Elezioni americane

Il Millionaires Party ha vinto ancora

di Pierluigi Musarò

Obama è stato rieletto, ma non in mezzo all’entusiasmo che salutò la sua prima, storica, vittoria. L’America che si risveglia dopo la notte delle elezioni assomiglia più a un incubo che a un sogno.  Più del 15% della popolazione vive sotto la soglia della povertà, 50 milioni di americani. Si tratta della percentuale più alta dal 1993 a oggi. In termini assoluti è il numero maggiore di “poveri” dai tempi della Grande Depressione. Oltre 50 milioni di americani sono inoltre privi di qualsiasi copertura sanitaria. Con il reddito medio di un nucleo familiare che è sceso sotto i 50mila dollari ed è, oggi, il 7% in meno rispetto a 12 anni fa. La strada di Obama è decisamente in salita, se vuole arrivare davvero a contrastare quell’insopportabile disuguaglianza che mina la democrazia.

Prima del risultato la tensione era alta.

Nell’ultimo duello televisivo, in quel di Boca Raton, ancora una volta il presidente uscente ha dimostrato la sua voglia di non uscire. Sebbene costretti tra il tavolo e le sedie, i duellanti non hanno perso occasione per mettere in atto la loro performance: Obama è stato decisamente più vivace, reattivo, spesso aggressivo e pronto a schernire lo sfidante richiamando alcune delle gaffes che lo hanno reso famoso (quella sulla Russia come nemico numero uno, per esempio). Romney, dalla sua porzione di tavolo, ha cercato  più volte di spostare il discorso su un terreno a lui più congeniale: economia, crisi e lavoro che non c’é. Nonostante la brutta figura del primo dibattito, Obama aveva recuperato terreno sullo sfidante. Almeno nei faccia a faccia televisivi. La battaglia si spostava dunque nei vari Stati per conquistare più elettori possibili, soprattutto nei cosidetti “swing states”, gli stati in bilico. E fino all’Election Day del 6 novembre nessun colpo è stato risparmiato.

Tra l’ultimo dibattito e l’Election Day ha fatto irruzione Sandy, con la sua forza distruttiva che ha messo in ginocchio milioni di persone. Qui a downtown Manhattan, siamo rimasti senza elettricitá, wifi e acqua per ben una settimana. Con gli ascensori che non funzionavano una democrazia diversa prendeva forma nelle scale: quelli del piano 23 invidiavano quelli che come me vivono al terzo piano. In altre parti del Paese e della stessa New York molta gente è ancora alle prese con i danni. Resi ancora peggiori dalla forte nevicata dei giorni scorsi.

Finalmente, seppur condita dall’ansia dell’attesa, la notte del 6 novembre è passata e, come la stragrande maggioranza dei non americani sperava, Obama è stato rieletto. Pare che se avessero votato gli europei, il candidato democratico avrebbe vinto con oltre l’80% dei voti. Comunque gli americani hanno votato, in percentuale anche “alta”, se paragoniamo il 62% di oggi con quel risicato 41% nelle consultazioni di medio termine del 2010. E, tramite i grandi elettori, hanno ridato fiducia al leader che il sistema sta trasformando in burocrate. Il gaudio nelle strade la notte del 6 novembre, infatti, non era paragonabile a quello del 2008. Complice anche il freddo e la neve.

A proposito di clima, e non solo elettorale, per quanto nessuno dei due concorrenti alla Casa Bianca abbia menzionato il global warming nei discorsi elettorali, sembra che l’uragano Sandy abbia in qualche modo favorito Obama. Piuttosto che parlare del “tempo che fa”, i duellanti si sono concentrati sul chi è in grado di combattere meglio contro i “bad guys” o di tenere testa all’invasione della Cina. Nessun accenno al mancato impegno nei trattati sul riscaldamento globale e, come immaginavamo, nessuna plausibile idea sulla decadenza dell’American Dream. Ovvero, nessuna spiegazione del perchè la società statunitense accetti che la maggiore disuguaglianze di reddito conviva con la minore tassazione della ricchezza.

Pochi giorni prima del 6 novembre il colpo di scena mancato in tv c’è stato sui giornali. Il New York Times titolava in prima pagina: International Monetary Fund and others say that income inequality represses economic growth. Mentre Obama e Romney facevano a gara per aggiudicarsi i voti della middle class (da non dimenticare che l’80% degli americani, a prescindere che guadagnino 20mila o 300mila $ annui si considerano tali), policy experts ed economisti da premio Nobel come Stiglitz o Krugman hanno denunciato il circolo vizioso tra disuguaglianza e crescita, evidenziando come siano due facce della stessa medaglia. E quando ai loro moniti hanno replicato due economisti del FMI, del calibro di Ostry e Berg, con metafore del tipo “When a handful of yachts become ocean liners while the rest remain lowly canoes, something is seriously amiss”allora qualcuno ha iniziato a drizzare le orecchie e alzare la voce. Per la crescita economica, certo, ma anche per l’eco dell’Arab Spring che ancora rimbomba in sala stampa. E infatti, una delle prime dichiarazione di Obama appena rieletto, richiamava la necessitá di riaprire la discussione con i lider del Congresso per il tanto annunciato aumento delle imposte sul reddito dei super ricchi. La diseguaglianza mina la democrazia, Obama ne è consapevole, ma ha davanti un lungo trend da fronteggiare. E non sará facile.

