. Qui sta, secondo Biasco, anche il fallimento del PD e da qui bisogna ripartire se si vuole ridare alla sinistra italiana ed europea una prospettiva credibile, una capacità di rispondere ai problemi che la crisi globale ha irrimediabilmente messo a nudo e imposto alla riflessione politica.

Un libro così denso di analisi, di riflessioni, di proposte, verrebbe voglia di discuterlo quasi riga per riga, per le domande che suscita, le sfide che solleva, e che non riguardano solo l’economia e la politica, ma si allargano fino a comprendere i fondamenti antropologici e culturali della società in cui viviamo. Nell’ambito di una breve recensione come questa, tuttavia, quello che si può fare è di riproporre i punti nodali dell’argomentazione e indicare gli elementi di dissenso che esigerebbero approfondimenti.

Biasco, dicevamo, non ha dubbi sul fatto che il destino della sinistra, in Italia e in Europa, sia legato al rilancio di una prospettiva autenticamente socialdemocratica. Non considera meritevole di discussione il dubbio che l’idea socialdemocratica sia oggi inficiata da una visione della società spezzata in due grandi tronconi dal conflitto che ha caratterizzato per decenni il mondo fordista sul crinale del lavoro industriale. A Biasco non viene nemmeno in mente che oggi una prospettiva riformista capace di ripensare le istituzioni del capitalismo e ridare senso e vigore alla democrazia debba far riferimento non a un ipotetico mondo del lavoro subordinato che si contrappone a una presunta borghesia capitalistica, ma debba guardare a quel 99% di Occupy Wall Street, che, pur nei suoi limiti simbolici, allude a una società in cui la frattura è spostata altrove e, soprattutto, è determinata da motivi diversi da quelli del mondo fordista.

La riforma del capitalismo che Biasco ha in mente poggia sulla “ricerca della massima estensione possibile del principio di socialità all’interno di una riconquista del primato della politica sul mercato” (85). Si tratta, sono sempre parole di Biasco, di “ripensare, attraverso le regole, il tipo di capitalismo che i socialdemocratici e democratici indicano e perseguono come desiderabile” (93). Non mi soffermerò qui sulle singole misure, che Biasco suggerisce puntigliosamente e con un certo dettaglio, attraverso le quali dovrebbe realizzarsi la riforma del capitalismo. Si tratta di misure che, in sé, sono largamente condivisibili e che dovrebbero essere prese in considerazione da qualunque agenda riformatrice. Mi interessa di più discutere l’impianto sottostante, la filosofia della proposta politica di Biasco.

Dunque, com’è proprio di una proposta riformista, non ci proponiamo di sostituire il capitalismo con qualcosa di alternativo né, tanto meno, di abbatterlo, come ancora vagheggia qualche cultore della materia rivoluzionaria. Si tratta, più semplicemente e realisticamente, di operare per rendere il sistema capitalistico globale, da cui oggi sono invase e dominate le nostre società, un sistema economico sostenibile. Si tratta, in altre parole, di contrastare le tendenze distruttive che il capitalismo per sua natura produce, in primo luogo nei confronti della coesione sociale e degli equilibri ambientali. Biasco, ricollegandosi al mainstream della tradizione socialdemocratica, ritiene che questo obiettivo sia perseguibile solo rimettendo in campo un’iniziativa politica che sia in grado di sovraordinarsi alle dinamiche capitalistiche, domandole e indirizzandole verso finalità socialmente condivise, e rilanciando il ruolo dello stato nella guida del processo economico. È, in pratica, la ripresa della prospettiva dell’”economia mista” in cui, negli anni sessanta del secolo scorso, trovò una sorta di sistemazione teorica il “compromesso socialdemocratico” e di cui fu autorevole espressione Modern Capitalism (1965) dell’economista britannico Andrew Shonfield.

