Più tasse ai ricchi: la sfida di Obama

Fiscal Cliff: dalla campagna elettorale a quella di mobilitazione

di Pierluigi Musarò –

Che la strada del secondo mandato di Obama fosse decisamente in salita lo avevo anticipato nell’ultimo scritto relativo all’Election Day. Ma che per contrastare la disuguaglianza che mina la democrazia statunitense il presidente dovesse arrivare a mobilitare il popolo americano, questo non era scontato.

La mail che mi è appena giunta recita:

Pierluigi,
Right now, President Obama is asking you to think about what $2,000 a year means to you and your family — because Congress needs to hear it.
The Senate has passed a bill that stops taxes from going up for 98 percent of American families, and asks those who can afford it to pay a little more. If the House follows suit, President Obama is ready to sign it as soon as it hits his desk.
If they fail to do so, a typical middle-class family of four will see their taxes go up by $2,000 in just a few short weeks.

A cui segue il video della campagna appena lanciata.

Dalla campagna elettorale a quella di mobilitazione. D’altra parte, sin dalla prima conferenza stampa dopo la rielezione, il presidente ha insistito sul progetto di blocco degli sgravi fiscali per i redditi oltre i 250mila dollari annui. E su questo sta puntando l’inizio del secondo mandato: sia perchè ne aveva fatto un pilastro in campagna elettorale, sia per respingere le accuse di chi, come i repubblicani, lo dipingono come “debole” e “incapace di risolvere la crisi economica”, denunciando la sua debolezza nei confronti del Congresso.
Per chiudere con un successo la partita del Fiscal Cliff – ovvero la stretta della spesa e l’aumento delle tasse che scatteranno fra la fine dell’anno e l’inizio del 2013 – Barack Obama ha lanciato una campagna che spazia dall’incontro alla Casa Bianca con alcuni dei manager più ricchi del paese, al dialogo con i repubblicani al Congresso, sino alla chiamata in causa del popolo americano.
Di certo il linguaggio usato con i diversi target è diverso, ma il messaggio in estrema sintesi è lo stesso: più tasse ai ricchi per non dover colpire il 98% degli americani e le piccole imprese.
Tra i top manager seduti alla Casa Bianca la scorsa settimana – molti dei quali avevano puntato su Mitt Romney – c’erano gli amministratori delegati di Deloitte LLP e Coca Cola; Marissa Mayer di Yahoo; Doug Oberhelman della Caterpillar; Ian Read della Pfizer; Randall Stephenson della AT&T e Lloyd Blankfein, amministratore delegato di Goldman Sachs. Per capire l’atmosfera, si pensi che negli ultimi 40 anni, la Goldman Sachs, che ha fornito a Washington più ministri del Tesoro di chiunque altra, è stata tradizionalmente la massima finanziatrice del Partito democratico alle elezioni presidenziali e congressuali per quanto riguarda Wall Street. Mentre quest’anno è divenuta la prima finanziatrice del Partito Repubblicano. Un dato che rende evidente quanto la strada sia davvero tutta in salita, dunque. Ma non impossibile da percorrere.
E proprio per rendere meno improbabile l’impresa, Obama si è rivolto allo stesso popolo a cui si era appellato durante la campagna elettorale per la rielezione. A questi ha chiesto di far sentire la loro voce a Capitol Hill, in primis attraverso i social network. Evidenziando, appunto, che se non si riesce a tassare il top 2% dei redditi del Paese, le conseguenze costeranno almeno $2,000 per tutti gli altri. Quel 98% che, come me, ha ricevuto la mail, appunto.
Interessante come la retorica presidenziale richiami esplicitamente la scissione della società che contrappone gli interessi dell’1% a quelli del restante 99%. Potere degli slogan lanciati dal movimento Occupy Wall Street? O forse la realtá è divenuta talmente evidente che non si può più pensare di nasconderla sotto il tappeto?