Come ha scritto Lapo Berti, il liberalismo economico che ha preso forma fra gli anni ‘70 e ‘90 del secolo scorso è in crisi, ma non lo è perché ha perso la battaglia delle idee. Lo è perché non ha saputo essere all’altezza dei problemi che ha contribuito a creare, e soprattutto non è stato capace di produrre un nuovo modello di coesione sociale, determinando, anzi, una scissione della società che contrappone gli interessi dell’1% a quelli del restante 99%. Se non fosse ancora chiaro, come il sogno si trasforma in incubo, basta uno sguardo sulla crescita della povertà negli Stati Uniti: un quadro alquanto drammatico. Più del 15% della popolazione vive sotto la soglia della povertà. Parliamo di 50 milioni di americani. Si tratta della percentuale più alta dal 1993 a oggi. In termini assoluti è il numero maggiore di “poveri” dai tempi della Grande Depressione. Oltre 50 milioni di americani sono inoltre privi di qualsiasi copertura sanitaria. Con il reddito medio di un nucleo familiare che è sceso sotto i 50mila dollari ed è, oggi, il 7% in meno rispetto a 12 anni fa.

Se è vero che la crisi del 2007-2008 e quel che ne è seguito ha fatto scoppiare queste contraddizioni, contribuendo ad attivare le forme di protesta all’ombra di Wall Street, è pur vero che i dati sulla povertà ci offrono una fotografia parziale e quasi rosea rispetto ad un altro dato: lo scarto tra redditi più alti e redditi più bassi che è ai livelli degli anni ‘20 del secolo scorso. Basti pensare che il reddito dell’1% più ricco del paese è cresciuto di quasi 3 volte nell’ultimo trentennio, mentre quello dei 9/10 degli americani non è praticamente aumentato. Non parliamo nemmeno di quello dei super-ricchi. Lasciamo parlarne loro, piuttosto: Warren Buffett, ad esempio, il guru della finanza americana che si è spinto a denunciare che bisogna far pagare una tassa ai super ricchi per aiutare la ripresa economica. “Mentre i poveri e la classe media combattono per noi in Afghanistan e la maggioranza degli americani stenta ad arrivare a fine mese, noi, gli ultraricchi continuiamo a ricevere straordinari sgravi fiscali”. Così ha scritto qualche mese fa in un articolo sul New York Times il terzo uomo più ricco al mondo. Tanto per far capire come la maggiore disuguaglianze di reddito conviva con la minore tassazione della ricchezza: nel 1950 la cifra massima delle tasse in America era il 91%, oggi si aggira sul 35%.  E lo stesso Buffett spiega che l’anno scorso ha pagato di tasse il 17% del suo reddito, mentre le venti persone che lavorano nel suo ufficio hanno sborsato il 36%. La sua segreteria, per esempio. O la metà degli Stati Uniti: il famoso 47% che secondo Romney è incapace di assumersi le proprie responsabilità. Lo stesso milionario Romney che ha ammesso di pagare il 14% di tasse.

Come evidenzia l’amico Del Pero, la società statunitense oggi continua a sommare iniquità a iniquità, ad acuire cioè forme di diseguaglianza sociale già macroscopiche. È un processo che si è dispiegato negli ultimi trenta/quarant’anni, in conseguenza di trasformazioni strutturali dell’economia statunitense e mondiale – che hanno di fatto aumentato il gap tra lavoratori con alti livelli d’istruzione e qualifica professionale e lavoratori generici e non qualificati – ma anche di precise scelte politiche, dai tagli alle tasse sui redditi e capitali alla deregulation del settore finanziario. Tanto da parte dei repubblicani che dei democratici. Quali, infatti, le proposte provenienti da destra e sinistra che hanno caratterizzato la politica interna degli ultimi decenni? E, soprattutto, quali sono le reali possibilità di azione di governi che dipendono sempre piu’ dalle istituzioni finanziarie? La politica e le istituzioni diventano il simbolo di un’inefficacia figlia di incompetenza, disonestà, insufficiente attenzione verso l’interesse generale. E lo dimostra il tasso di approvazione del Congresso che oggi è ai suoi minimi storici (il 12% contro il 79% di disapprovazione).