Ora, io sono personalmente convinto che un modo efficace e fecondo di rilanciare il dibattito sulla riforma del capitalismo sia certamente quello di riprendere la nozione di “economia mista”, ma con l’obiettivo di riempirla di contenuti nuovi, che tengano conto delle esperienze condotte nel mezzo secolo trascorso. Due punti, in particolare, mi sembra vadano sottolineati. In primo luogo, non si può pensare che la politica e l’intervento pubblico in cui essa eventualmente si traduce possano essere concepiti come una sorta di primum movens in grado di conformare i comportamenti del resto della società, e dell’economia in particolare, nel perseguimento di determinati fini. Gli uomini che agiscono la politica e il governo non sono angeli dediti unicamente al bene comune. Sono di parte, rappresentano gruppi d’interessi e perseguono anche interessi personali di potere e di ricchezza, come abbiamo appreso fin troppo bene anche dall’esperienza del nostro paese. Per di più, i meccanismi concreti della democrazia non sono tali da imporre ai politici e ai governanti vincoli e incentivi/disencentivi che mantengano i loro comportamenti in linea con l’interesse generale. In secondo luogo, i mercati danno il meglio di sé nello stimolare l’innovazione e nel contenere i prezzi quando sono sottoposti a regole e supervisione rigorose, non quando sono soggetti a interventi arbitrari del governo e dell’amministrazione o al potere delle grandi organizzazioni capitalistiche. Quello che serve, dunque, è uno stato che fissi regole del gioco severe e le faccia rispettare, mantenendo gli organi di controllo il più possibile al riparo dall’influenza determinante della politica e dei potentati economici.
Se si adotta questo punto di vista più realistico, il quadro che prende forma non è quello in cui la politica prende il comando dell’economia e della società nella presunzione di poter agire nell’interesse di tutti, ma quello di un contesto competitivo in cui la politica, il governo e le forze del mercato interagiscono entro un quadro di regole, variabile nel tempo, che crei un effettivo sistema di check and balance e impedisca sia alla politica che all’economia d’imporre le loro logiche parziali, dettate dai gruppi di potere che di volta in volta dominano l’una e l’altra. Il problema vero che oggi abbiamo davanti non è quello di continuare a dividerci fra quelli che vogliono più stato e quelli che vogliono più mercato, semplificazione ormai ridicola oltre che inefficace, ma di costruire l’ambiente istituzionale che induca la politica e il mercato a interagire, senza sopraffarsi, in un quadro di democrazia effettiva. Ovvero in un quadro in cui i politici eletti sono effettivamente soggetti al controllo degli elettori e il potere economico è costretto entro limiti definiti e separato dagli altri poteri, come vuole il costituzionalismo democratico.

L’impressione è che Biasco, nel suo generoso sforzo di ripensare l’agenda di una sinistra socialdemocratica, sia in qualche modo frenato da una concezione eccessivamente rigida e semplificata sia dello stato che del mercato e, soprattutto, delle dinamiche istituzionali che è necessario interporre fra i due, com’è proprio, appunto, della visione socialdemocratica. Allo stato viene astrattamente attribuita la funzione di perseguire e garantire l’interesse generale, a prescindere dal modo in cui questo possa essere identificato e fatto emergere. Non si tiene presente che, in realtà, il termine stato copre una realtà complessa e assai articolata, che non consente di considerarlo come l’esclusione e inflessibile tutto del bene comune. Ciò che si attribuisce all’azione dello stato è il frutto dell’interazione di almeno tre realtà diverse, ognuna segnata dalla particolarità degli interessi e delle competenze: l’apparato amministrativo, il sistema dei partiti, il ceto di governo. È abbastanza improbabile che il risultato sia conforme a quanto promesso agli elettori da qualsivoglia partito. D’altro canto, Biasco vede anche il mercato, che non rifiuta, ma di cui diffida, in un’ottica, secondo me, rovesciata. Il mercato è accusato di aver invaso la sfera statale, arrivando a dominarla, aprendo la strada agli eccessi del capitalismo globalizzato. A me sembra, invece, che sia avvenuto l’inverso. Una cultura incapace di misurarsi fino in fondo con le dinamiche del mercato e con la loro estensione globale, come si è dimostrata quella socialdemocratica, ha lasciato che si sviluppasse, nel vuoto istituzionale di un’economia globale, un capitalismo senza regole e si affermasse un’oligarchia finanziaria globale in grado di assoggettare, spesso comprandola, la politica dei governi.
Più che il rilancio di un improbabile primato della politica, forse, quello di cui c’è davvero bisogno è una riscrittura dei patti costituzionali, che separi e disciplini il potere esorbitante che si forma nella sfera economica e finanziaria, oggi al di fuori di qualsiasi vincolo e regola. D’accordo, dunque, con Biasco che il problema fondamentale del presente è quello della costruzione di un programma politico e, più in generale, di una cultura che ci mettano in grado di condizionare le dinamiche del capitalismo globale in modo da renderlo compatibile con una civiltà della democrazia che è ancora tutta da inventare. Ma non sarà una riedizione dell’agenda socialdemocratica a renderlo possibile. Non sarà sufficiente fare appello alla gran massa del lavoro dipendente, che non ha più le caratteristiche di omogeneità materiale e ideologica che aveva il proletariato fordista. Occorrerà guardare alla stragrande maggioranza della società, a quel 99% che, non a caso, si è presentato sulla scena per denunciare e contrastare lo strapotere finanziario globale. È solo in questa prospettiva e a questo livello che si può sperare di riuscire a rinnovare gli istituti e i meccanismi della democrazia. Il tema posto da Biasco, “Ripensare il capitalismo” è sacrosanto, come sacrosante sono molte delle istanze e delle proposte che egli avanza. Temo ci sia bisogno di un contenitore radicalmente nuovo.

Salvatore Biasco, Ripensando il Capitalismo. La crisi economica e il futuro della sinistra, Luiss University Press, Roma 2013.