Visto dalla patria del capitalismo, lo scontro che si profila al Congresso finirá per riuscire ad incidere (anche se di poco) su quella “mano invisibile” che toglie ai più per dare ai pochissimi. E non perchè i Democratici siano davvero più solidali o convinti dei valori di una democrazia equalitaria rispetto ai Repubblicani. O almeno, non solo per questo. Ma perchè “non è dalla generosità del macellaio, del birraio o del fornaio che noi possiamo sperare di ottenere il nostro pranzo, ma dalla valutazione che essi fanno dei propri interessi”, come diceva Adam Smith. E la valutazione degli interessi del 2% oggi passa attraverso la consapevolezza che la diseguaglianza mina la democrazia, mettendo così a rischio i privilegi della classe agiata. Consapevolezza che deriva, anche, dalla voce di quanti giorno per giorno prendono coscienza di come, negli Stati Uniti, la maggiore disuguaglianza di reddito conviva con la minore tassazione della ricchezza. Voce che si leva ormai alta sia da parte di quanti faticano ad arrivare a fine mese, sia da parte di chi ritiene che aumentare le tasse si può, se il motivo è buono.
Se in Europa la svolta è stata anticipata da Hollande, che in Francia ha proposto una tassazione del 75% per chi ha redditi superiori al milione di euro, negli Stati Uniti l’anticipo della svolta giunge dalla California, dove i super ricchi hanno consapevolmente scelto di auto-tassarsi per consentire la salvaguardia e diffusione dell’istruzione pubblica – lo illustra bene l’articolo sul referendum relativo alla “Proposition 30”, di Sergio Di Cori Modigliani. Referendum che segue la denuncia di Warren Buffett, il guru della finanza americana, citato nel mio precedente articolo, che si è spinto a denunciare che bisogna far pagare una tassa ai super ricchi per aiutare la ripresa economica, spiegando che l’anno scorso ha pagato di tasse il 17% del suo reddito, mentre le venti persone che lavorano nel suo ufficio hanno sborsato il 36%. La sua segretaria, per esempio. O il 98% richiamato oggi da Obama per fare pressione su quel 2% il cui reddito è cresciuto di quasi 3 volte nell’ultimo trentennio. Mentre quello della stragrande maggioranza degli americani non è praticamente aumentato.
Si osservi, ad esempio, la mappa mondiale del coefficiente di Gini sul reddito: i paesi scandinavi sono quelli dove il reddito è più equamente distribuito, e la maggior parte delle nazioni europee sviluppate hanno coefficienti di Gini compresi tra 0.24 e 0.36. Il coefficiente di Gini degli Stati Uniti d’America invece supera 0.4, indicando una maggiore disuguaglianza di reddito nella popolazione statunitense. Tradotto: negli Stati Uniti, un individuo che nasce povero ha il 50% di probabilità di rimanere povero anche da adulto, mentre in Danimarca questa probabilità scende al 25% (gli Stati Uniti hanno un numero di detenuti che in proporzione è il quintuplo di quello della Danimarca).
In altre parole, per quanto qui regni ancora il mito dell’American Dream, le probabilità di diventare benestante sono a tuo favore se nasci povero in Danimarca. Segno che il capitalismo esclusivo è socialmente doloroso, tanto più perchè non fa pagare la crisi a tutti, ma solo al ceto medio-basso.
Il Fiscal Cliff di Obama – di fatto, una patrimoniale sui redditi – ha dunque tanto più senso non perchè è una misura “socialista”, come la bollano i Repubblicani, ma in quanto mira a salvare il capitalismo, facendolo diventare un po’ più “inclusivo”, affrontando l’ostacolo decisivo che blocca l’economia e la democrazia: la disuguaglianza nelle opportunità, nel potere, nelle capacitá, compresa quella di sognare e avere aspirazioni.
Se Obama e il suo popolo riescono a far capire le ragioni alla base di questa necessità, allora la convergenza con i Repubblicani non apparirá più impossibile.