Di fronte alle istituzioni delegittimate e ad una agenda dell’alternativa che rimane desolatamente vuota, paralizzata dall’affermazione del “pensiero unico” e della “fine della storia”, il grido indignato delle  proteste all’insegna del We are the 99 percent si ergeva tra i grattacieli dai vetri opachi per criticare questo vuoto. Vuoto reso oggi più assordante dall’assenza delle voci di chi lo emetteva. Se dovessi rinvenire un filo rosso tra i discorsi che circolavano a Liberty Square lo scorso autunno, sarebbe l’impegno nel denunciare la pressione di una disuguaglianza insostenibile che sta distruggendo il famoso American Dream, il mito dell’ascesa sociale che ognuno di noi associa con questa terra, e che ogni candidato presidente pone al centro della sua narrazione (il core message della sua story, o del suo brand, potremmo dire oggi). Proprio il mito dell’American Dream, ovvero del riscatto sociale per mezzo di un sistema meritocratico, sembra oggi entrato in crisi in ogni istituzione statunitense: da Wall Street al Congress, dalla Catholic Church alle corporations, sino alla Major League Baseball. Incompetenza e corruzione sembrano aver fatto implodere un sistema che da molte decadi siamo soliti associare alla torcia della Statua che accoglieva  i migranti all’entrata del porto di New York. Gli stessi migranti che oggi arrivano in aereo al JFK con visto turistico, o nascosti sotto i camion al confine col Messico, sperando di non esser scoperti.

Come denuncia Christopher Hayes in Twilight of the Elites, il contratto sociale  tra gli ordinary citizens e le elites è ormai ridotto a brandelli. Eppure, da sempre, ogni candidato presidente afferma con forza di “essersi fatto da sè”. In tutte le conventions, sia democratici che repubblicani, hanno sempre messo la Meritocracy al centro del loro messaggio, della loro mission: lo stesso Romney come Obama, aderendo entrambi alla narrazione  richiesta da un sistema che si fonda sull’ideologia della meritocrazia. Ma non ci si rende conto che per arrivare a far parte delle elites è necessario introiettare il sistema e le sue regole, che spesso sono dettate da un’elite, appunto, che, diventata tale, non è piu’ accountable alla societá che la produce? Non deve piu’ rendere conto di quel che fa e non fa. That’s it.

Se è vero che la Meritocracy corrisponde da secoli alla bandiera degli Stati Uniti, la critica di Hayes evidenzia come dagli anni ’60 i diversi gruppi di uomini e donne che sono arrivati al potere hanno imparato ad abbracciare la crescente disuguaglianza che li ha portati al top della scala sociale. Proprio la loro ascesa ha accentuato la distanza sociale, generando al contempo una nuova élite, più incline alla rottura e alla corruzione di tutte quelle che l’hanno preceduta.

Se non fosse ancora chiaro, si tenga presente che nel 1970 negli Stati Uniti il reddito al lordo delle tasse di un top manager era circa 30 volte più alto di quello del lavoratore medio, oggi la distanza è pari a 263 volte. Dalla fine degli anni ’70, il reddito al netto delle tasse del quinto più ricco della popolazione è cresciuto cinque volte più velocemente di quello del quinto più povero E il punto dolente è che la crescita delle disuguaglianze ha lasciato totalmente imperturbabili i difensori di questo “capitalismo esclusivo” sotto un profilo ideologico.

Che fare dunque? Se vogliamo salvarci tutti, bisogna Salvare il capitalismo dai capitalisti, come dice da anni Zingales, uno di quegli economisti che se hanno mai incrociato il movimento dei 99% è perchè passavano da Zuccotti Park per entrare nel direttivo della Goldman Sachs. Lo stesso Zingales denuncia che le èlite politiche sono diventati degli attori strategici che investono la maggior parte del loro tempo e delle loro risorse nell’amministrare la loro percezione di responsabilità, mentre non sono più solo l’oggetto dello scrutinio popolare e dei periodici test di responsabilità e di affidabilità per quello che hanno o non hanno fatto.

Come a dire che, per quanto si individui nella società civile il luogo principale in cui la responsabilità condivisa possa esprimersi nelle sue potenzialità, non bisogna dimenticare come lo Stato democratico e il suo potere di tassare, spendere e regolare rimanga il principale strumento per la società di condividere la responsabilità tra i suoi membri.

Per salvare dunque il capitalismo dai capitalisti dovremmo allora rivedere i meccanismi di  legittimazione delle elite all’interno della democrazia. Per esempio, ironizzando, ma non troppo, per queste elezioni avremmo potuto chiederci: Which Millionaire Are You Voting For? Perchè, come scrive Carnes in White-Collar Government – si può scegliere tra Republicans o Democrats, conservative or progressive, ma in un modo o nell’altro non si può scegliere di non essere governati dai ricchi. Che sia un avvocato nero o un businessman bianco è comunque un Harvard-educated millionaire. Uno dell’elite.

Ci avete mai pensato che se i milionari americani fossero un partito politico, rappresenterebbero a malapena il 3% delle famiglie americane, eppure hanno una maggioranza al Senato, la maggioranza alla Camera, la maggioranza della Corte Suprema e un uomo alla Casa Bianca? E se gli operai americani fossero un partito politico?  Rappresenterebbero più della metà del paese, ma con il sistema “meritocratico” attuale non ottengono più del 2% dei seggi al Congresso. Che sia possibile cambiare questa tendenza?

In attesa di trovare la risposta, riflettiamo sul fatto che nel 1945, le due camere vedevano il 98% di maschi, mentre oggi le donne sono quasi il 20%. Ancora poche, of course, ma forse un segno che il Millionaires Party non è poi così invincibile.